Quale giustizia senza perdono?

Perché il perdono è un tema così decisivo nella nostra vita umana e cristiana?


Perché la nostra vita conosce il male, questa contraddizione, questa negazione del bene che non possiamo rimuovere né negare. Il perdono ha a che fare con il male, che noi facciamo a noi stessi e agli altri, che gli altri ci fanno. Il male – nelle sue varie forme del cattivo pensare, del malvagio agire, dell’offensivo  parlare – è una realtà nella nostra vita e nelle nostre relazioni. Il male – dice Gesù – è ciò che nasce dal nostro cuore e diventa aggressività, violenza, odio verso gli altri e verso noi stessi (cf. Mc  7,20-23; Mt 15,18-20) . Il male è ciò che io faccio nonostante voglia fare il bene, confessa l’Apostolo Paolo (cf. Rm 7,18-19) . Non a caso le domande che rivolgiamo a Dio nel Padre nostro sono: “Non abbandonarci alla tentazione” e “Liberaci dal male” (Mt 6,13); e queste richieste sono precedute da quella del perdono di Dio, invocato perché ci renda capaci di perdonare i nostri fratelli: “Rimetti  a noi i nostri debiti, come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori” (Mt 6,12).
Il male come azione malvagia ci accompagna per tutta la vita. Nel quotidiano il più delle volte non ha conseguenze vistose; in alcune circostanze invece esplode e ci spaventa, provocando in noi indignazione. In ogni caso, il male è sempre banale… L’uomo si abitua al male, e soprattutto, la violenza può nutrire il male, farlo crescere fino alla negazione dell’altro, degli altri. Siamo sinceri con noi stessi: non arriviamo alla tentazione di voler vedere scomparire chi ci è nemico, di voler vedere escluso dal nostro orizzonte un altro che ci ha fatto del male? Non siamo tentati di ripagare con lo stesso male chi ci ha fatto del male? Non giungiamo perlomeno a sperare il male per chi ci ha fatto soffrire?
Questo è l’istinto di conservazione: vogliamo vivere a ogni costo, anche senza gli altri e magari contro gli altri. Siamo tutti malati di philautía, l’egoistico amore di noi stessi, e quando siamo offesi ci difendiamo attaccando, come gli animali. Siamo tentati di rispondere al male con il male, alla violenza con la violenza, alimentando così una spirale di odio e vendetta che finisce per mostrare la sua qualità mortifera. Noi sappiamo che per intraprendere il cammino di umanizzazione in vista di una vita piena di senso, dobbiamo impedire la vittoria del male su di noi e la spirale di violenza che ne consegue: è qui che si colloca il perdono, che è innanzitutto interruzione del male, dire no a una logica di morte.
Gesù con la sua vita ha cercato di narrarci il volto di Dio fino a vivere lui stesso il perdono fino all’estremo. Perdono donato anche ai suoi carnefici, ai suoi aguzzini, a chi lo ha condannato a morte e angariato durante la sua esecuzione: “Padre, perdona loro perché non sanno né quello che dicono né quello che fanno” (cf. Lc 23,34). Proprio per aver ricevuto la testimonianza e l’insegnamento di Gesù, Paolo nella Lettera ai Romani ci ha rivelato Dio quale fonte di ogni perdono. Ecco lo straordinario annuncio dell’Apostolo: “Dio dimostra il suo amore verso di noi nel fatto che, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi. A maggior ragione ora, giustificati nel suo sangue, saremo salvati dall’ira per mezzo di lui. Se infatti, quand’eravamo nemici, siamo stati riconciliati con Dio per mezzo della morte del Figlio suo, molto più, ora che siamo riconciliati, saremo salvati mediante la sua vita” (Rm 5,8-10) .
È una scandalosa simultaneità: mentre noi odiamo Dio, Dio ci ama e ci perdona; mentre noi siamo peccatori, Dio ci riconcilia con sé. Questo è il cristianesimo, a tal punto che Hannah Arendt,  filosofa ebrea e non credente, ha scritto: “A scoprire il ruolo del perdono nell’ambito delle relazioni umane fu Gesù di Nazaret” ( Vita activa. La condizione umana ). Questo è lo scandalo della croce  di Cristo , e solo nella folle logica della croce si può comprendere il perdono di Dio verso di noi, e quindi il nostro perdono verso noi stessi e gli altri.
Ma nel nostro cuore, di fronte a questo perdono così radicale ed esteso, sorge una domanda: e la giustizia? Misericordia, perdono sì, ma la giustizia? Certo, è anch’essa un attributo del Nome di Dio (“… non lascia senza punizione, castiga la colpa dei padri nei figli e nei figli dei figli fino alla terza e alla quarta generazione”: Es 34,7 ). Ma guai a noi se misurassimo la giustizia di Dio con i nostri criteri umani, se proiettassimo in Dio la nostra giustizia. La giustizia degli uomini è necessaria, capace di sanzionare il male, di arginarlo; ma solo la misericordia sa rendere all’uomo la sua dignità, sa fare del colpevole una creatura nuova, perché l’uomo ha bisogno di giustizia, ma anche di amore e gratuità del perdono. Solo la misericordia permette di fare giustizia senza vendicarsi, senza umiliare il colpevole, e di perdonare senza svuotare la legge, il diritto. Noi cristiani dobbiamo fare un altro passo avanti nella comprensione della giustizia e nel cammino di umanizzazione. È stato il beato Giovanni Paolo II ad aprirci il cammino alla comprensione di come sia possibile coniugare perdono e giustizia. Nel suo Messaggio per la giornata mondiale della pace del 2002 egli ha  confessato che, confrontandosi con la Parola di Dio contenuta nelle sante Scritture, era giunto a comprendere che il Vangelo esige che il principio “perdono” sia immanente a quello di “giustizia”.
Così ha potuto coniare un’affermazione che dà il titolo al suo testo: “Non c’è pace senza giustizia, non c’è giustizia senza perdono”. Questo il messaggio che chiede a tutti una prassi di perdono affinché sia possibile edificare insieme una polis, segnata da giustizia, pace, solidarietà comune. Ma Giovanni Paolo II ha anche chiesto che il perdono sia anche una virtù proposta alla comunità civile. Così scriveva: “Solo nella misura in cui si affermano un’etica e una cultura del perdono, si può anche sperare in una ’politica del perdono’, espressa in atteggiamenti sociali e istituti  giuridici, nei quali la stessa giustizia assuma un volto più umano”.
Questa la risposta alle patologie della società, ai conflitti che dividono gli uomini contrapponendoli tra loro. L’ordine sociale e la costruzione della polis non possono avvenire senza coniugare  giustizia e perdono. Bisogna quindi situare il perdono anche in ambito giuridico: occorre arginare e disarmare il colpevole, occorre la detenzione per impedirgli di reiterare i delitti; ma nello  stesso tempo occorre pensare a una rieducazione, a un cammino di umanizzazione e di reinserimento nella società, mostrando anche la possibilità di un perdono, di un condono. Già ad Atene,  nell’antichità, si conosceva l’amnistia, con lo scopo della riconciliazione nella polis. Nel contesto economico, il perdono può essere esercitato con la remissione del debito dei Paesi poveri, dando  loro la possibilità di un’economia che conosca uno sviluppo. Sì, il perdono, come ha detto Giovanni Paolo II (“Le famiglie, i gruppi, gli stati, la stessa comunità internazionale, hanno bisogno di aprirsi al perdono per ritessere legami interrotti, per superare situazioni di sterile condanna mutua, per vincere la tentazione di escludere gli altri non concedendo loro possibilità di appello. La capacità di perdono sta alla base di ogni progetto di una società futura più giusta e solidale”): a livello giuridico, politico ed economico internazionale non è solo un atto che vuole dimenticare un  passato che altrimenti potrebbe alimentare il conflitto, ma apre a un nuovo futuro. Perdonare è prendere coscienza che è necessario rinnovare la comunicazione, la relazione con l’altro, per non negarlo, per non lasciarlo nella condizione di nemico. Si pensi al perdono reciproco che si è attuato tra neri e bianchi in Sudafrica o a quello tra ebrei e palestinesi al fine di giungere a una pace vera e duratura. Il cammino del perdono è il cammino dell’umanizzazione, è il cammino di Dio per noi uomini.

 

in “Avvenire” del 27 agosto 2011

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