Identità dissolta

In questa pagina pubblichiamo alcuni stralci del capitolo su «Laicità dello Stato e religioni».
L’aggettivo laikós indicava o­riginariamente un membro della Chiesa, che fa parte del laós tou theou, il «popolo di Dio».
Ciò è ancora più evidente se si con­sidera la traduzione latina del ter­mine, che non è il generico popu­lus, bensì plebs, che indicava speci­ficamente la comunità cristiana.
L’inevitabile evoluzione del termine nei secoli successivi è specchio non solo di peculiari condizioni storiche – particolarmente, in questo caso, le divisioni provocate all’interno della comunità cattolica dalla Riforma protestante nel XVI e XVII secolo –, ma anche e soprattutto dell’oriz­zonte culturale a essa sotteso.
Si è così progressivamente giunti a i­dentificare la condizione di «laicità» come uno stato di autonomia della politica dalla sfera religiosa e come indice della possibilità di raggiun­gere la verità tramite la sola ragione, prescindendo dalla fede.
In entrambi i casi, l’autentico signi­ficato del termine, per come si è e­voluto nel corso dei millenni, è sta­to snaturato.
Se da una parte, infat­ti, non si può non concordare sul concetto di distinzione dei poteri e dei ruoli che spettano rispettiva­mente alla Chiesa e allo Stato, è in­vece difficilmente condivisibile la te­si secondo cui uno Stato è «laico» perché nel suo legiferare prescinde completamente dalla religione e dai suoi contenuti.
Questa posizione si può riassumere con la massima di Ugo Grozio, fatta propria, quasi fos­se una formula magica, dal movi­mento secolarista, il quale però ne ha corrotto il significato originale: etsi Deus non daretur, «come se Dio non ci fosse».
Analogamente, è as­surdo temere che la verità della fe­de possa attentare all’autonomia della ragione, oppure teorizzare che solo questa possa raggiungere la ve­rità, e fa meraviglia che i fautori di ta­li posizioni non ne siano coscienti.
Se si è giunti a questa concezione moderna del termine «laicità» – è bene ribadirlo –, in ambito sia filo­sofico sia politico, è solo perché nel cristianesimo si erano precedente­mente sviluppate le forme concet­tuali ed espressive che ne permise­ro il comune riconoscimento, no­nostante l’uso ambiguo e spesso strumentale a cui il termine è sog­getto.
Rivendichiamo, pertanto, la primogenitura di questa concezio­ne, non per orgoglio – anche se a­vremmo tutti i diritti per farlo –, ma esclusivamente perché ci venga ri­conosciuto un diritto di originalità che non ci può essere sottratto, se non altro per rispetto della verità storica.
Ultimamente, si sente parlare sem­pre più spesso di «etica laica».
Cosa si nasconda dietro questa espres­sione è facile immaginarlo, alla luce di quanto abbiamo esposto in pre­cedenza.
Di fatto, si vuole imporre questo concetto per accreditare la tesi di un’autonomia, soprattutto dalla sfera cattolica, in grado di fa­vorire la scienza e così produrre pro­gresso.
Quanto questa visione sia in­genua è evidente.
Per sua stessa na­tura l’etica non ha alcuna colora­zione e ogni sua ulteriore qualifica­zione risulta pleonastica.
L’etica, in­fatti, riconosce il primato della ra­gione e assieme alla ratio giunge ai principi fondamentali che stanno alla base della vita personale.
Difendere in ambito politico l’esi­stenza di un’etica «laica» indipen­dente dalla «morale cattolica» è giu­sto e corretto, ma ciò non implica che i loro contenuti debbano esse­re necessariamente contrapposti.
Significherebbe non percepire il nesso costitutivo che intercorre tra etica e morale cattolica e creare ar­tificiosamente, e con intenti stru­mentali, un’inesistente contrappo­sizione.
Per quanto possa apparire parados­sale, oggi gli Stati hanno urgente bi­sogno di confrontarsi con la que­stione della verità; devono ricercar­la incessantemente e proporla ai cit­tadini soprattutto quando questa ha a che fare con i diritti fondamenta­li della persona, come quelli che ri­guardano la vita e la morte.
Dinan­zi a quei problemi etici particolar­mente controversi, lo Stato deve confrontarsi con la verità e special­mente con quella proposta dalla re­ligione, che più di ogni altra confe­risce valore alla dignità della persona.
Il concetto di tolleranza, applicato oggi ai più sva­riati ambiti – si pensi per esempio alla tolleranza razziale, politica, etnica, sessuale, culturale –, non è di aiuto per risolvere la si­tuazione conflittuale nella quale ci troviamo.
Lo Sta­to non può assestarsi in una sorta di neutralità che tutti accoglie e nes­suno predilige.
Deve senz’altro a­doperarsi per riconoscere e difen­dere le minoranze, anche quelle re­ligiose, ma ciò non può andare a de­trimento della maggioranza pre­sente nel Paese, che ne rappresenta la storia, la tradizione e l’identità.
Infine, riteniamo che in questa sua ricerca e attuazione della verità, lo Stato «democratico» sia chiamato a tenere fede a questo suo fonda­mentale attributo.
In virtù del suo essere democratico, lo Stato non so­lo deve accettare di confrontarsi con la Chiesa, ma deve anche saperne accogliere – solo in un secondo mo­mento temperandole – le eventuali ingerenze.
Non si tratta di una que­stione di laicità ma di democrazia, che dà prova di maturità accettan­do i rischi di tale condizione.
La Chiesa invece, richiamandosi a prin­cipi che hanno un’origine superio­re a quella umana, non potrebbe mai accettare una qualsiasi inge­renza dello Stato riguardo ai propri contenuti.
Ciò non rende una supe­riore all’altro, ma semplicemente ri­conosce l’autonomia e l’autoctonia di entrambe le istituzioni.
La cosa può apparire paradossale, e lo è.
La democrazia, obbligata per sua costituzione ad accogliere in sé elementi che vanno oltre la sfera del­la politica, trova in sé anche i mezzi per neutralizzare eventuali schegge impazzite.
La Chiesa, da parte sua, ben conosce i limiti entro cui può o­perare.
Gli Stati, a volte, ricorrono al Concordato per ratificare i rapporti tra le due istituzioni; si tratta co­munque di uno strumento, non di un fine.
Ciò che caratterizza la pre­senza della Chiesa nel­la società è l’annuncio di un’esistenza che non si esaurisce nelle situazioni e nelle e­ventualità regolamen­tate dalle leggi emana­te dagli Stati, ma va ol­tre.
L’irrilevanza del messaggio cristiano potrebbe sembrare se­gno della laicità acquisita dallo Sta­to, ma in realtà si tratta soltanto di un sintomo della debolezza conge­nita delle strutture che, in tal modo, manifestano la povertà culturale che le minaccia.
I seguaci di Voltaire storceranno il naso, ma, se vorranno essere coe­renti, saranno obbligati, oggi più di ieri, a legittimare la nostra esisten­za all’interno della società; eppure, non potranno esimersi dall’affer­mare che siamo un’anomalia, una presenza fortuita, accidentale, ad­dirittura fastidiosa soprattutto in questi ultimi tempi, perché tanto in­gombrante con le sue certezze e i suoi dogmi.
La pretesa di verità che rechiamo contraddice il loro prin­cipio di tolleranza – espressione ge­nuina di dogmi laicisti – secondo il quale sarebbe meglio per tutti, e per il progresso della società, se fossimo confinati nel privato, senza alcuna possibilità di esprimerci pubblica­mente su questioni di carattere so­ciale ed etico.
Non è lontano da questa stessa ten­tazione anche chi si richiama a una rinnovata comprensione dello Sta­to etico, che legifera non solo pre­scindendo dalla morale presente nella società, ma si arroga la facoltà di presentarsi come istanza morale assoluta, traendo dall’ideologia l’i­spirazione per i propri interventi le­gislativi.
L’apertura degli Stati generali a Versailles il 5 maggio 1789, uno degli atti fondanti della Rivoluzione francese Rino Fisichella RINO FISICHELLA, Identità dissolta.
Il cristianesimo, lingua madre dell’Europa, Mondadori, Milano 2’009, pp.
144, euro17.
Va in libreria da oggi «Identità dissolta», il nuovo libro di monsignor Rino Fisichella su «il cristianesimo, lingua madre dell’Europa» (Mondadori, pp.
144, euro17).
L’arcivescovo rettore dell’Università Lateranense nonché Presidente della Pontificia Accademia per la Vita cerca di rintracciare nella matrice religiosa scaturita dal Vangelo un’«impronta» genetica, quasi un denominatore comune che continua ad essere utile per la crescita anche sociale e civile del Vecchio Continente, soprattutto in questo momento «gravido di sfide» in cui il pluralismo, le migrazioni, il multiculturalismo contribuiscono a rendere più vaga l’identità europea.
L’ultimo capitolo è dedicato all’«emergenza educativa», argomento dell’appena concluso Forum del Progetto culturale della Cei.
Da tempo si assiste, in Europa, a un progressivo distacco della vita e della discussione politica dalle istanze della religione, in particolare quella cristiana.
In un mondo multiculturale e multireligioso e in un contesto europeo in cui sempre più sono gli immigrati che professano fedi non cristiane e sempre più sono i laici che contestano la validità e l’importanza della religione nell’epoca moderna, sembra forse giusto e condivisibile lasciar perdere, come un relitto che viene da un tempo ormai finito, la matrice religiosa cristiana che accomuna tutti i paesi del continente.
Tuttavia, come sostiene il cardinale Fisichella, questo sarebbe un grave errore: proprio perché in difficoltà nella definizione della propria identità, l’Europa dovrebbe fare tesoro delle sue radici che affondano nella religione cristiana.
Attraverso di esse, infatti, laici e credenti di tutti i paesi europei possono rifarsi a un quadro etico e morale condiviso, a una vera concezione di rispetto e tolleranza interreligiosa, a una base filosofica naturale per i diritti umani fondamentali.
Pubblichiamo uno stralcio del primo capitolo del volume Identità dissolta (Milano, Mondadori, 2009, pagine 138, euro 17).
Non mi è stato facile dare un titolo a questo saggio.
Alla fine l’idea vincente si è condensata in due parole: Identità dissolta.
L’aggettivo, però, merita di essere precisato per non dare al lettore l’impressione che l’analisi compiuta nelle pagine seguenti sia permeata di un latente pessimismo che non mi appartiene.
Spesso negli ultimi anni si è parlato giustamente di identità dell’Unione europea.
Una realtà come questa, che nasce sulla base di tradizioni culturali diverse, dovrebbe costruirsi intorno a tratti comuni che lascino percepire chi è il soggetto in questione.
E mia forte convinzione che per poter offrire un contributo significativo a questa tematica sia necessario ripercorrere un cammino che appare spesso offuscato, quando non del tutto sconosciuto.
C’è stato un tempo in cui l’identità dei popoli che costituivano l’attuale Unione europea era evidente, chiara e subito riconoscibile.
Oggi non è più così.
Negli ultimi decenni si è creata progressivamente una condizione di dissolvimento di questa identità, che appare drammatica in quanto a essere in gioco è la sorte delle giovani generazioni.
La ricchezza economica raggiunta, le sofisticate tecnologie disponibili e lo stile di vita acquisito sembrano aver favorito la disgregazione dell’identità conservata per secoli, che si è sciolta come neve al sole.
Le radici su cui era cresciuta la cultura europea sembrano essersi seccate e così la pianta non produce più i frutti sperati.
La storia di generazioni di persone che per secoli hanno vissuto con punti di riferimento normativi per la convivenza sociale viene oggi confutata e contraddetta.
Dunque, l’immagine che se ne ricava è proprio quella di un’identità dissolta.
Non sono, però, un pessimista.
E il sottotitolo del libro lo vuole in qualche modo confermare.
Prendo le mosse da una frase di Goethe: “L’Europa è nata in pellegrinaggio e la sua lingua materna è il cristianesimo”.
L’immagine è limpida e, per alcuni versi, solo un poeta poteva descrivere con un unico verso la complessità della realtà.
L’Europa è nata cristiana, e soltanto nella misura in cui conserverà questa identità potrà realizzare ciò che è stata nel passato e ciò che le permetterà di sopravvivere nel futuro senza dissolversi.
Un popolo privo di religione, infatti, tende a perdere coesione e si indebolisce sempre più fino a smarrire completamente la propria identità.
La frase di Goethe coglie una verità che spesso oggi viene volutamente dimenticata da molti: l’Europa, fin dal suo nascere, ha conosciuto il cristianesimo come suo fondamento.
Le ragioni politiche che hanno portato a un serrato dibattito e al mancato inserimento delle radici cristiane nel Preambolo della nuova Costituzione europea hanno mostrato che spesso, anche contro la verità storica, prevale l’opportunismo che tende a negare perfino l’evidenza.
Non è intenzione di queste pagine entrare nel merito del dibattito politico sulle radici cristiane.
Su questo punto tanto si è parlato e poco si è fatto, preferendo cedere alla prepotenza di pochi.
Le radici cristiane dell’Europa, d’altronde, sono talmente visibili che non meritano lo sforzo di una giustificazione.
Chi è responsabile della loro esclusione dalla magna charta, in qualsiasi parte dell’Europa si trovi, sarà ricordato anche per aver ricevuto una risposta negativa quando le popolazioni sono state giustamente interpellate per dare il loro consenso.
Ciò che a noi preme è non far perdere la memoria storica.
È giusto infatti che quanti si affacciano a considerare il nuovo soggetto in questione sappiano che l’Europa non è stata inventata oggi, ma ha fondamenta radicate nei secoli passati.
In questo contesto non si può dimenticare la grande azione svolta da Papa Giovanni Paolo II.
Tra i suoi numerosi interventi in proposito, uno particolarmente significativo del 3 giugno 1997 (a Gniezno, in Polonia) merita di essere citato: “Il traguardo di un’autentica unità del continente europeo è ancora lontano.
Non ci sarà l’unità dell’Europa fino a quando essa non si fonderà nell’unità dello spirito.
Questo fondamento profondissimo dell’unità fu portato all’Europa e fu consolidato lungo i secoli dal cristianesimo con il suo Vangelo, con la sua comprensione dell’uomo e con il suo contributo allo sviluppo della storia dei popoli e delle nazioni.
Questo non significa volersi appropriare della storia.
La storia d’Europa, infatti, è un grande fiume, nel quale sboccano numerosi affluenti, e la varietà delle tradizioni e delle culture che la formano è la sua grande ricchezza.
Le fondamenta dell’identità dell’Europa sono costruite sul cristianesimo.
E l’attuale mancanza della sua unità spirituale scaturisce principalmente dalla crisi di questa autocoscienza cristiana”.
E necessario, pertanto, cercare di individuare alcune tematiche che possano permettere il mantenimento di un dialogo tra credenti e laici.
In forza della ragione comune, entrambi possono scambiarsi argomentazioni per trovare un cammino da percorrere in questa avventura che tende a ricostituire l’unità dell’Europa.
Come abbiamo ricordato, Goethe afferma che “l’Europa è nata in pellegrinaggio”.
Ma non è il solo.
“Nel paese basco c’è, nel cammino di Santiago, un monte molto alto che si chiama Passo del Cize, o perché li si trova la porta della Spagna, o perché attraverso questo monte si trasportano le cose necessarie da una terra all’altra.
La sua salita conta otto miglia e altre otto la sua discesa.
La sua altezza è tale che sembra giungere al cielo e colui che lo sale crede di poter toccare con la propria mano il cielo.
Dalla sommità si possono vedere il mare britannico e l’occidente e le terre di tre paesi e cioè di Castiglia, di Aragona e di Francia.
Sulla cima dello stesso monte v’è un luogo chiamato la Croce di Carlo, perché lì con asce, con picconi, con zappe e con altri attrezzi aprì una volta un sentiero Carlo Magno quando entrò in Spagna con i suoi eserciti e poi, inginocchiato verso la Galizia, innalzò le sue preghiere a Dio e a san Giacomo.
Per la qual cosa, piegando lì le ginocchia i pellegrini sono soliti pregare rivolti a Santiago e tutti loro piantano ognuno delle croci che lì possono trovarsi a migliaia.
Per questo lì si ha il primo luogo di preghiera a Santiago”.
Il passo è tratto dal Liber Sancti Jacobi (più noto come Codex Calixtinus) e risale al 1150.
Rileggere queste pagine, che riportano minuziosamente nomi di strade, villaggi, ospizi, monti e pianure, di re, vescovi e semplici pellegrini, insomma una vera enciclopedia dell’epoca, permette di compiere un’esperienza non comune: immergersi in un mondo che sembra non esistere più.
Il pellegrino del passato era certamente mosso nel suo intento da motivazioni religiose; eppure, queste erano solo l’inizio.
A partire da lì si aprivano spazi che permettevano di immergersi nella conoscenza della natura, dei luoghi sacri, delle città e delle diverse culture del mondo.
Certamente, arrivare fino a Santiago era un’impresa non da poco ed equivaleva a raggiungere il limite del mondo allora conosciuto, oltre il quale non esistevano altro che mare e spazi ignoti.
Il commento, pervenutoci intatto, di un cavaliere tedesco dell’epoca, Arnold von Harff, che aveva intrapreso un lunghissimo viaggio verso Gerusalemme e il Sinai, poi a Venezia e infine a Santiago, permette di consolidare questa impressione: “Per consolazione e salvezza della mia anima, io, Arnold von Harff, ho deciso di compiere un beneficioso pellegrinaggio (…) ma anche per conoscere le città, i paesi e i costumi dei popoli”.
Come si può notare, il pellegrino viveva un’esperienza religiosa e al contempo culturale di particolare valore.
Raggiungere il santuario era lo scopo ultimo, ma questo consentiva di vivere una serie di esperienze che aprivano lo sguardo e allargavano gli orizzonti.
Pellegrinaggio e cultura non erano contrapposti, ma sintetizzati in una visione armonica della vita che favoriva lo sviluppo e la crescita personale.
Curiosità e piacere di conoscere il mondo rientravano nella normale aspirazione di chi iniziava il pellegrinaggio.
A sostenerlo nella fatica e nell’impegno del viaggio, oltre che davanti ai pericoli, erano certamente motivazioni religiose, che tuttavia non gli impedivano di immergersi in profonde esperienze pienamente “culturali”, quali la conoscenza di costumi, modi di vivere e di pensare tra loro diversi anche se accomunati dalla fede in Gesù Cristo.
Il viaggio conservava per lui il particolare valore religioso, che racchiudeva in sé i tratti peculiari della fede cristiana – la carità, la solidarietà, la comprensione della vita come un passaggio attraverso questo mondo, nel quale rimaniamo, per dirla con le parole dell’apostolo Pietro, “stranieri e pellegrini” (1 Pietro, 2, 11) – ma il pellegrino era anche un uomo fortemente curioso, attento a tutto ciò che incontrava e desideroso di imparare.
In altri termini, era un personaggio che ammirava oggetti sulle bancarelle dei mercati, si incantava davanti a musici e giullari, sostava nelle fiere e ascoltava racconti e leggende di vario genere.
Così, insieme ai miracoli dei santi, imparava anche a conoscere le grandi gesta di Carlo Magno, di Orlando e dei paladini le cui tombe trovava sul suo cammino.
Non si dimentichi che questo pellegrino osservava come si costruivano le chiese e, spesso, prestava la propria opera in cambio di vitto e alloggio; nello stesso tempo, però, vedeva come si tingeva la lana e si intrecciavano i vimini, come si forgiava il ferro e si salava la carne, come cambiava, a seconda delle stagioni, l’abbigliamento delle popolazioni che incontrava o come si allevavano animali che non conosceva.
In una parola, il pellegrino imparava come si organizzavano le corporazioni e i comuni, come si strutturavano i mercati e le fiere, per quali vie si trasportavano i carichi di spezie prelibate che giungevano dall’Oriente o i prodotti in pelle provenienti dai Paesi nordici…
Diventava così, suo malgrado, testimone e interprete, protagonista di una trasmissione di tradizioni e costumi, fondamenti basilari di ogni cultura.
La relativa calma della sua casa, del suo villaggio e della sua città veniva turbata da un flusso di conoscenze, informazioni e linguaggi, che suscitavano una sete insaziabile di conoscenza.
Eppure, proprio questo suo porsi come pellegrino attraverso i vari Paesi che percorreva costituiva il punto di partenza per la formazione di un’identità che andava al di là di quella personale, per realizzarsi come fenomeno culturale che si sarebbe stabilizzato nel corso dei secoli.
In qualche modo, avveniva che il pellegrino entrasse a far parte di una “società” che travalicava la sua appartenenza territoriale e linguistica per costituire una condivisione di vita concreta.
Sentimenti, segni di identificazione, interessi e necessità diventavano un bagaglio comune, un tutt’uno facilmente riconoscibile da chi avesse vissuto la stessa esperienza che andava a formare, di fatto, una civiltà di appartenenza.
Insomma, il pellegrino – italiano o fiammingo, greco o scandinavo, ispanico o irlandese che fosse – si riconosceva in un’unica identità culturale che non teneva conto della nazionalità né della condizione sociale né della lingua.
Ciò che accomunava non era una regola scritta, ma un modo di essere, l’assunzione di consuetudini che si radicavano e di comportamenti che si trasmettevano creando una solida tradizione.
Quel tipo di tradizione che sta alla base di ogni genuina storia, di ogni cultura che voglia essere originale e senza la quale non si può capire il presente.
di Rino Fisichella Arcivescovo Rettore della Pontificia Università Lateranense

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