Giugno

Le idee buddiste sulla morte sono fondate sull’antica dottrina indiana del samsara, variamente tradotto come “reincarnazione”, “trasmigrazione” o più semplicemente “rinascita”, ma che letteralmente significa “errare” da una vita a un’altra.
La religione indiana era giunta a ritenere che la vita fosse ciclica: una persona nasce, cresce, muore e quindi rinasce in un altro corpo per ricominciare il processo da capo.
La rinascita può avvenire come essere umano, divinità, fantasma o animale.
La natura della reincarnazione dipende dal karma o “azione” morale.
Chi accumula merito, o buon Karma, nel corso della vita rinascerà in una condizione più propizia della precedente, persino come un dio.
L’opposto capita se prevale il Karma negativo delle cattive azioni.
I colpevoli peggiori, prima di reincarnarsi in una differente forma, devono sradicare i propri demeriti soffrendo in uno degli strati dell’inferno, disposti in rapporto alla severità della loro punizione.
Il livello più basso è riservato a coloro che hanno ucciso i genitori o il maestro.
Il “risveglio” del Buddha ebbe inizio con la comprensione che tutta la vita è sofferenza.
Rimuovendo l’ignoranza Siddharta fu in grado di porre fine alla sofferenza in quell’esperienza che i buddisti chiamano nirvana, termine che letteralmente significa “estinguere” il fuoco del desiderio che il Buddha percepiva come il combustibile per il samsara e fonte della sofferenza.
Per la cultura tibetana la morte è, prima di tutto, un istante che ha un’importanza estrema: bisogna abbracciare coscientemente la morte perché possa condurre alla liberazione.
Essa rientra nel gruppo di quei momenti singolari della vita dell’uomo che il buddismo chiama bardo e a cui è riconosciuta una dignità particolare.
La morte è come un risveglio per colui che si è convenientemente preparato; costui vi può trovare la liberazione definitiva.
Il Libro tibetano dei Morti, il Bardo Thödol, non solo offre all’uomo la possibilità di farsi in anticipo un’idea di questo viaggio mentale tanto atteso, ma deve aiutarlo a esercitarsi in anticipo sul comportamento adeguato, grazie a determinate meditazioni e a determinati rituali.
L’individuo potrà così, nel momento decisivo, raccogliere il frutto di quegli insegnamenti ed esercizi; così la preparazione alla morte diventerà nello stesso tempo il senso della sua vita.
Introduzione Riprendiamo il discorso sulla vita e la morte nelle religioni iniziato il mese scorso con l’ebraismo e il cristianesimo per estenderlo qui all’islam, all’induismo e al buddismo.
Il tema si presta molto bene per un approccio comparativo delle religioni, così come indicato sia negli O.S.A delle Secondarie di Primo grado che in quelle del Secondo grado.
Qualunque siano le immagini, le rappresentazioni e le esperienze veicolate dalle risposte delle religioni alla questione della morte, colpisce il fatto che esse gettino sempre un ponte sulla questione del senso stesso della vita umana.
Dal momento in cui si parla della mortalità, non è possibile evitare di interrogarsi sul valore, sul senso di tutta una vita: confrontare la vita con la sua fine, vuol dire rimetterla radicalmente in discussione.
Ogni tentativo di elaborazione sulla propria mortalità conduce dunque necessariamente a produrre degli enunciati sul ruolo della vita terrena.
Tutta la filosofia induista è basata sul tentativo di migliorare la vita e, pur prendendo avvio da una visione pessimistica (la vita come sofferenza), giunge a una visione ottimistica della propria salvezza.
Si può così meglio comprendere l’atteggiamento fatalistico dell’uomo indù, la rassegnazione dell’individuo, la passività apparente, il non intervento dell’uno nella vita dell’altro.
L’uomo è il solo artefice del proprio destino: né gli dei né gli uomini possono intervenire a suo favore, è solo lui stesso che con la sua devozione può risvegliare in sé le forze purificatrici del suo destino.
Gli dei non sono che la manifestazione riflessa della natura stessa dell’uomo, dei processi vitali del suo corpo, degli impulsi che animano il mondo materiale, delle sue emozioni.
Essi non sono entità esterne all’uomo, ma sono le medesime potenze di cui è intessuto il suo essere, la qualità e i difetti che traspaiono nella stessa sostanza della sua anima durante il ciclo del karma.
Essere in accordo con la divinità, compiendo i riti e seguendo le leggi, significa essere d’accordo con se stessi e garantirsi una vita migliore prima o dopo la morte.
Ne consegue che l’etica nell’induismo è ben diversa da quella occidentale.
L’individuo deve comportarsi secondo le regole del karma-samsara per la sua salvezza che, in fondo, non è che il ritorno al mare dell’acqua contenuta in un vaso.
La vita dell’induista è rivolta a quattro scopi fondamentali: osservare le leggi universali divine, dharma; pensare al benessere proprio e della società, artha; soddisfare in modo lecito i propri desideri, kama; e infine la liberazione o la salvezza, moksha.
Persino nel perseguire questi quattro scopi vi è una progressiva purificazione.
I primi tre sono rivolti all’uomo coinvolto nel mondo che dovrà osservare attentamente il dharma nell’adempiere i propri doveri e le proprie responsabilità: è la via dell’azione, la via che insegna a compiere l’azione disinteressata, a sviluppare quella rinuncia ai propri egoismi, ad allargare il senso dell’io all’umanità intera.
Questa ricerca della verità pratica (sadhana) inizia dall’infanzia, quando, i genitori prima, e i maestri poi, iniziano il bambino all’ordine universale.
Le stesse preghiere lo abituano alla contemplazione del cosmo, gli fanno aprire la mente al valore dei principi universali.
L’idea dell’armonia del tutto assorbe quella della sua individualità e, come si dissolve la neve al sole, così si dissolve il suo egoismo nella vita universale.
Egli impara a riconoscere il mutuo scambio della vita, impara a usare ciò che ha; sapendo che nulla gli appartiene, ma che riceve in uso da Dio tutto, compresa la sua vita stessa.
Questa è la via del laico, di coloro che vivono nel mondo e nella società, stadio in cui non è chiesto di rinunciare al desiderio, ma di soddisfarlo secondo le leggi divine e s’impara così a utilizzare ciò che si ha per il benessere collettivo.
L’analogia tra il piano materiale e il piano spirituale viene affermata in ogni momento della giornata e anche il modo di vivere del laico conduce in maniera naturale alla spiritualità.
Le diverse sadhana sono altrettante vie che permettono di santificare l’esistenza umana e divinizzarla; ciò che vi è di comune è il metodo perseguito da ciascuna via e che prevede l’orazione, il rituale, la meditazione.
A seconda dei temperamenti dell’uomo, si percorrono tre differenti vie: la via della devozione, quella della conoscenza e quella dell’azione.
Esse non sono mai isolate l’una dall’altra, s’integrano e si completano.
Nessuna via esclude le altre.
Ricerca e purificazione sono mezzi necessari per la vera trasformazione dell’essere, per la realizzazione di uno stato di felicità e pace: quella gioia suprema che porta la conoscenza di Dio.
A seconda del grado di evoluzione di ogni singola persona, la sadhana accompagna il graduale risveglio dell’essere fino alla completa liberazione nella quale il ruolo della rinuncia gioca un aspetto fondamentale.
Nell’induismo, l’insegnamento della rinuncia, riferita alla vita monacale, non viene concesso a tutti ma solo alla persona qualificata.
Donare se stessi è uno dei più alti scopi, come l’atto di Dio che offre se stesso in quell’immenso sacrificio che è la creazione stessa.
Lavora e vivi come un atto d’offerta per ottenere fama immortale e completa soddisfazione di aver vissuto una vita.
Ricordati, tu sei figlio dell’immortalità e tutta la vita non è altro che un’offerta.
Non dimenticare mai che il nettare del fiore della grazia è per quelli che sacrificano e la vita offerta è la vita accettata.
Lascia che la sacra fiamma del fuoco divino brilli splendente nel tuo spirito.
(Atharva Veda 15-17-10) La concezione buddista della vita è racchiusa nelle Quattro Nobili Verità che rappresentano il nucleo della predicazione primitiva e che sono fondamentali per tutte le scuole.
La struttura di queste verità riproduce sostanzialmente lo schema diagnostico dell’antica medicina indiana, in cui si susseguono ordinatamente gli elementi che seguono.
1.
L’accertamento dei sintomi della malattia che provocano sofferenza in un malato sta alla base della comprensione del disagio esistenziale (dukkha) dell’individuo.
La presa di coscienza dell’universalità della sofferenza è fondamentale nell’iter intellettuale e meditativo che conduce al distacco dal mondo: «Tutto è soltanto dukkha per chi sa passare al vaglio l’esperienza», recita un celebre aforisma dei testi Yogasutra.
In tale presa di coscienza sono individuate successivamente delle modalità che conducono a comprendere che la nascita stessa è sofferenza, la vecchiaia è sofferenza, la malattia è sofferenza, la morte è sofferenza… La prima nobile verità rimanda, a un livello di maggiore profondità: al principio che la sofferenza è immanente all’esperienza, allorché ci si attacca ai cinque elementi (skandha) che la compongono.
2.
Dall’accertamento del morbo si passa alle sue cause: le cause della sofferenza esistenziale degli individui.
Esse sono individuate in quella “sete”, in quel “fuoco” insaziabile che, partendo dagli oggetti, arde i sensi e la mente e che mai potrà trovare appagamento negli oggetti stessi.
La seconda Nobile Verità distingue tre ordini di “oggetti”: a) il desiderio dell’oggetto bramato di tipo essenzialmente amoroso; b) l’esistenza intesa come auto perpetuarsi dell’individuo attraverso il ciclo delle rinascite; c) il desiderio di auto dissoluzione, fine bramato da chi è soggetto a gravi sofferenze.
3.
Così come la curabilità della malattia è data dalla soppressione delle sue cause, allo stesso modo la Terza Nobile Verità invita l’individuo a bloccare la sofferenza mettendo fine alla sete insaziabile.
Tradizionalmente viene qui presentata un’antichissima descrizione del Nirvana, concepito in termini negativi.
4.
La terapia per il malato necessaria alla sua guarigione, dipende dalla natura della malattia che si intende contrastare.
Analogamente la Quarta Nobile Verità introduce le tappe di una pratica ascetica che forma il Nobile Sentiero dalle Otto vie: esso coincide con una vista appropriata, una decisione appropriata, una parola appropriata, un’azione appropriata, dei mezzi di sussistenza appropriati, degli esercizi appropriati, un’attenzione appropriata, una concentrazione appropriata.
La medicina prende in considerazione le cause superficiali delle sofferenze; l’insegnamento buddista indaga sulle cause ultime per garantire un futuro stabile e felice.
Il Sutra del Loto definisce questo mondo come un luogo in cui «gli esseri viventi sono felici e a proprio agio».
Lo scopo della pratica buddista è proprio quello di metterci in grado di godere ogni istante che trascorriamo in questo mondo, fino all’ultimo momento della vita.
La vita nella concezione islamica è un’unità organica: Come potete essere ingrati nei confronti di Dio, quando eravate morti ed Egli vi ha dato 1a vita? Poi vi farà morire e vi riporterà alla vita, e poi a Lui sarete ricondotti.
(Sura, 2,28).
L’uomo ha infatti una consistenza sia fisica che spirituale, è un insieme di materia e di spirito che necessita di particolari cure e attenzioni.
Il sistema di vita islamico ha quindi origine direttamente da Dio che dà all’uomo le indicazioni e le leggi morali per realizzare la giustizia e la felicità già durante la vita terrena.
Lo scopo dell’Islam è quello di realizzare un’umanità sana, che dia importanza sia alla vita temporale che a quella spirituale, senza mortificare nessuna delle due sfere.
Sappiate che questa vita non è altro che gioco e svago, apparenza e reciproca iattanza, vana contesa di beni e progenie.
[Essa è] come una pioggia: la vegetazione che suscita, conforta i seminatori, poi appassisce, la vedi ingiallire e quindi diventa stoppia.
Nell’altra vita c’è un severo castigo, ma anche perdono e compiacimento da parte di Allah.
La vita terrena non è altro che godimento effimero.
(Sura 7,20).
La vita nell’Islam è un impulso verso il bene presente in ogni uomo.
La convinzione forte e radicata dell’esistenza di un Dio a cui dare conto delle proprie azioni fa in modo che per il musulmano sia del tutto naturale sottomettersi a Lui e alle sue leggi, realizzando così quella vita morale a cui l’uomo spontaneamente tende.
La fede è la forza che aiuta all’osservanza della morale.
Il digiuno osservato nel mese di Ramadan, ad esempio, è uno strumento di auto-controllo in una realtà sociale in cui le tentazioni sono molte e i freni morali sono messi alla prova.
Il musulmano praticante deve astenersi dal vizio ed evitare l’invidia che rappresenta un atto di ribellione alla volontà di Dio e al modo in cui Egli ha distribuito i suoi doni tra gli uomini.
La vita è la proprietà di tutti ed è un diritto inviolabile garantito dall’Islam.
I cittadini dello Stato islamico sono quindi sacri e inviolabili, che siano o no musulmani.
L’Islam invita alla comprensione tra i popoli e al superamento di ogni pregiudizio basato sulla diversità: O voi che credete! Siate testimoni sinceri di fronte a Dio secondo giustizia.
Non vi spinga all’iniquità l’odio per un certo popolo.
Siate equi: l’equità è consona alla devozione.
(Sura 5,8).
Il razzismo e qualsiasi tipo di discriminazione sono quindi estranei all’Islam.
1.
Cosa vuol dire che la vita, nella mentalità islamica, è un’unità organica? 2.
Che cosa condivide l’islam con l’ebraismo e il cristianesimo a proposito del tema della morte? 3.
Sai spiegare perché, nella concezione indiana della vita, prevale l’atteggiamento fatalistico? 4.
In che cosa consiste la legge del Karma? 5.
Come definiresti lo scopo della pratica buddista? 6.
Che cos’è il Bardo Thödol? La morte non è la fine della vita, ma solo la fine di uno stato; quando si muore l’anima si reincarna nuovamente, a seconda della condotta tenuta nella vita precedente.
Addirittura, in alcuni casi, ci si può reincarnare anche in animali (chi si è macchiato di colpe particolarmente gravi, è condannato a rinascere anche in un insetto).
La legge inesorabile del Karma lega l’uomo al ciclo della morte e delle rinascite; è la legge secondo la quale ognuno sarà ricompensato in base alle opere compiute; queste opere compiute durante la vita, infatti, lasciano una traccia nell’anima della persona che le ha compiute.
Questo lungo ciclo di rinascite, chiamato samsara (cioè pellegrinaggio) durerà fino al raggiungimento della virtù in possesso dell’uomo che ama Dio e desidera l’incontro con lui come bene supremo e che è capace di azioni buone e disinteressate.
Le reincarnazioni servono a purificare la propria anima, a espiare il peso delle vite precedenti.
Quando finisce il ciclo delle reincarnazioni, anche dopo 800 vite, la persona si immedesima, si dissolve nel Brahman, l’assoluto, realtà unica, perdendo ogni identità, giungendo all’illuminazione e alla conoscenza assoluta e sottraendosi alla vita terrena, che è soltanto apparenza, illusione e dolore.
La nascita e la morte non sono altro che momenti di mutamento nell’eterno flusso della vita.
Come un uomo smettendo i vestiti usati, ne prende altri nuovi, così proprio l’anima incarnata, smettendo i corpi logori, viene ad assumerne altri nuovi.
(Bhagavadgita) Samsara è il cerchio della nascita, della morte, della rinascita, della nuova vita e poi ancora della morte, e così all’infinito.
La fruizione dei desideri accumulati nelle esperienze è la spinta essenziale che, fino al suo totale esaurimento, determina il fenomeno di ritornare in un altro corpo.
Dissolvendo il velo della separazione e dell’ignoranza, si realizza lo scopo unico della vita, la realizzazione del Sé immortale.
La morte è considerata un punto importante del ciclo della vita.
È una realtà necessaria e anche desiderabile, perché la vita, se io non muoio, non può continuare e ricrearsi.
Non è una cosa spaventosa che bisogna combattere a ogni costo, ma un passaggio che bisogna accettare di compiere.
Il suicidio non è visto come una cosa drammatica, ma non è auspicabile.
La morte di un bambino è considerata un fatto anormale, e le morti per incidente appaiono come morti non naturali.
Nello stesso senso, la sofferenza fa parte del ritmo naturale delle cose, dato che la vita comporta inevitabilmente delle sofferenze, legate alla malattia (roga) o alla vecchiaia (jara).
Bisogna vivere attraverso la sofferenza e il dolore, fisico, mentale o spirituale che sia.
Bisogna tener conto del fatto che, se una persona è malata, lo sono anche la sua famiglia, la sua comunità e il cosmo stesso: l’interrelazione è totale.
Ognuno – afferma il dr.
Srinivas dell’Università di Pondicherry – dovrebbe desiderare di raggiungere l’obiettivo supremo della vita che non è altro che la realizzazione del Sé, la liberazione, l’emancipazione (moksha) da tutti i legami.
L’Islam non ritiene che la morte sia la conseguenza del peccato e la dedizione a Dio fa sì che la morte perda tutto ciò che ha di terribile.
Ogni anima gusterà la morte, ma riceverete le vostre mercedi solo nel Giorno della Resurrezione.
Chi sarà allontanato dal Fuoco e introdotto nel Paradiso, sarà certamente uno dei beati, poiché la vita terrena non è che ingannevole godimento.
(Sura 3,185) L’Islam ortodosso condanna ogni interruzione violenta della vita perché rappresenta un’intromissione illecita nelle competenze divine.
Secondo il Corano gli uomini e le loro opere, se buoni secondo le indicazioni islamiche, sono immortali.
Nella mistica islamica è presente anche l’idea che la morte sia una tappa del processo di crescita.
Il mistico Rumi (morto nel 1227) affermava nel suo Corano dei mistici: Guarda! Sono morto da pietra e sono germinato come pianta; sono morto da pianta e mi sono trasformato in animale; sono morto da animale e mi sono trasformato in un uomo.
Di che temo dunque se con la morte non posso trasformarmi in qualcosa di inferiore? Di nuovo, quando sarò morto come uomo, mi saranno date ali da angelo, ma anche come angelo dovrò essere sacrificato, dovrò diventare ciò che non comprendo, un alito divino.
L’Islam ha ripreso la topografia ebraico/cristiana dell’aldilà.
Per la tradizione, che aggiunge molto al Corano, il Paradiso è un luogo elevato «la cui estensione è quella dei cieli e della terra» e che ha per pavimento il trono di Allàh.
Secondo i testi si tratta di uno (o due) giardini, irrigati da due o quattro fiumi; comprende sette piani dei quali l’ultimo è riservato ai màrtiri.
L’inferno, sotto terra, è circondato da una muraglia con sette porte.
Le differenti tradizioni rivelano così il desiderio di disegnare una geografia ideale, una ripartizione spaziale dei defunti secondo la loro purezza e il loro grado di dedizione alla divinità, il valore assoluto.
Secondo la tradizione che riferisce, a tal proposito, alcuni detti del Profeta, Allah accetta il pentimento dell’uomo finché l’anima non risale nel corpo fino alla gola per fuggire via.
Ma non c’è perdono per coloro che fanno il male e che, quando si presenta loro la morte, gridano: «Adesso sono pentito!»; e neanche per coloro che muoiono da miscredenti.
Per costoro abbiamo preparato doloroso castigo.
(Sura 4,18).

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