Cercando il «neurone di Dio»

 

L’interesse per il rapporto fra cervello ed esperienza religiosa non nasce con la scienza moderna o la filosofia della mente.

 

L’ermeneutica biblica dell’uomo imago Dei, le tradizioni d’Oriente, la teologia del logos, la dottrina dei «sensi» spirituali delle teologie cristiane, la pretesa di «razionalità» della rivelazione coranica costituiscono un patrimonio immenso di figure e interessi. Un patrimonio che spiega perché Cartesio cercasse di localizzare l’anima in una ghiandola del cervello e perché il rapporto della religiosità con la mente e il cervello susciti tanto interesse nel secolo XX.


Sarebbe sbagliato rappresentare questa ricerca come un banale conflitto fede/scienza. Perché per alcuni — non sempre, non tutti — la scienza non è un metodo, ma un giudice al quale si deve chiedere di «dimostrare» vuoi la illusorietà vuoi la solidità dell’atto religioso. Sia chi crede di provare che l’idea Dio è una mera funzione interna al pensare sia chi pensa che proprio l’esistenza di funzionalità «spirituali» nel cervello dovrebbe convincere tutti che un disegno superiore presiede all’evoluzione della nostra razionalità — gli uni e gli altri condividono un terreno che spesso viene chiamato «neuroteologia» (una espressione dello scrittore di fantascienza Aldous Huxley).


Per gli uni e per gli altri l’esperienza religiosa viene identificata con uno stato di appagamento, di felicità quieta, di acquisizione di «senso» come rassicurazione del sé, una «sensazione» pacificata: una visione che la letteratura ben conosce — come spiegava già la descrizione del paradisiaco istante che precede l’attacco epilettico ne L’idiota di Dostoevskij — e che viene assolutizzata.


È una storia che inizia già con William James (1842-191o). Lo psicologo di Harvard, di fede calvinista, affronta il tema in modo apodittico e pragmatista: la mente sana pensa Dio in positivo come un aiuto, mentre la mente malata vive la fede come espressione di angoscia. Più tardi James H. Leuba (1867-1946), rigido «naturalista», trova nella religione, intesa come esperienza estatica, una espressione primitiva e ripetibile anche grazie a sostanze stupefacenti. Queste teorie della psicologia della religione e le loro evoluzioni diventeranno negli anni Cinquanta oggetto di esperimenti, coerenti però con l’idea che la «sensazione» sia la semantica del religioso. E quando Wilder Penfield (1891-1975) scopre che una stimolazione elettrica del lobo temporale destro produce stati estatici, si apre un nuovo filone che si concentra su questa patologia e sulle sue analogie con la meditazione mistica.


In parte questa ricerca si muove in una direzione dichiaratamente antireligiosa. Ancora nel 1994 Laurence O. McKinney scrive che il sentimento religioso, pur nella varietà delle forme che prende, è «universale» solo perché lo sviluppo cerebrale impedisce di recuperare informazioni sufficienti sull’infanzia e questo «vuoto» genera la domanda sul «da dove veniamo», alla quale il fatto religioso s’incarica di rispondere. Da tempo, comunque, un medico canadese — Michael Persinger, che si presenta come un liberatore dalla mistificazione religiosa e viene contestato da manifestazioni di evangelicali inferociti — ricorre a uno «strumento» per dimostrare sperimentalmente la stessa tesi. Inventa un «casco» che produce disturbi magnetici, durante i quali il lobo temporale farebbe «esperienza» di un Dio: finalmente smascherato come effetto elettrico…


Perfettamente funzionante con molti suoi studenti, il «casco» dà solo serie emicranie a volontari di maggior rango e di sicuro ateismo come Richard Dawkins… Tramite la tomografia a emissione di fotone singolo, Andrew Newberg, Eugene D’Aquili e Vince Rause monitorano il cervello di religiosi in meditazione. La scoperta dei centri attivati dalla pratica religiosa dimostra una attività della corteccia prefrontale: il fatto che la meditazione funzioni come una iperquiescenza basta, secondo loro, a dimostrare che «il cervello ha una capacità innata (built-in) di trascendere la percezione di un sé individuale» e che dunque ciò che si chiama usualmen te religiosità è una sua funzione. Il sarcasmo anticartesiano di Spinoza avrebbe senz’altro definito questa scoperta una «qualità più occulta» di quella che si voleva scoprire. Ciò che invece accade è che molti scienziati percorrono la stessa via in senso apologetico: i nomi di Harold Koenig e Esther M. Sternberg sono molto citati da chi, a partire dagli studi sul nesso fra cervello e sistema immunitario, sostiene che la minor incidenza di malattie nella popolazione «religiosa» sarebbe la riprova di una empirica «salutarità» della fede. E James H. Austin, con il suo Zen and the Brain, dimostra gli effetti benefici della meditazione su mente e cervello: cosa che entusiasma i sostenitori di una apologetica del religioso su base scientifica. Perché — è la tesi di Wentzel van Huyssten — l’idea dell’imago Dei sarebbe il codice cifrato di queste scoperte: la religiosità come attitudine essenziale all’essere uomo sarebbe dimostrata dalla neuroteologia, perché direbbe che mente e cervello hanno i codici per comprendere
l’amore di Dio. A questo upgrade della ricerca neurologica a criterio di decostruzione dell’esperienza religiosa, tipica delle spiritualità fondamentaliste, s’è opposto l’appello di teologi e scienziati ad una certa «neuroumiltà». Strumenti di indagine assai raffinati dimostrano soltanto di saper individuare i correlati neuronali degli stati mentali propri dell’esperienza religiosa: né più né meno. Il tentativo di ridurre Dio a movimenti di neuroni e quello di usare i neuroni per dimostrarne l’esistenza si muovono in un vicolo cieco da ambo i lati. Se c’è una zona del cervello attivata dalla meditazione religiosa, ciò non significa che neurologia e teologia hanno cessato di avere compiti diversi e metodi ai quali ciascuna si deve attenere. Dove il teologo difende la libertà dell’individuo, lo scienziato scopre che credenza, agnosticismo e incertezza pongono alla sua ricerca una unica e identica domanda.


in “Corriere della Sera” del 13 giugno 2011

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