NATALE DEL SIGNORE Anno A

Preghiere e racconti   La notte del Mite Questa è notte di riconciliazione, non vi sia chi è adirato o rabbuiato.
In questa notte, che tutto acquieta, non vi sia chi minaccia o strepita.
Questa è la notte del Mite, nessuno sia amaro o duro.
In questa notte dell’Umile non vi sia altezzoso o borioso.
In questo giorno di perdono non vendichiamo le offese.
In questo giorno di gioie non distribuiamo dolori.
In questo giorno mite non siamo violenti.
In questo giorno quieto non siamo irritabili.
In questo giorno della venuta di Dio presso i peccatori, non si esalti, nella propria mente, il giusto sul peccatore.
In questo giorno della venuta del Signore dell’universo presso i servi, anche i signori si chinino amorevolmente verso i propri servi.
In questo giorno, nel quale si è fatto povero per noi il Ricco anche il ricco renda partecipe il povero della sua tavola.
Oggi si è impressa la divinità nell’umanità, affinché anche l’umanità fosse intagliata nel sigillo della divinità.
(EFREM IL SIRO, Inni sulla Natività 1,88-95.99, in ID., Inni sulla Natività e sull’Epifania, Milano 2003, pp.
134-136).
  «Sia questo per voi il segno; troverete un bambino avvolto in fasce, che giace in una mangiatoia» (Lc 2, 12)   Fissiamo l’attenzione su alcuni punti.
  I pastori Un primo spunto di riflessione è offerto proprio dai destinatari del messaggio dell’angelo del Natale: i pastori.
Essi vengono privilegiati da questa primizia di annuncio non tanto perché poveri – come sempre abbiamo pensato -, quanto perché ritenuti inaffidabili, abituati com’erano a non andare troppo per il sottile nella distinzione tra il proprio e l’altrui.
Inadatti alla testimonianza come i pubblicani e gli esattori delle tasse, sono, però, credibili per Dio, che sceglie i disprezzati e li giudica idonei ad accogliere una straordinaria rivelazione.
Ed ecco delinearsi una prima indicazione per noi, figli fedeli della casa paterna: Dio non richiede credenziali ne affida le verità che lo riguardano a chi esibisce il certificato di buona condotta.
Nelle nostre comunità hanno peso le parole di coloro che hanno l’unica colpa di non essere nessuno? Che non sanno parlare perché non c’è stato mai chi ha tentato di ascoltarli? Quanto risuonano in chiesa le voci della piazza, accanto al gregoriano? Quanto sono credibili per noi le verità testimoniate da chi è al di fuori della nostra cerchia, della confraternita a cui apparteniamo, della sacrestia che frequentiamo?   L’angelo del Natale Un secondo spunto viene offerto dal messaggio.
Contiene una promessa, indicata da un verbo di movimento: «Troverete» (Lc 2,12).
Il trovare presuppone una ricerca, un cammino, un esodo.
Per i pastori si trattò solo di abbandonare i fuochi del bivacco e le capanne di fronde erette a difesa dalle intemperie.
Per noi le partenze sono molto più laceranti: ci viene chiesto di abbandonare i recinti delle nostre sicurezze, i calcoli delle nostre prudenze, il patrimonio culturale di cui siamo solerti conservatori.
È un viaggio lungo e faticoso, quasi un salto nel buio.
Si tratta infatti di ripercorrere, a ritroso, secoli e secoli di storia; di rileggere, con occhi diversi, le varie tappe della civiltà, per ritrovare le origini del cristianesimo nella grotta di Betlemme.
E non è detto che la meta della nostra ricerca sia un Dio glorioso.
Ci vengono garantiti solo dei segni: un bambino, le fasce, la mangiatoia: i segni della debolezza, del nascimento e della povertà di Dio.
Un bambino inerme.
Simbolo di chi non può vantare alcuna prestazione.
Di chi può solo mostrare, piangendo, la propria indigenza.
A questo punto il discorso sulla debolezza di i Dio, più che assumere le cadenze del moralismo (tale, cioè, da spingerci ad amare i deboli, gli indifesi, i non garantiti), dovrebbe stimolare la riflessione teologica sul perché Dio ha deciso di spiazzare tutti manifestando la sua gloria nei segni del non-potere, della non-violenza.
  La veste del bambino Le fasce sono simbolo del nascondimento di Dio, velano la sua presenza perché la sua luce non ciechi i nostri occhi.
Saranno ritrovate nel sepolcro, per terra, quando lui, il Signore, avrà sconfitto la morte e dichiarato abolite tutte le croci.
Ma da quando Maria le ha utilizzate per la prima volta quella notte, suo Figlio non ha mai smesso di riutilizzarle.
Ancora oggi continua a giacere avvolto in fasce.
Qui, se per poco ci mettiamo a «sbendare», le coperte s’infittiscono paurosamente: migliaia di volti spauriti a cui nessuno ha mai sorriso; membra sofferenti che nessuno ha accarezzato; lacrime mai asciugate; solitudini mai riempite; porte a cui mai nessuno ha bussato.
E si potrebbe continuare all’infinito, in un interminabile rosario di sofferenze.
È qui che Dio continua a vivere da clandestino.
A noi il compito di cercarlo; di cominciare a bazzicare certi ambienti non troppo piacevoli; di lasciarci ferire dall’oppressione dei poveri, prima di cantare le nenie natalizie davanti al presepio.
Guardare oltre le fasce, riconoscere un volto, trovare trasparenze perdute, coltivare sogni innocenti: non è un andare incontro alla felicità?   La culla del neonato La mangiatoia è il simbolo della povertà di tutti i tempi; vertice, insieme alla croce, della carriera rovesciata di Dio che non trova posto quaggiù.
È inutile cercarlo nei prestigiosi palazzi del potere dove si decidono le sorti dell’umanità: non è lì.
È vicino di tenda dei senza-casa, dei senza-patria, di tutti coloro che la nostra durezza di cuore classifica come intrusi, estranei, abusivi.
La mangiatoia è però anche il simbolo del nostro rifiuto «È venuto nella sua casa, ma i suoi non lo hanno accolto» (Gv 1, 11).
È l’epigrafe della nostra non accoglienza.
La greppia di Betlemme interpella, in ultima analisi, la nostra libertà.
Gesù non compie mai violazioni di domicilio: bussa e chiede ospitalità in punta di piedi.
Possiamo chiudergli la porta in faccia.
Possiamo, cioè, condannarlo alla mangiatoia: che è un atteggiamento gravissimo nei confronti di Dio.
Sì, è molto meno grave condannare alla croce, che condannare alla mangiatoia.
Se però gli apriremo con cordialità la nostra casa e non rifiuteremo la sua inquietante presenza ha da offrirci qualcosa di straordinario: il senso della vita, il gusto dell’essenziale, il sapore delle cose semplici, la gioia del servizio, lo stupore della vera libertà, la voglia dell’impegno.
Lui solo può restituire al nostro cuore, indurito dalle amarezze e dalle delusioni, rigogli di nuova speranza.
  (Don Tonino Bello, Avvento.
Natale.
Oltre il futuro, Padova, Messaggero, 2007, 79-84).
  Esulta dunque! Ecco quale è la festa che celebriamo oggi: la venuta di Dio presso gli uomini affinché andiamo a Dio o ritorniamo a lui – è più esatto parlare di ritorno -, affinché deponiamo l’uomo vecchio e ci rivestiamo del nuovo (cfr.
Ef 4,22-24) e, come siamo morti in Adamo, così viviamo in Cristo (cfr.
1Cor 15,22), nascendo con lui, con lui essendo crocifissi, con lui sepolti, con lui resuscitando (cfr.
Rm 6,4; Col 2,12; Ef 2,6).
[…] Per questo non celebriamo la festa come fosse una solennità profana, ma in maniera divina, non in maniera mondana, ma sovramondana, non come una nostra festa, ma come quella di colui che è nostro, o piuttosto del Signore, non come festa della malattia, ma della guarigione, non come quella della creazione, ma della ri-creazione.
[…] Dio sempre fu e sempre è e sarà, o piuttosto, egli è sempre.
Poiché le espressioni «era» e «sarà» corrispondono a divisioni umane del tempo e della natura sottoposte a mutamento; «colui che è» è invece il nome che si da Dio stesso quando si rivela a Mosè sulla montagna (cfr.
Es 3,14).
Riunendo tutto in se stesso, possiede l’essere senza principio, senza termine, è come un oceano di esistenza senza limiti né confini, che va al di là di ogni idea di tempo e di natura.
[…] Ma ora sappi che Cristo è concepito.
Esulta, dunque, se non come Giovanni nel seno di sua madre (cfr.
Lc 1,41), almeno come Davide al vedere che l’arca trova riposo (cfr.
2Sam 6,14) ; onora il censimento, grazie al quale sei stato inscritto nei cieli; celebra la Natività grazie alla quale sei stato liberato dai legami di una nascita puramente umana, per rinascere a quella divina; onora la piccola Betlemme che ti ha ricondotto in paradiso, adora la mangiatoia, tu che, insensato, sei stato nutrito dal Verbo.
(GREGORIO DI NAZIANZO, Discorsi  38,4.7.17, SC 358, pp.
108-110; 114-116).
  Il Verbo si è fatto carne A imitazione di Gesù Cristo, immagine di Dio, non allontaniamoci neppure noi da Dio, perché anche noi siamo immagine di Dio (cfr.
Gen 1,26-27), di certo non uguale perché creata dal Padre attraverso il Figlio e non nata dal Padre come [il Figlio, che è] la sapienza di Dio.
Noi siamo immagine perché illuminati dalla luce; il Figlio, invece, perché è luce che illumina e perciò, pur non avendo un modello per sé, è modello per noi.
Egli non è modellato su qualcuno che lo precede presso il Padre; dal Padre, infatti, non può mai essere separato perché egli è quello stesso da cui ha origine.
Noi, invece, cerchiamo di imitare un modello che non muta, seguiamo uno che non si muove e camminando in lui, che è per noi una dimora eterna, tendiamo a lui perché è divenuto per noi nella sua umiliazione una via attraverso il tempo.
Agli spiriti immateriali senza peccato che non sono caduti a motivo della superbia il Figlio offre un esempio nella forma di Dio, in quanto uguale a Dio e Dio, ma per offrirsi come esempio di ritorno all’uomo caduto, che a causa dei suoi peccati e della condanna alla mortalità era incapace di vedere Dio, «si è svuotato» (Fil 2,7), non mutando la sua divinità, ma assumendo la nostra mutabilità e prendendo la natura di servo, venne in questo mondo (cfr.
Fil 2,7) verso di noi, lui che era in questo mondo, perché «il mondo è stato fatto per mezzo di lui»  (Gv 1,10), per essere un esempio a quelli che nelle altezze contemplano Dio, per essere un esempio a quelli che sulla terra ammirano in lui l’uomo, esempio di perseveranza per i sani, esempio di guarigione per gli infermi, esempio di coraggio per quanti si preparano a morire, esempio di resurrezione per i morti, avendo il primato in tutte le cose (cfr.
Col 1,18).
Per conseguire la felicità l’uomo non doveva seguire nessun altro se non Dio, ma egli non era in grado di vedere Dio; seguendo il Dio fatto uomo avrebbe seguito nello stesso tempo uno che poteva vedere e uno che doveva seguire.
Amiamolo dunque e uniamoci a lui con la carità che «è stata diffusa nei nostri cuori mediante lo Spirito santo, che ci è stato dato» (Rm 5,5).
(AGOSTINO DI IPPONA, La Trinità 7,12-13, Opere di sant’Agostino, parte I/IV, pp.
302-304).
    Il Natale del Signore   Il Natale è tra le feste più importanti della tradizione cristiana.
In questa icona della Natività, la Vergine è rappresentata nella grotta mentre prende in braccio il Figlio con un gesto di indicibile affetto.
Le genti, i re Magi, i pastori, convocati dagli angeli, manifestano la partecipazione di tutto il mondo alla salvezza.
I re Magi, salendo, evocano lo sforzo umano di penetrare i misteri di Dio.
Gli angeli, invece, annunciano ai pastori, popolo eletto, che il Mistero è presente: abbiamo solo bisogno della purezza del cuore per riconoscerlo.
San Giuseppe è seduto in atteggiamento pensoso; è tentato dal dubbio che questa nascita sia veramente opera divina.
Sopra la grotta, con un raggio azzurro, è raffigurata la stella che ha guidato i Magi fino a Betlemme.
La gioia del momento è turbata da presentimenti inquietanti: la grotta richiama una tomba, la culla un sarcofago e il Bimbo è avvolto in fasce come quelle che avvolgono un morto.
La nascita di Cristo rimanda alla sua Pasqua di morte e di risurrezione: questo Bambino è il Salvatore del mondo! Nell’icona, però, il dolore non prevale, in tutto risplende la ritrovata pace paradisiaca che è il fine dell’Incarnazione.
  Oggi viene svelato il mistero rimasto nascosto per secoli.
Oggi il Figlio di Dio diventa figlio dell’uomo…
Maria, confusa e dolce, tu guardi il Figlio, colui che ha le fattezze del tuo volto, volto umano di Dio, che ridarà bellezza ad ogni volto d’uomo.
Adori il mistero e ti abbandoni alla sua grandezza.
Ricolmaci, o Madre, della tua pace, ridonaci la bellezza della grazia, e aiutaci a farci grembo a Dio, perché cresca in noi…
    * Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di: – Lezionario domenicale e festivo.
Anno A, a cura della Conferenza Episcopale Italiana, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2007.
– Avvento-Natale 2010, a cura dell’ULN della CEI, Milano, San Paolo, 2010.
– Temi di predicazione.
Omelie.
Ciclo A, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2004.  – E.
Bianchi et al., Eucaristia e Parola.
Testi per le celebrazioni eucaristiche di Avvento e Natale, in «Allegato redazionale alla Rivista del Clero Italiano» 88 (2007) 10, 69 pp.
– Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.
– Don Tonino Bello, Avvento e Natale.
Oltre il futuro, Padova, Messaggero, 2007.
– Carlo Maria MARTINI – Pietro MESSA, L’infinito in una culla.
San Francesco e la gioia del Natale, Assisi, Porziuncola, 2009, 7-13).
       NATALE DEL SIGNORE   Lectio – Anno A   Prima lettura: Isaia 52,7-10          Come sono belli sui monti i piedi del messaggero che annuncia la pace, del messaggero di buone notizie che annuncia la salvezza, che dice a Sion: «Regna il tuo Dio».
Una voce! Le tue sentinelle alzano la voce, insieme esultano, poiché vedono con gli occhi il ritorno del Signore a Sion.
Prorompete insieme in canti di gioia, rovine di Gerusalemme,  perché il Signore ha consolato il suo popolo, ha riscattato Gerusalemme.
Il Signore ha snudato il suo santo braccio davanti a tutte le nazioni; tutti i confini della terra vedranno la salvezza del nostro Dio.
    v Quante volte può capitare che una notizia buona renda “bella”, gradevole e beneaugurante anche la persona che l’ha recata! A questo certamente avrà pensato il profeta anonimo che noi chiamiamo Deuteroisaia, riferendosi, con un’immagine invero un po’ ardita, ai piedi “belli” di un messaggero, che ha raggiunto il luogo che deve ricevere il messaggio che egli reca.
È un messaggio lieto, che augura il bene supremo della salvezza, che consiste nel fatto che Dio ormai inaugura il suo regno.
Non sono più i regni umani, di solito oppressivi, fondati sulla violenza, la menzogna e l’ingiustizia, a consolidarsi; nemmeno si tratta di un “Vangelo” che annunzia buone notizie che riguardano un re terreno, che per esigenze di propaganda deve far sapere che tutto va bene e che c’è pace e sicurezza.
È invece il regno di Dio a essere annunciato: è quel regno che Israele aveva cercato invano, come pure talvolta aveva rifiutato, quando chiese a Samuele un re come quelli degli altri popoli.
Israele ha capito la lezione e sa che, in maniera misteriosa ma reale è Dio stesso a regnare su di lui.
Anzi, se talvolta Dio si nasconde, lo fa perché il suo popolo dimentica che un re terreno significa schiavitù, mentre il re divino è l’origine e l’apice della libertà.
     Insieme all’araldo, compaiono altri personaggi tipici del tempo, le sentinelle, che avvertono l’avvicinarsi della presenza di Colui che elargisce i doni annunziati reagendo con gioia espressa da alte grida.
L’annuncio dell’araldo e la gioia incontenibile delle sentinelle prepara l’accorato appello del profeta, che chiede addirittura alle rovine di Gerusalemme di unirsi alla contentezza dominante: «Prorompete insieme in canti di gioia, rovine di Gerusalemme, perché il Signore ha consolato il suo popolo, ha riscattato Gerusalemme» (52,9).
Quelle stesse rovine che erano testimonianza della catastrofe nazionale delle generazioni che non avevano voluto obbedire a Dio, agli occhi del profeta rappresentano un elemento che consola, perché ormai non si sperava più nella libertà e nel ritorno nella terra dei padri per adorare il Signore.
Il ritorno di Dio verso il suo popolo produce il vero cambiamento, perché finalmente sorge con la sua presenza una prospettiva di consolazione e di riscatto, che dona fiducia nel futuro: infatti, Dio dimostra di essere dalla parte d’Israele liberandolo dai suoi nemici.
  Seconda lettura: Ebrei 1,1-6              Dio, che molte volte e in diversi modi nei tempi antichi aveva parlato ai padri per mezzo dei profeti, ultimamente, in questi giorni, ha parlato a noi per mezzo del Figlio, che ha stabilito erede di tutte le cose e mediante il quale ha fatto anche il mondo.
Egli è irradiazione della sua gloria e impronta della sua sostanza, e tutto sostiene con la sua parola potente.
Dopo aver compiuto la purificazione dei peccati, sedette alla destra della maestà nell’alto dei cieli, divenuto tanto superiore agli angeli quanto più eccellente del loro è il nome che ha ereditato.
Infatti, a quale degli angeli Dio ha mai detto: «Tu sei mio figlio, oggi ti ho generato»? e ancora: «Io sarò per lui padre ed egli sarà per me figlio»? Quando invece introduce il primogenito nel mondo, dice: «Lo adorino tutti gli angeli di Dio».
    v Alla storia della salvezza, che si è dipanata attraverso i Padri che hanno ascoltato dalla viva voce dei profeti la parola che Dio aveva da dire al proprio popolo, fa riferimento l’autore della Lettera agli Ebrei.
Questa stessa storia della salvezza, però, ha raggiunto l’acme con la venuta del Figlio di Dio, il quale possiede un’autorità diversa da quella degli antichi profeti: egli, infatti, è stato costituito dal Padre «erede di tutte le cose e mediante il quale ha fatto anche il mondo».
     Il Figlio, dunque, non è un semplice portavoce di Dio, ma è la misura della creazione, realizzata in vista di lui, come afferma pure il prologo giovanneo: «Era nel mondo e il mondo è stato fatto per mezzo di lui».
C’è anche il titolo di erede, con il quale si esprime l’intenso rapporto con il Padre: in quanto erede, Gesù riveste il ruolo di comprimario con il Padre, il quale lo ha fatto addirittura sedere alla sua destra nell’alto dei cieli.
     Tale prerogativa del Figlio si è realizzata a partire dal mistero pasquale: «Questo Figlio, che è irradiazione della sua gloria e impronta della sua sostanza e sostiene tutto con la potenza della sua parola, dopo aver compiuto la purificazione dei peccati si è assiso alla destra della maestà nell’alto dei cieli».
L’esaltazione, dunque, avviene dopo il difficile passaggio pasquale.
     All’inizio abbiamo accennato al fatto del Natale come Pascha inchoata.
In realtà, è tutto il Nuovo Testamento a convergere in quella direzione, che conferisce senso a ogni cosa.
Quindi, anche lo stesso Natale acquista senso dalla centralità del mistero pasquale, perché ciò che viene solo adombrato nella nascita di Gesù, momento sublime dell’incarnazione, si palesa nella sua morte e risurrezione.
  Vangelo: Giovanni 1,1-18            In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio.
Egli era, in principio, presso Dio: tutto è stato fatto per mezzo di lui e senza di lui nulla è stato fatto di ciò che esiste.
In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini; la luce splende nelle tenebre e le tenebre non l’hanno vinta.
Venne un uomo mandato da Dio: il suo nome era Giovanni.
Egli venne come testimone per dare testimonianza alla luce, perché tutti credessero per mezzo di lui.
Non era lui la luce, ma doveva dare testimonianza alla luce.
Veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo.
Era nel mondo e il mondo è stato fatto per mezzo di lui; eppure il mondo non lo ha riconosciuto.
Venne fra i suoi, e i suoi non lo hanno accolto.
A quanti però lo hanno accolto ha dato potere di diventare figli di Dio: a quelli che credono nel suo nome, i quali, non da sangue né da volere di carne né da volere di uomo, ma da Dio sono stati generati.
E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi; e noi abbiamo contemplato la sua gloria, gloria come del Figlio unigenito che viene dal Padre, pieno di grazia e di verità.
Giovanni gli dà testimonianza e proclama: «Era di lui che io dissi: Colui che viene dopo di me è avanti a me, perché era prima di me».
Dalla sua pienezza noi tutti abbiamo ricevuto: grazia su grazia.
Perché la Legge fu data per mezzo di Mosè, la grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù Cristo.
Dio, nessuno lo ha mai visto: il Figlio unigenito, che è Dio ed è nel seno del Padre, è lui che lo ha rivelato.
   

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