«Le quattro stagioni di un vecchio lunario»

* Luisito Bianchi, «Le quattro stagioni di un vecchio lunario», Sironi Editore, Milano, pagg.
320, € 17,00.
La parola «lunario» è una di quelle che da parecchio tempo non si usano più.
È un vocabolo che ha anche una nobile ascendenza letteraria, immortalata da Giacomo Leopardi nel Dialogo di un venditore l’almanacchi e di un passeggere: «Almanacchi nuovi, lunari novi! Bisognano, signore?».
«Lunario», però, è soprattutto termine popolare, che indica un calendario con le fasi della luna, i santi, le feste, le fiere, consigli, ricette e tante altre informazioni minute.
E in questa accezione, profondamente radicata nella cultura contadina dalla quale proviene, la usa Luisito Bianchi nel titolo del suo ultimo romanzo, Le quattro stagioni di un vecchio lunario.
Luisito Bianchi è nato nel 1927 ed è sacerdote dal 1950.
È originario di Vescovato (Cremona) e nella sua vita ha svolto i lavori più diversi, perché ha sempre voluto, da prete, essere economicamente autosufficiente, cioè non gravare sulle comunità che ha servito (su questo tema ha scritto un libro bellissimo, intitolato Dialogo sulla gratuità, Gribaudi 2004): è stato insegnante, traduttore, operaio, benzinaio, inserviente di ospedale.
Chi lo conosce sa che all’origine di questo suo percorso non c’è una posa anticonformista, ma una motivazione intima, necessaria.
Come narratore ha scritto uno dei romanzi più convincenti e meno retorici sulla Resistenza: La messa dell’uomo disarmato (Sironi 2003).
Con questo nuovo libro, Luisito Bianchi si conferma come uno degli scrittori italiani più convincenti degli ultimi decenni.
Appartato, isolato, lontano dalla società letteraria e dai clamori massmediali, siamo certi che prima o poi gli verrà riconosciuto il ruolo che gli spetta.
Perché – Le quattro stagioni di un vecchio lunario lo dimostra con chiarezza — la sua è una scrittura sostenuta da uno straordinario lavoro sulle parole e su ciò che esse veicolano in termini culturali e affettivi.
Qui l’autore ha inteso ricostruire la propria infanzia e la propria giovinezza, ripercorrendo i momenti dell’anno con le loro abitudini e i loro riti: le feste religiose (i Santi, i Morti, San Biagio per la gola, Sant’Apollonia per i denti, il carnevale, la Quaresima, la Pasqua, il Corpus Domini), le fiere di paese, l’uccisione del maiale (rito, questo, tutto laico, pagano, culinario), officiata dal norcino dopo essersi corroborato con un bicchiere di grappa, e a Natale il presepe con, al posto delle stelle, tante lampadine sottratte ai fanali delle biciclette.
Un’elegia della memoria di straordinaria intensità: alcune pagine ricordano il Walter Benjamin di Infanzia berlinese, il Luigi Meneghello di Libera nos a Malo, l’Ermanno Olmi dell’Albero degli zoccoli.
Ma nel libro di Luisito Bianchi c’è molto di più: realtà e poesia in una sintesi personalissima Roberto Carnero in “Il Sole 24 Ore” del 28 novembre 2010

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *