Pedofilia

Nella “giornata di riflessione e preghiera” che ha preceduto il concistoro di oggi, Benedetto XVI ha proposto ai cardinali cinque temi di discussione.
Uno di questi è stato “a risposta della Chiesa ai casi di abusi sessuali”.
Era la prima volta che se ne discuteva a un così alto livello, da parte di un collegio di cardinali rappresentativo della Chiesa universale, attorno al papa.
La discussione è stata introdotta dal cardinale William J.
Levada, prefetto della congregazione per la dottrina della fede, e si è protratta per circa un’ora, a porte rigorosamente chiuse.
La congregazione invierà presto una lettera circolare alle conferenze episcopali con indicazioni “per un programma coordinato ed efficace”.
Si sa però che la linea adottata in quest’ultimo decennio dalle massime autorità della Chiesa – con un crescendo di rigore culminato nel 2010 con le nuove “Norme sui delitti più gravi” – si presta a serie obiezioni e offre il fianco a vari rischi.
* Le obiezioni sono anzitutto di tipo giuridico.
Il 1 dicembre prossimo la facoltà di diritto canonico della Pontificia Università Urbaniana dedicherà un convegno di studio proprio alle nuove norme riguardanti i casi più gravi di abuso sessuale, in particolare con una relazione del professor John Paul Kimes del Pontificio Istituto Orientale.
Un elemento chiave delle innovazioni normative è stato, a partire dal 2001, l’assegnazione della competenza esclusiva sui delitti di pedofilia alla congregazione per la dottrina della fede.
In pratica, quando un vescovo si trova in presenza di un caso di pedofilia, dopo una prima verifica dell’attendibilità della denuncia deve rimettere la causa a Roma.
Questa centralizzazione è stata fermamente voluta da Joseph Ratzinger sia prima che dopo la sua nomina a papa.
E ha avuto il suo braccio esecutivo nel promotore di giustizia della congregazione per la dottrina delle fede, monsignor Charles J.
Scicluna.
La ragione principale che ha spinto in questa direzione è l’inaffidabilità di cui molte diocesi hanno dato prova nell’affrontare simili casi.
E in effetti, da quando la congregazione per la dottrina della fede ha assunto il pieno controllo della materia, l’opera di “pulizia” ha prodotto risultati.
Questa centralizzazione ha però un rischio.
Presta il fianco – retorico se non sostanziale – a chi vorrebbe trascinare in tribunale persino il papa, per delitti commessi da suoi “dipendenti”.
Negli Stati Uniti sono in corso processi nei quali l’accusa tratta la Chiesa alla pari di una “corporation” e pretende che a rispondere di ogni atto siano anche i suoi massimi titolari, dai quali si pretenderebbe anche il risarcimento in danaro delle vittime.
* Altre obiezioni, più fondate, riguardano non la centralizzazione delle cause di pedofilia, ma le modalità con cui sono affrontate.
Stando a quanto riferito da monsignor Scicluna, dei 3000 casi di sacerdoti e religiosi accusati di pedofilia trattati dalla congregazione per la dottrina della fede negli ultimi dieci anni, solo 20 su cento hanno avuto un processo canonico vero e proprio, giudiziario o amministrativo.
Tutti gli altri casi sono stati affrontati in via extraprocessuale.
Un caso clamoroso di procedura extraprocessuale ha riguardato, ad esempio, il fondatore dei Legionari di Cristo, padre Marcial Maciel.
La congregazione per la dottrina della fede semplicemente svolse un’investigazione per verificare le accuse.
Dopo di che, con l’approvazione esplicita del papa, il 19 maggio 2006 emise un comunicato per “invitare il padre a una vita riservata di preghiera e di penitenza, rinunciando a ogni ministero pubblico”.
“Facciamo così per una maggiore speditezza dell’iter”, ha detto monsignor Scicluna per giustificare questa rinuncia alla via processuale.
Ma per gli esperti di diritto, questo vantaggio pratico mette in pericolo principi cardine dell’ordinamento canonico della Chiesa e la stessa esigenza di un giusto processo.
Tra gli esperti di diritto vi sono anche illustri cardinali della curia romana: l’americano Raymond L.
Burke, prefetto del supremo tribunale della segnatura apostolica; lo spagnolo Julián Herranz, presidente emerito del pontificio consiglio per i testi legislativi; il polacco Zenon Grocholewski, prefetto della congragazione per l’educazione cattolica; l’italiano Velasio De Paolis, presidente della prefettura degli affari economici della Santa Sede e delegato papale per il “salvataggio” dei Legionari di Cristo.
Per questi e altri cultori del diritto, in curia e fuori, l’aggiramento del processo canonico limita seriamente le possibilità di difesa dell’imputato.
Non solo.
Anche quando un caso di pedofilia è sottoposto a processo canonico, la tendenza prevalente è sempre più quella di procedere non per via giudiziaria ma per via amministrativa.
Il diritto canonico prevede entrambe le vie.
Ma rispetto a quanto avviene negli ordinamenti di molti stati, il giudice canonico gode di maggiore discrezionalità, col rischio che questa si trasformi in arbitrio.
Compete al giudice canonico – cioè in definitiva al vescovo del luogo, salvi i casi, come quelli di pedofilia, in cui la competenza è della congregazione per la dottrina della fede – scegliere se avviare un processo giudiziale oppure amministrativo mediante decreto.
In questo secondo caso, e non per sua scelta, l’imputato si trova così ad essere giudicato dalla stessa persona che è anche il suo pubblico accusatore.
Ne esce quindi svuotato il suo diritto a un giudice “terzo”, cioè equidistante da accusa e difesa.
All’imputato sono comunicate le accuse mosse a suo carico, ma non le fonti e i nomi degli accusatori, che devono restare segreti.
Inoltre, a differenza del processo amministrativo in uso in molti stati, ove la pena è solo pecuniaria, il processo amministrativo canonico può concludersi con pene anche gravissime, come la dimissione dallo stato clericale, emesse con un semplice decreto.
Il ricorso in appello è consentito.
Ma nel processo amministrativo l’autorità a cui spetta il giudizio finale sarà ancora la stessa che in precedenza è stata sia accusatore che giudice.
Non solo.
Capita talvolta che a un sacerdote uscito assolto dall’accusa di pedofilia sia ugualmente comminata dal suo vescovo o dalla congregazione per la dottrina della fede una pubblica ammonizione, o una penitenza, o un’altra pena.
È ciò che consente il canone 1348 del codice di diritto canonico, secondo taluni canonisti “per la salvezza dell’individuo e il bene della comunità”.
Ma è anche qualcosa che fa a pugni con il rispetto della norma giuridica, con i diritti della persona e con la distinzione tra foro esterno ed interno.
Rispetto a tutti questi arbitrii, il processo giudiziario canonico è molto più rispettoso dei diritti dell’imputato.
Ma nei casi di pedofilia è raramente praticato.
Si procede quasi sempre per decreto o per sanzioni extraprocessuali.
* In un paese come gli Stati Uniti d’America si è passati da una fase di lassismo nel trattare il fenomeno pedofilia, sia in campo civile che in campo ecclesiastico, a una fase di “tolleranza zero” generalizzata, di impronta puritana.
Nella Chiesa è avvenuto qualcosa di simile.
Il fenomeno pedofilia è sempre più percepito come uno stato di emergenza.
Al quale si ritiene doveroso reagire con una normativa anch’essa di emergenza, la più rapida e sbrigativa possibile.
Una normativa di emergenza dovrebbe cessare una volta superata la fase critica.
Ma questo esito appare lontano, nel caso della pedofilia.
Insomma, era questo lo sfondo giuridico della discussione tra i cardinali e papa Benedetto su “la risposta della Chiesa ai casi di abusi sessuali”, ieri, venerdì 19 novembre, vigilia del terzo concistoro di questo pontificato.
C’è motivo di credere che questa discussione continuerà.

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