In memoria di Alda Merini

Avevo ancora le valigie in mano; ero appena rientrato da un viaggio un po’ spossante da San José di Costa Rica ove avevo presieduto un importante incontro di vescovi delle due Americhe.
Il telefono della mia casa romana squillava con insistenza e a più riprese.
Erano alcuni giornalisti che volevano almeno una battuta su Alda Merini che era scomparsa poche ore prima in quel 1° novembre 2009.
A distanza di un anno, ora che non ho più neppure il legame delle sue chilometriche telefonate, ma solo l’eco dei suo versi, vorrei anch’io affacciarmi in mezzo al coro di quelli – e sono ancora tanti – che la ricordano e che in questi giorni la commemoreranno.
Lo faccio anche per lanciarle un grazie dalla terra agli spazi infiniti del cielo, non soltanto per l’affetto che mi ha riservato per anni, ma anche per aver voluto accompagnare molti momenti della mia vita con la testimonianza personale della sua poesia.
Inizierei con poche righe della raccolta poetica Clinica dell’abbandono, pubblicata da Einaudi nel 2003, un libro che aveva voluto esplicitamente dedicarmi, sorprendendo non pochi lettori.
«Se tu conoscessi / l’ala dell’Angelo / se tu lasci la madre terra / che ti ha così devastato (…) / ora che vedi Dio / riconosci in te stesso / il fiore della sua lingua».
Sì, io penso che ora Alda possa parlare la lingua di Dio e certamente nell’infinita biblioteca paradisiaca (per usare un’immagine di Isaac Bashevis Singer) sono stati collocati molti dei suoi testi poetici, anche quelli che sono rimasti solo nell’aria.
Infatti, spesso a me – ma anche a molti altri suoi interlocutori – durante i dialoghi diretti o telefonici riservava intere poesie che lei, come accadeva agli antichi rapsodi, affidava solo alla parola detta, lasciando che si cristallizzassero soltanto sulla pagina viva dell’anima di chi l’ascoltava.
Sempre in quella raccolta aveva scritto: «Ogni poeta / laverà nella notte / il suo pensiero / ne farà tante lettere / imprecise / che spedirà all’amato / senza un nome».
Non so quando e come avvenne la nostra conoscenza: certamente fu dal momento in cui la vena mistica, che era da sempre in lei, si irrobustì fino ad assumere una forma nettamente cristologica.
Fu così che nel 2001 mi chiese di scrivere la prefazione del suo Corpo d’amore.
Un incontro con Gesù.
La carnaltà, che in lei era spesso intrecciata all’eros, qui si trasfigurava e diventata la sarx giovannea, la “carne” del Verbo, e la Divinità diveniva Umanità gloriosa e dolente.
Aveva, così, voluto che fossi ancora io ad accompagnare una delle sue opere più alte, quel Poema della Croce (2004), non di rado approdato nelle chiese o in spazi religiosi come una moderna rappresentazione sacra.
La poetessa poneva il suo Cristo al centro dello spazio e del tempo in una epifania tragica eppur luminosa.
Attorno allo sperone roccioso del Calvario s’addensava non solo l’odio del mondo, ma si delineava anche «il teatro della derisione», cioè la brutale stupidità e la volgarità dell’umanità che la Merini tanto detestava.
Eppure su quell’asse della derisione e della crudeltà si inaugurava il giudizio definitivo sul male e si apriva il cielo della redenzione.
La croce, ove si raggrumava il dolore di Dio, diventava segno d’amore: «Dio ha espresso il suo amore per l’uomo col pianto».
Cristo è «la lacrima di Dio», una lacrima che «coprì tutta la carne del Figlio».
La colpa e la grazia, l’inferno e la gloria, la tenebra e la luce sono stati i poli della ricerca spirituale di Alda, una ricerca attraversata non di rado dai fulmini della follia che lei non temeva di rappresentare, consapevole – come era accaduto nella grande tradizione mistica e letteraria (si pensi solo all’Idiota di Dostoevskij) – che esiste una possibilità di conoscenza metarazionale che non è sempre e necessariamente irrazionale.
È per questo che nel 2007 aveva voluto che io preparassi un’altra introduzione per il poema consacrato al santo «folle» Francesco d’Assisi, «il liuto di Dio».
Libero e nudo, egli entra agli occhi degli uomini «logici» e calcolatori in quella pazzia che è suprema saggezza, «folle come te, Signore, folle d’amore».
Alda Merini non mi aveva mai perdonato di avere lasciato Milano, la comune città, per Roma (l’inedito che ora pubblichiamo mi fu indirizzato proprio in quell’occasione).
Le sue sterminate telefonate avevano negli ultimi tempi avevano sempre questa stuimmata sanguinante d’amarezza.
Quando l’avevo visitata anni fa per la prima volta nella sua cas ai Navigli, aveva voluto rivestire il terribile abbandono e la povertà con una valanga di fiori, secondo quella generosità che la spogliava perfino del necessario pur di donare qualcosa ad un altro.
Aveva persino convocato un violinista che l’accompagnasse al pianoforte che lei sapeva suonare, mentre il cantore delle sue poesie, Giovanni Nuti, mi avrebbe offerto alcuni versi musicati.
Anche prima che io partissi per quel viaggio in America, chiamandola all’ospedale milanese ove era ricoverata mi aveva strappato la promessa che l’avrei visitata a Natale, quando sarei ritornato lassù, anche perché – mi diceva – «non riuscirò a venire a Roma nella Cappella Sistina per l’incontro del Papa con gli artisti del 21 novembre» del 2009, incontro a cui l’avevo invitata e per il quale aveva già pensato all’abito da indossare.
Ci ritroveremo, invece, su altre strade.
Per me sarà la via della memoria spirituale e del ricordo a Dio, ma anche quella dei molti doni che mi aveva destinato, come il crocifisso di un artista noto che aveva voluto darmi alla vigilia della mia ordinazione episcopale e che ora è nella mia casa romana.
Nata nel primo giorno di primavera, Alda Merini è morta nella solennità di Tutti i Santi.
Vorrei, allora, idealmente ringraziarla e ricordarla applicando a lei quei versi finali d’una poesia inedita che mi aveva inviato proprio nel giorno – più di tre anni fa – del funerale di mio padre: «Non scongiurare la morte / di lasciarlo qui sulla Terra: / ha già sentito il profumo di Dio, / lascialo andare nei suoi giardini».
Alla soglia della sua partenza per Roma ove Benedetto XVI lo avrebbe consacrato arcivescovo e nominato Presidente del Pontificio Consiglio della Cultura, Alda Merini aveva indirizzato a monsignor Ravasi questi versi finora inediti.
Chi mi renderà il mio peccato nascosto che sta nelle tue mani: ho amato il tuo grande sapere, oh guida della canzone dall’inferno dei miei peccati guardavo a te che salivi il calvario di una notorietà senza pace.
Non vogliamo perderti Milano non ti dimenticherà mai ma così come i grandi figli vanno a morire lontano sappi che la tua gloria è qui nel nostro quotidiano, morire insieme al desiderio di riaverti.

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