Il futuro della scuola italiana

Dice Giovanni Belardinelli nell’articolo sul Corriere della Sera de  27 agosto 2010: “L’opinione pubblica sembra poco interessata a discuterne forse perché sfiduciata dall’aver sentito richiamare troppe volte in passato l’elenco, apparentemente sempre uguale, dei problemi che affliggono il nostro sistema scolastico: gli alti costi (spendiamo per l’istruzione più della media Ocse) a fronte di risultati scarsi in termini di apprendimento, i forti squilibri regionali, la difficoltà a considerare il merito nelle carriere degli studenti, da un lato, e nella valutazione del lavoro degli insegnanti, dall’altro”: Ma se la scuola è ciò che la fanno essere i suoi insegnanti: “la perdita di autorevolezza e prestigio di un corpo docente che si sente ogni anno meno motivato” sta forse alla radice dcel problema scuola.
Certo la perdita di status della professione è soprattutto “il frutto delle trasformazioni che hanno investito il Paese nell’ultimo mezzo secolo”.
In particolare conseguenza della crisi delle grandi agenzie di formazione quali la Chiesa e la famiglia.
In particolare è venuto meno quell’insegnante gentiliano che si “sentiva, e come tale era riconosciuto dalla società circostante, membro di un ceto addetto alla conservazione/ trasmissione di una tradizione culturale”.
Non basterà certo introdurre nella retribuzione degli insegnanti una percentuale legata al merito per restituire autorevolezza alla loro professione.
Ma può essere un primo passo per ridare alla scuola quella dignità e centralita necessaria al progresso di un paese.
”C’è un futuro per la scuola italiana?“: da questa provocazione, al Meeting dell’amicizia dei popoli a Rimini, è scaturito un dialogo serrato con Norberto Bottani, analista internazionale dei sistemi di istruzione e tra gli iniziatori del sistema di valutazione europea OCSE-PISA.
Intervistato da Alessandra Ricciardi, responsabile di “Azienda scuola” – l’inserto settimanale di ItaliaOggi – Bottani ha preso le mosse dal quadro della scuola italiana disegnato dal quarto capitolo dell’ultimo Rapporto ISTAT 2010, proprio dedicato ai dati sul sistema scolastico.
Un quadro fosco, costituito da situazioni di arretratezza, dal quale Bottani ha preso le mosse, con le cifre già note sui livelli di conoscenza dell’italiano nei vari ordini di scuola, per poi passare al grave aumento della dispersione scolastica dopo la licenza media, aumento che non può non interrogare seriamente rispetto al nostro futuro: con oltre 1 milione di giovani tra i 15 e i 24 anni che dichiara di non aver letto neanche un libro o di non aver mai utilizzato il computer e con il ritorno a percentuali significative di bocciati e dispersi; con poco più di 2 milioni di giovani tra i 15-29 anni (la “Neet” generazione) che non lavora e non studia.
L’incontro, proposto da DiSAL e ADI (associazioni professionali rispettivamente di dirigenti scolastici e docenti) ed al quale erano presenti presidi di scuole statali e non statali, operatori e politici delle Amministrazioni Scolastiche e Locali, “ha avuto l’utilità – ha sottolineato alla fine Roberto Pellegatta, presidente di DiSAL – di mettere a fuoco alcuni ‘mattoni’ sui quali costruire un reale dialogo oltre gli steccati della politica e dell’ideologia (ancora pesanti nella scuola italiana), per giungere a scelte dove studenti, docenti, famiglie e realtà locali non siano strumenti per finalità diverse, ma protagonisti dei propri percorsi formativi”.
Alessandra Cenerini, presidente di ADI, ha tenuto invece a chiarire che “non si esce dalla crisi tutta nazionale della scuola con la difesa dell’esistente, ma con una rivoluzione innanzitutto nella professione docente, con il coraggio di colpire lo statalismo, insieme ai residui privilegi (orario, organico, nomine), per piegare il funzionare delle scuole alle attese degli alunni e delle comunità”.
Ripercorrendo, attraverso esperienze e vicende professionali personali, Bottani ha risposto in modo originale alle questioni sollevate.
Sui livelli di apprendimento oggetto delle ultime indagini valutative, ha ricordato come già nel 1976 Visalberghi, allora direttore del CEDE di Frascati, presentando all’allora ministro Malfatti i risultati della prima partecipazione dell’Italia ad un’indagine campione europea sugli apprendimenti degli alunni, notava tristemente come questi occupassero la coda dei coetanei europei.
Il dialogo col pubblico ha scartato nettamente il falso dilemma, tipico del dibattito italiano, se vengano prima le conoscenze o le competenza, per riconoscere che la scuola dovunque e sempre si deve misurare solo sui livelli di istruzione ai quali riesce a portare i propri studenti Bottani ha sostenuto poi come la scuola media unica sia stata fino a tutt’oggi l’unica riforma dall’epoca fascista, attribuendovi il merito dell’elevamento dei livelli di istruzione popolari.
Ma contemporaneamente ha sostenuto con forza che questo compito della scuola unica è terminato, dovendosi affrontare nuove forme di scuola che tengano conto delle nuove fonti di apprendimento e della necessità di “saper uscire dalla scuola per imparare”.
A proposito della questione sollevata dai dati ISTAT sulla dispersione e disoccupazione tra i 15 ed i 29 anni (un quinto di questa non ha titolo di studio del II ciclo e non ha lavoro: la “Neet – acronimo di ‘Not in Employment, Education or Training’ generation”) l’analista ha sostenuto che il livello più delicato e critico della situazione scolastica nazionale rimane l’istruzione e formazione tecnica e professionale, zoppicante, sempre più scolastica e teorica, senza un “aspiratore sociale verso l’alto” che favorisca la valorizzazione di tutto il comporta delle professioni tecniche, per farlo uscire da stato di minorità che lo riduce (dagli anni ’80 in poi) ad una scelta fatta da chi “non può andare al liceo”.
Portando il caso svedese, Bottani ha sollevato la mancanza poi di un valido sistema di apprendistato come fattore che collabora a far crescere l’esclusione.
Sul tema “valutazione” ha ricordato l’altra arretratezza nazionale, sulla quale attualmente in Italia lavora solo una piccola pattuglia, purtroppo senza l’autonomia necessaria dall’apparato politico.
Dopo la sbornia dei “sistemi di qualità” che hanno “spennato” le scuole e un’autovalutazione intesa come un generico “volersi tutti bene” è giunta l’ora di una valutazione seria e sistematica su docenti, dirigenti e sistema amministrativo dalla quale ognuno (in modo corretto e trasparente) possa raccogliere le informazioni indispensabili per gestire ogni anno la vita della scuola.
Nella prosecuzione del dibattito si è parlato poi di abolizione del centralismo amministrativo e del servizio statale di istruzione (veri residui di due secoli fa), di superamento dell’astrattezza della formazione universitaria dei docenti estranea alle reali necessità della scuola e della assenza di politiche familiari di sostegno alla natalità, al compito educativo delle famiglie, al lavoro femminile, così che le giovani donne non debbano fare salti mortali per conciliare l’attenzione ai figli con il proprio lavoro.
Nella conclusione Pellegatta di DiSAL ha confessato di sentire come “umiliazione personale” le difficoltà della scuola ricordate, umiliazione dalla quale non si esce con tecniche o teorie, ma con personali e appassionate assunzioni di responsabilità ad ogni livello per un bene comune, tanto trascurato dalla politica e dalla società, quanto vitale per la nazione, assumendo come impegno operativo delle associazioni professionali dei dirigenti e dei docenti presenti il compito di delineare la “scuola del futuro”.
tuttoscuola.com

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