Verità e potere

Estratti da “Memorie II, Una verità contestata” Nell’estratto che segue, Hans Küng, che ha appena parlato delle ricerche per quello che sarebbe diventato il suo libro “Essere cristiano” (1974), tenta di definire la specificità cristiana.
Che cos’è essere cristiano? “Qual è la caratteristica essenziale del cristianesimo? Per riassumere al massimo, direi che è Gesù Cristo stesso.
È l’incarnazione viva e decisiva, la sua causa, la sua vera misura.
Incarna un modo totalmente nuovo di vivere, un nuovo stile di vita.
Ci propone, a noi uomini moderni, un modo di vedere le cose e un modello di pratica unici, anche se noi possiamo evidentemente applicarli in modi molto diversi.
Con tutta la sua persona, lui è invito, richiamo, provocazione.
Chiede a tutti, individui e società, di riorientarsi concretamente, di cambiare atteggiamento scoprendo nuove motivazioni, nuove disposizioni, un nuovo orizzonte di senso ed un nuovo destino.
Chi allora è cristiano? Non è semplicemente l’uomo che conduce correttamente la sua vita sociale o anche religiosa.
Certo bisogna legare interiorità cristiana e apertura al mondo, ma anche il non cristiano può essere umano, sociale e autenticamente religioso.
È cristiano colui che cerca di vivere la sua umanità, le sue relazioni sociali e la sua vita religiosa a partire da Cristo, secondo il suo spirito, secondo la sua misura, né più né meno.” Riprendendo un’espressione resa popolare dal filosofo delle scienze Thomas S.
Kuhn, Hans Küng evoca qui i “paradigmi” del cristianesimo, cioè i diversi modelli di pensiero globale che hanno potuto strutturare la visione cristiana del mondo.
Che cos’è essere cattolico? “Che cosa vuol dire per me “cattolico”, “teologo cattolico”? Se si parte dalla nozione originale, può dirsi teologo cattolico colui che, nella sua teologia, sente di dover rispondere ai “cattolici”, in altre parole a tutta la Chiesa, alla Chiesa totale, universale.
Questo deve essere inteso in una duplice dimensione: quella del legame spirituale con la Chiesa di tutte le epoche, e quella del legame con la Chiesa di tutte le nazioni e di tutti i continenti.
Quindi la cattolicità nel tempo, con l’interesse che ciò comporta per la continuità della fede cristiana, ma anche la cattolicità nello spazio: una universalità che ingloba i diversi gruppi di credenti cristiani.
Devo insistere su questo punto: la cattolicità nel tempo e nello spazio non può ammettere che si omettano i giudeo-cristiani (paradigma I) come hanno fatto i Padri greci assolutizzando come verità atemporale della fede e della ragione il paradigma ellenistico (paradigma II), quindi una sintesi della fede e della filosofia greca, quella che difendeva il Ratzinger giovane, quella che ha ripreso nel suo discorso di Ratisbona (2006), come nel suo libro su Gesù (2007).
[…] La cattolicità nello spazio e nel tempo non può accettare neanche che si dichiari di fatto non cristiano il paradigma medioevale romano (paradigma III), come fanno troppo spesso i protestanti, né inversamente che, dall’alto della sua cattedra cattolica romana si dichiari che la Riforma (paradigma IV) e l’Illuminismo (paradigma V) sono responsabili della “disellenizzazione” e del declino progressivo dell’Occidente cristiano, del relativismo moderno dei valori e di un pluralismo che divide.
Un cattolicesimo così ristretto alla sua forma ellenistico-romana è incapace di entrare in dialogo con la filosofia attuale, con le scienze della natura o con la nostra concezione della democrazia, con il pensiero moderno in generale.
Sbarra qualsiasi intesa ecumenica.
Si oppone a qualsiasi vera inculturazione del cristianesimo impedendo la formulazione del messaggio cristiano nel quadro del pensiero indiano, cinese o africano.
È in questo senso della continuità e dell’universalità della fede cristiana che intendo essere teologo cattolico.
Intendendo le cose in questo modo, un teologo di denominazione protestante o evangelica, non potrebbe essere anche cattolico? Perfettamente! E qui vorrei dar da pensare a Joseph Ratzinger: la vera cattolicità non è possesso naturale di un’eredità consegnata ai cattolici.
Questa cattolicità diventa cattolicesimo, in altre parole ideologia, a partire dal momento in cui si ammette “la realtà cattolica così come è diventata”, con tutte le sue proliferazioni e tutte le deformazioni della devozione, della teologia e della sua costituzione ecclesiastica, invece di giudicarla su un solo criterio.
E anche per Ratzinger, questo criterio non può essere altro che il messaggio cristiano originale, l’Evangelo di Gesù Cristo.
Colui che vuole essere teologo cattolico, deve essere di mentalità evangelica, così come inversamente il teologo evangelico nel vero senso della parola deve essere teologo cattolico aperto.
In questo senso, sia cattolici che protestanti, possiamo essere teologi ecumenici.
In altre parole, la vera ecumenicità è quella di un “cattolicesimo evangelico” centrato e ordinato sulla persona di Cristo.” Il 5 luglio 1973, la Congregazione per la dottrina della fede pubblica la dichiarazione Mysterium Ecclesiae, che attacca chiaramente (ma non esplicitamente) certi punti della teologia di Hans Küng, che medita sui rimproveri che gli vengono fatti sul suo stile di difesa.
Sottomettersi umilmente? “Quando un teologo osa mettersi sulla difensiva, ci si guarda bene dal porgli la domanda della verità delle sue affermazioni: ‘Ha ragione di dire quello che ha detto?’, e anche quella del diritto: ‘Abbiamo ragione di metterlo sotto processo?’.
Se ne fa un problema di stile: ‘Come osa parlare con questo tono al presidente della Conferenza episcopale?’ Per me non è una cosa nuova: invece di implicarsi obbiettivamente nel dibattito, questo genere di ecclesiastici si lamenta sempre del tono e dello stile dei suoi critici, mentre non si interroga mai su quelli di una gerarchia che parla senza cuore e con voce comminatoria, quasi divina.
Evidentemente so molto bene quale sia ‘il tono e lo stile’ che ci si aspetta a Roma da parte di coloro che cadono sotto la critica curiale: umiltà ed obbedienza.
Anche Julius Döpfner, il mio collega del Germanicum (all’epoca presidente della Conferenza episcopale tedesca e principale esecutore delle istruzioni romane nei confronti di Küng, NDLR) ha dovuto leggere spesso, come me, certi comunicati trionfanti che riferivano che certi autori, a lungo diffamati e presi di mira in maniera molto pignola, si erano alla fine “umilmente sottomessi”: “Humiliter se subjecit.” Una vittoria per il magistero, anche se in seguito la storia rende giustizia a colui che si è umiliato.
Oggi non si possono che rifiutare certe formule di sottomissione discriminatorie e diffamatorie – del resto non si dispone più della forza dello Stato per imporle.
Ma l’autorità romana aspetta sempre la capitolazione pubblica del “deviante”, con forme più dolci e metodi più morbidi, è sempre di quello che si tratta, oggi come ieri.
Si ricorre ancora al potere, invece di cercare la verità.
Certo, dicono gli apologeti di questo sistema, non siamo più allo stile dell’Inquisizione.
Ma che cosa significa questo stile, per me? Quando mi si propone di andare a Roma per un colloquio, è unicamente allo scopo di ottenere alla fine ciò che mi chiedevano direttamente all’inizio: firmare umilmente, capitolare: Humiliter, se subjecit.” Spesso presentato come l’esatto contrario dei tradizionalisti cattolici, Hans Küng si mostra tuttavia molto misurato nei loro confronti.
E i tradizionalisti? “Presi posizione su Ecône in un articolo del giornale inglese Times del 24 agosto 1975, sotto il titolo “Roma deve trovare un modo per metter fine al conflitto che continua a crescere nella Chiesa” e in una lunga intervista sulla Neue Zürcher Zeitung del 3 ottobre 1975.
Chiedo giustizia per i tradizionalisti e sono a favore di un superamento delle polarizzazioni nella Chiesa cattolica e per una tolleranza reciproca.
Deploro questo conflitto per le persone che vi sono implicate.
Ho fatto anch’io personalmente l’esperienza di quello che costa spiritualmente dover continuamente sopportare un trattamento offensivo da parte delle autorità ecclesiastiche.
Ma devo al contempo protestare vivamente contro il parallelismo che viene stabilito tra il mio caso e quello di monsignor Lefebvre e di Ecône, indicando tutto quello che mi differenzia da loro: non ho mai contestato l’ortodossia delle autorità romane e non ho mai discreditato il concilio definendolo eretico.
Neanche ho fondato il mio specifico gruppo (“progressista”) né cercato di imporre in maniera dottrinaria la mia visione delle cose, il mio modo di vedere la formazione dei preti o la mia concezione dei seminari.
Mi tengo lontano da qualsiasi tendenza scismatica.
Non vedo veramente perché monsignor Lefebvre abbia dovuto costituire il proprio gruppo e creare un seminario particolare.
Nella nostra Chiesa non ce ne sono già abbastanza di seminari e di vescovi conservatori? Non vedo del resto neppure – questo rivolto a Roma – perché, in determinate circostanze, non si dovrebbe più celebrare la messa in latino.
Lo abbiamo già fatto durante i nostri incontri annuali di Concilium, tra teologi di lingue diverse, che capiscono certo tutti il latino.
Non vedo neanche perché noi, cattolici, dovremmo impedire di ricevere la comunione in bocca, alla maniera di ieri, invece di prenderla in mano, secondo una maniera ancora più antica.
Il senso del rinnovamento non deve consistere nel voler regolare tutto in maniera uniforme.
Secondo Agostino, “il massimo di libertà possibile, di obblighi solo quelli necessari, il tutto nell’amore”.
O almeno nella giustizia.
in “Témoignage chrétien” n° 3383 dell’11 febbraio 2010 (traduzione: www.finesettimana.org)

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