Che cosa vuol dire morire

Chi dovesse leggere le sei interviste curate da Daniela Monti con il titolo Che cosa vuol dire morire (Einaudi Stile Libero, pagg.
120, euro 14) in prossimità di un telegiornale di questi ultimi giorni potrebbe essere colto da un leggero senso di vertigine.
Apprendere che la morte è sempre personale, che nel giro di un paio di generazioni sarà autogestita dall´uomo o che, addirittura, non è mai esistita, come sostengono alcuni dei filosofi intervistati, davanti alle immagini dei mucchi di morti in putrefazione nelle strade di Port-au-Prince non è boccone facile da ingoiare anche per palati molto sofisticati.
Ma ciò non vuol dire si tratti di discorsi inutili o astratti.
Al contrario, le riflessioni di Aldo Schiavone, Giovanni Reale, Remo Bodei, Roberta de Monticelli, Vito Mancuso ed Emanuele Severino, sollecitate dalle intelligenti domande della curatrice, rispondono ad un´esigenza fortemente sentita.
Che è quella di liberare la discussione sulla morte dai limiti specialistici del lessico medico o giuridico, situandola in un più ampio orizzonte di pensiero.
Vero è che fin dalla sua origine la filosofia, anche quando si è orientata sui problemi della vita, non ha mai smesso di riflettere su quella morte che ne costituisce non solo la pagina finale, ma anche la cornice inevitabile.
E tuttavia neanche questo ricchissimo patrimonio può bastare nel momento in cui il fenomeno della morte – come del resto quello della nascita – sperimenta una radicale mutazione dovuta alla straordinaria capacità della tecnica a penetrarne i confini prima ermeticamente sigillati.
Naturalmente tutto ciò, piuttosto che chiudere il problema, lo apre a una serie di domande e di conflitti di cui anche la cronaca recente, con i casi Welby ed Englaro, ha recato tragica testimonianza.
Come prima Nietzsche e poi Foucault avevano precocemente intuito, l ´oggetto centrale dello scontro, etico e politico, del nostro tempo è, e sempre più sarà, costituito precisamente dal corpo vivente, e morente, degli uomini.
Qual è la frontiera tra la vita e la morte e chi è deputato a fissarla? Come si incrociano, su di essa, libertà individuale e interesse collettivo, diritto e medicina, teologia e politica? La filosofia non poteva mancare di dire la sua – senza pretendere di risolvere questioni costitutivamente irresolubili, ma almeno cercando di fare chiarezza su di esse.
Naturalmente, come sempre avviene in questi casi, provocando altri interrogativi ed aprendo nuove contraddizioni.
Proverei a raggrupparle all´interno di tre bipolarità concettuali, seguendo il filo dei ragionamenti svolti nel libro.
La prima è costituita dal rapporto tra storia e destino, al centro degli interventi di Schiavone e Bodei.
Dire – come fanno entrambi – che il prodigioso sviluppo tecnologico spinge la vita, e dunque la morte, in un´orbita non più naturale, ma intensamente storica, perché aperta all ´intervento umano, vuol dire che una lunghissima epoca, iniziata con la comparsa dell´uomo sulla terra, si va concludendo.
Senza poter sapere cosa ci riserva il futuro, e senza sottovalutare i rischi che tale trasformazione comporta, per i due autori il percorso verso la liberazione della specie umana dai vincoli della natura è ormai segnato.
Nonostante il suo fascino, il problema di fondo che vedo in simile prospettiva non sta tanto nella perdita della dimensione naturale a favore di quella storica, quanto, piuttosto, in una concezione troppo fluida della stessa storia – e cioè in una possibile sottovalutazione dei traumi, o delle fughe di senso, che troppe volte l´hanno trascinata indietro quando si è illusa di fuggire verso il futuro, dimenticando la propria origine opaca.
Il secondo binomio che emerge dal libro è quello della relazione, altrettanto problematica, tra tecnica e fede.
Certo, i processi di secolarizzazione che caratterizzano il mondo occidentale tendono a spostare il loro confronto a favore della prima.
Le religioni perdono terreno, o si attestano sulla difensiva, davanti all´incalzare della conoscenza scientifica.
Dopo aver perso sia la battaglia con Galileo sia quella con Darwin, la Chiesa cattolica rischia di perdere la guerra.
La intangibilità della vita costituisce per essa l´ultima frontiera su cui attestarsi.
Proprio qui, tuttavia, si determina un singolare rovesciamento di campo.
Come osserva anche Reale, nell´uso di terapie sempre più aggressive volte a trattenere in vita corpi cerebralmente morti, è proprio la Chiesa a sostenere le ragioni della tecnica rispetto alla spontaneità dei processi naturali.
Ma, all´altro capo del binomio, come da tempo insegna Severino, la tecnica a sua volta è diventata una fede, nel senso che ha sostituito la credenza in Dio come argine nei confronti del nulla che ci circonda.
L´ultima coppia bipolare – al centro delle risposte della de Monticelli e di Mancuso – è la relazione tra persona e corpo.
Entrambi vedono nell´idea di persona ciò che riconduce il fenomeno della vita, nel suo rapporto con la morte, dal piano di una falda biologica indifferenziata a quello, individuale, del singolo essere vivente.
Che solo nell´esperienza irripetibile di ciascun uomo e di ciascuna donna la vita sperimenti il suo valore irrinunciabile è una verità indubitabile.
Così come il riferimento alla pari dignità di ogni essere umano.
Meno certo, mi pare, che ad affermarla possa essere proprio quel dispositivo, filosofico e giuridico, della persona che, dalla sua origine romana e cristiana, è sempre servito a dividere il genere umano, e lo stesso corpo vivente, in categorie fornite di diverso valore.
Come che sia, si tratta di sollecitazioni e di dubbi che attestano di per sé tutto l´interesse e il rilievo del libro.
di Roberto Esposito in “la Repubblica” del 26 gennaio 2010 DANIELA MONTI,  Che cosa vuol dire morire, Einaudi Torino 2010,  pp.
120, Euro 14 Finalmente, in questo libro, a parlare di morte non sono medici, politici, cardinali: ma filosofi.
La morte moderna, ospedalizzata e tecnologica, ci è stata sottratta.
L’esperienza della morte non appartiene più, come la percepivamo una volta, agli eventi naturali della vita.
E abbiamo bisogno allora di fermarci a pensare.
Nelle sei interviste di questo libro, la filosofia riprende la parola.
Aldo Schiavone descrive un futuro in cui si sceglierà come, quando e se morire, Giovanni Reale invoca la giusta misura dei Greci, Remo Bodei giunge ad ammettere eutanasia ed eugenetica, Roberta De Monticelli intreccia morte e libertà, Vito Mancuso traccia una terza via tra indisponibilità della vita e autodeterminazione dell’individuo, Emanuele Severino giunge alla vertigine di negare la negazione e ad affermare l’eternità dell’uomo.
Se non ritorneremo a concepire la morte, finiremo per dimenticarci di essere vivi.

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