Con gli artisti papa Benedetto fa da cicerone

Gli artisti dal Papa.
Mi dispiace per gli assenti di Ferdinando Camon in “La Stampa” del 24 novembre 2009 Domenica, su questo giornale, ho raccontato l’incontro del Papa con gli artisti.
Lunedì è uscita una lettera-commento di Alain Elkann: sostanzialmente la scrittura di un altro articolo.
Elkann mi rimprovera di aver avuto con l’incontro un approccio leggero.
Io ho detto che noi tutti, cattolici e non, lo aspettavamo da una vita: dire che lo aspettavamo da prima della nascita mi risultava difficile.
Elkann si sofferma sulla quantità di arte, altissima, che circondava l’evento.
E’ vero, era una cornice grandiosa.
Ma se l’incontro fosse consistito in quella musica e quella pittura, pochi di noi ci sarebbero andati.
Siamo andati per sentire il discorso.
Dopo 45 anni, un Papa parlava di arte agli artisti: l’evento stava qui.
Per me come per tutti, visto che tutti gli articoli parlano solo del discorso.
Un discorso alto e complesso, ma anche rischioso.
Non tutto mi lascia tranquillo.
Sul Giudizio Universale di Michelangelo chiedo a Elkann di comprendermi: nessun artista cattolico lo può contemplare con libera gioia, come fa Elkann, per una ragione grave, anche ai fini del tema che il Papa trattava: su quell’opera di Michelangelo la Chiesa cattolica sbagliò.
Quando Michelangelo aprì le porte e invitò il Papa e i cardinali a venire a vedere il lavoro finito, nel Papa e nei cardinali si diffuse la costernazione.
Un cardinale sussurrò: «Un inutile sfoggio di sapienza anatomica», e un altro: «Non è una sala papale, è una sala termale».
Ogni volta che vedo la Cappella Sistina questo giudizio mi affiora nel cervello, doloroso e insopprimibile.
Il rapporto della Chiesa con gli artisti, fino a Fellini, fino a Pasolini, a Testori, a Tondelli, è un problemaccio.
Sul discorso del Papa, e sui problemi arte-morale, mi sarebbe piaciuto restare un giorno di più, e parlarne tra di noi ospiti.
Se il Papa, come ha annunciato con quell’«Arrivederci», ripeterà l’incontro, ci terrei a che questo avvenisse.
Tra noi chi? Ho detto: di area cristiana.
Fin dove arriva l’area cristiana? Fin là dove la parola del Papa trova attenzione.
Lo ha detto il Papa stesso.
Fra tutti coloro che se il Papa chiama e li invita a venire, gli riconoscono autorità e vengono.
Elkann è tra i primi.
Ma i maggiori scrittori d’Israele, Yehoshua, Oz e Grossman, han rifiutato in blocco.
Hanno ritenuto che il tema o l’oratore non meritassero ascolto? Con pieno diritto, se è così.
Elkann glissa sul fatto, come se non importasse.
A me ha dato delusione e dispiacere.
Ma non facciamone una guerra di religione.
Ci è stato detto: «Arrivederci», rispondiamo: «A presto».
Una carezza del pontefice alla cultura di Lorenzo Mondo in “La Stampa” del 24 novembre 2009 La sera prima dell’udienza papale nella Cappella Sistina, Ferdinando Camon, che si trovava in vena di ombrosità teologiche, mi trascinò con un gruppo di amici a parlare di crisi della cristianità, della difficoltà che prova spesso la Chiesa a farsi comprendere dagli stessi credenti, si tratti di Trinità o di giudizio finale.
Di qui, il suggerimento di un auspicabile incontro con il Papa, seguito da un convegno di intellettuali di area cristiana, per dibattere intra moenia su certi problemi.
Era una chiacchierata nei Musei Vaticani, davanti a due tartine e un calice di vino.
Troppo poco per lasciar presumere – come ha fatto Camon in un suo articolo – la contrarietà mia e di altri a quello che sarebbe occorso l’indomani; per segnalare in particolare una avversione all’invito rivolto da Benedetto XVI (tramite monsignor Ravasi) ad agnostici e cultori di altre fedi religiose.
Non si possono davvero confondere tempi, contesti e discorsi diversi.
Per quanto mi riguarda, sono invece profondamente grato per essere stato accolto tra tante persone di talento in quella Cappella Sistina che – come ha rimarcato Alain Elkann – è «patrimonio comune dell’umanità al di sopra di qualsiasi razza o religione».
Ed ho apprezzato il discorso del Papa, limpido ed elevato, tale da mettere in imbarazzo molti suoi critici.
Benedetto XVI ha voluto esprimere, con tratti di affettuosa gentilezza, l’amicizia della Chiesa – testimoniata da una storia millenaria e dal possente Giudizio michelangiolesco – per chi si applica a creare e scandagliare la bellezza.
E questa, al di là di ogni superficiale appagamento o estetistica bellurie, deve essere intesa nella sua proiezione verticale, come finestra aperta sull’assoluto, sul mistero dell’uomo, sulla sua originaria nobiltà.
Ed era suggestiva l’analogia che, appoggiandosi ai nomi di Simone Weil, Dostoevskij, Hermann Hesse, Von Balthasar, ha saputo istituire tra l’ispirazione artistica e quella religiosa: «Una funzione essenziale della vera bellezza, già evidenziata da Platone, consiste nel comunicare all’uomo una salutare “scossa”, che lo fa uscire da se stesso, lo strappa alla rassegnazione, all’accomodamento del quotidiano, lo fa anche soffrire, come un dardo che lo ferisce, ma proprio in questo modo lo “risveglia”…”.
Come ha detto con epigrafica efficacia il regista Tornatore, si è avvertita, in quelle parole, rivolte senza esclusione a tutti i presenti, “una carezza del Papa alla cultura”».
Il bello non ha etichette né religione di Alain Elkann in “La Stampa” del 23 novembre 2009 Caro direttore, ho letto l’articolo «Noi artisti davanti al Pontefice» pubblicato da La Stampa domenica 22 novembre 2009 a firma Ferdinando Camon.
Vorrei dire all’autore che ho trovato nel racconto della cerimonia in certi punti una licenza poetica scherzosa e ironica che faceva assomigliare la solenne giornata di ieri a una sfilata di moda.
Io non mi sarei mai permesso di scrivere tali cose data la solennità e la simbologia di tale giornata viste le personalità presenti e la sacralità del luogo prescelto da Benedetto XVI: la Cappella Sistina.
Avrei scritto che ringraziavo Monsignor Ravasi, Presidente del Pontificio Consiglio della Cultura e della Pontificia Commissione per i Beni Culturali della Chiesa, per aver organizzato con i suoi collaboratori un evento così significativo.
Voglio ringraziare il Santo Padre per aver scelto un luogo così importante, un’icona così unica per coniugare la bellezza – su cui era incentrato il discorso del Pontefice -, la religione, la spiritualità, il talento e la Chiesa, visto che nella medesima Cappella Sistina, come ha ricordato Benedetto XVI con commozione, si tengono i conclavi e proprio lì in quel luogo Lui è stato eletto al Soglio di Pietro.
Devo dire che pareva strano vedere arrivare in quella Cappella così famosa architetti, poeti, pensatori, cantanti, cantautori, registi, romanzieri che si stupivano di vedersi lì laici, cristiani, buddisti, ebrei e musulmani credenti e non credenti ma tutti in attesa del Papa.
Tutti curiosi di sapere o di provare a capire con quali criteri il Vaticano avesse scelto proprio loro per presentare il mondo dell’arte e della cultura.
Il regista Maselli parlando del Papa e del perché era venuto e del perché aveva accettato quell’invito, ha detto: «Comunque non capita ogni giorno di essere invitato da un Capo di Stato».
A un certo punto ci è stato chiesto in italiano e in inglese di spegnere i nostri cellulari, di stare in silenzio, in raccoglimento ad attendere il Padre.
Quel silenzio rispettoso dell’attesa era bello perché metteva tutti ad un livello di parità e di rispetto verso il Papa e il suo atteso discorso, poi quando è arrivato c’è stato un applauso e quando ha finito di parlare ce n’è stato un altro lunghissimo che confermava l’ampio consenso verso le parole del Pontefice ma soprattutto verso quell’iniziativa.
Nell’ultima parte dell’articolo di Camon ho letto, a dir poco con stupore, certi propositi tra l’altro accomunando nomi di persone che conosco bene e che so avere pensieri ben diversi, mi riferisco all’amico Lorenzo Mondo, biografo di Pavese e all’amico Ernesto Ferrero, biografo di Primo Levi.
C’era scritto: «Sarebbe bello che gli artisti del mondo si ritrovassero ogni 10 anni qui nella Cappella Sistina, ma due giorni, uno ad ascoltare il Papa e uno a confrontarsi tra loro».
Sarebbe meglio se fossero solo artisti cristiani (Mondo corregge di area cristiana).
Non credo che persone quali Zaha Hadid, Arnoldo Foà, Daniel Libeskind (architetto che ha realizzato il Museo dell’Olocausto di Berlino) o altri siano stati invitati lì per caso e se ricordo bene nel discorso il Papa si è rivolto a «Cari e illustri artisti, appartenenti a Paesi, culture e religione diverse, forse anche lontani da esperienze religiose, ma desiderosi di mantenere viva una comunicazione con la Chiesa Cattolica…».
Io credo di essere stato invitato in quella giornata in quanto scrittore di lingua italiana, ebreo che ha sempre lavorato per il dialogo interreligioso.
Allora quando si legge «solo artisti cristiani» mi viene un brivido «non piacevole» e mi accorgo con tutto il rispetto che abbiamo interpretato in modo assai diverso una grande giornata alla quale sono grato e orgoglioso di aver partecipato con tanti uomini e donne di talento, tutti accomunati, dovunque fossero seduti, innanzitutto uguali, assolutamente uguali, in quella Cappella Sistina che Michelangelo e altri grandi maestri come Perugino, il Ghirlandaio, il Botticelli hanno saputo elevare a capolavoro assoluto dell’arte e patrimonio comune dell’umanità al di sopra di qualsiasi razza o religione.
Ieri nella Cappella Sistina e poi nei lunghi corridoi e nei saloni di Palazzo Vaticano ho sentito che si respirava un clima di soddisfazione, di consenso.
La Chiesa aveva deciso in modo solenne dicendo: noi abbiamo bisogno di voi, di gratificare l’arte e gli artisti e questo dal Papa ai Cardinali ai Vescovi fino alle Guardie Svizzere che battevano i tacchi e facevano il saluto al poeta Conte, al poeta Rondoni, all’architetto Botta, allo scrittore Raffaele La Capria e molti altri.
L’arte in quel sabato 21 novembre in Vaticano ha ritrovato il suo posto e anche il rispetto dovuto.
Si capiva bene che tre grandi Pontefici quali Paolo VI, Giovanni Paolo II e Benedetto XVI in un filo rosso sottile che li univa sentivano che gli artisti nella storia spirituale della Chiesa avevano un ruolo centrale.
Del resto l’ispirazione di un artista e la fede sono cose tra loro molto molto vicine.
Ma la vera lezione che ho tratto dalla giornata di ieri nella Cappella Sistina è che il bello non ha etichette perché è soltanto bello.
“Noi artisti davanti al pontefice” di Ferdinando Camon in “La stampa” del 22 novembre 2009 Dovevamo essere 250, ma siamo certamente di più, nella Cappella Sistina, invitati dal Papa.
Scrittori, registi, pittori, scultori…: artisti di tutto il mondo.
Tutti, cattolici e non, aspettavamo da una vita d’incontrarlo.
Ed ecco, l’incontro avviene.
E non su richiesta nostra, ma sua.
Una gentile email è piovuta nel nostro computer, c’informava che era «desiderio del Santo Padre incontrarci» per parlarci del nostro lavoro, di come molta arte oggi si chiude in se stessa e non si preoccupa di raggiungere un fine etico: che è ciò di cui l’umanità ha più bisogno.
Leggo l’e-mail, e mi sembra eufemistica: in realtà le cose stanno anche peggio.
La distinzione non è fra arte autoreferenziale e arte morale.
Tantissima arte oggi, specie nel campo dello spettacolo, soprattutto cinema, punta al denaro: se vuoi fare un film, dev’essere un affare.
E l’affare lo fai (anche in tv, anche nel libro, anche nel teatro…) se cedi agli istinti del pubblico, lo compiaci o lo peggiori.
Benedetto XVI vuol parlarci di questo? Vuol parlarci del bisogno dell’umanità di avere un’arte che la migliori, un’arte in cui la bellezza rimandi alla trascendenza? Grande tema.
Non sono d’accordo con gli invitati che han rifiutato: approvavo in pieno Yehoshua, Oz e Grossman, ma visto che non sono venuti, ora ho qualche riserva.
Ognuno di noi ha un vistoso «passi» penzoloni sul petto, con nome e cognome.
Sul retro è stampato un numero, che indica il nostro posto a sedere nella Cappella.
Infinite curiosità e malignità sui numeri.
Impossibile che siano casuali.
Rispondono certamente a una gerarchia.
Siamo stati valutati e pesati, chi merita la prima fila e chi l’ultima.
C’è di peggio: un buon terzo dei presenti finisce dietro la transenna, da dove non vede nemmeno il Papa.
Viviane Lamarque viene da me a lamentarsi.
Ma tutti ci domandiamo: che graduatoria è? di artisticità, di cattolicità? Nanni Moretti sta tre file davanti a me, come Carlo Lizzani, Andrea Bocelli sta davanti a tutti, la Pamela Villoresi viene due numeri dopo di me: io ho il 123.
Mondo e Parazzoli e Doninelli stanno dietro.
Tornatore è tra i primi, come i fratelli Taviani.
Qualcuno maligna: dev’essere il nostro ordine di salvezza eterna, chi si salva facile e chi fa fatica.
Ma pochi minuti dopo scopriremo quant’è vero il detto evangelico «beati gli ultimi».
Alle 11 esatte tutti i faretti si accendono, la luce raddoppia, e tutti si voltano indietro.
Il Papa avanza dalle nostre spalle.
Sorride con mitezza, ora a destra ora a sinistra, parimenti.
Si guarda bene dal concedere privilegi.
Ma improvvisamente fa un gesto inspiegabile: vede due file avanti alla mia, sul lato che dà sul corridoio centrale, il faccione da luna piena di Lino Banfi, il Papa devia con uno scatto improvviso, s’illumina e stende la mano.
Banfi s’inchina con flessuosità e gliela bacia.
A quel punto ho un sospetto: la graduatoria rispetta la mediaticità.
Il Papa sale verso il Giudizio Universale.
Un dolcissimo coro di bambini si alza dalla nostra destra, poi l’arcivescono Ravasi saluta il Papa, che dunque può parlare.
Ecco dove scatta il «beati gli ultimi»: noi delle file anteriori, i prediletti, non sentiamo niente.
Alla fine mi farò dare il testo scritto.
Il Papa ha una visione manzoniana dell’arte: l’artista che fa arte ha una forza, ma l’artista che fa arte etica ha una doppia forza.
Lui incoraggia verso questa doppia forza.
L’artista lavora sul mistero, dice, ma il mistero è il regno del divino, artistico e divino si toccano.
Nel sistema del Papa gira il concetto che le scale dei valori non possono restar separate, alla fine devono per forza toccarsi, e il valore del bene morale prevale su tutti.
E’ stretta la relazione tra arte e trascendenza, tra arte e mistero, fede e arte scavano nel mistero, dunque sono sorelle.
La bellezza salva dalla disperazione.
Definisce «ipocrita» la bellezza che assume i volti dell’oscenità, della trasgressione e della provocazione.
La vera arte, «anche quando scruta gli aspetti più sconvolgenti del male, si fa voce dell’universale attesa di redenzione».
Vorrei sapere se c’è qui la possibilità di una riabilitazione di scrittori cosiddetti immorali (Moravia, Pasolini…) in moralisti: si può orientare alla speranza descrivendo la disperazione.
E allora, la sofferenza dell’artista, poiché ogni opera richiede sofferenza (a volte fino alla morte), può diventare redenzione: è possibile che l’artista si salvi perché è un artista.
Su «Civiltà Cattolica» ci fu chi scrisse che Moravia e Pasolini sono certamente in Paradiso.
Mi pare che il Papa passi vicino a questi concetti, dal suo discorso si possano ricavare.
Finisce con dolcezza, chiude il foglio.
Da noi, seduti, lunghi applausi.
Lui per ringraziare si alza in piedi.
L’arcivescovo Ravasi ci ferma nel corridoio, dà a ciascuno una medaglia-ricordo coniata per l’occasione.
Sul retro c’è il Cristo che piomba su san Paolo, nella via di Damasco, opera di Michelangelo, nella Cappella Paolina.
Una conversione traumatica.
Avrei preferito qualcosa di diverso, e visto che tutto il discorso era d’impronta manzoniana, poteva incidere per noi il monito manzoniano: «Non profferir mai verbo – che plauda al vizio o la virtù derida».
Che vuol dire: Non mettere la tua genialità al servizio dei soldi.
O dei partiti.
Il precedente incontro di un Papa con gli artisti risale a 45 anni fa.
Troppi.
Penso (ne parlo con Lorenzo Mondo, Ernesto Ferrero, Giuseppe Parazzoli, Maurizio Cucchi): sarebbe bello che gli artisti del mondo si ritrovassero ogni dieci anni qui nella Cappella Sistina, ma due giorni, uno ad ascoltare il Papa e uno a confrontarsi tra loro.
Sarebbe meglio che fossero solo artisti cristiani (Mondo corregge: di area cristiana).
Un minimo di pre-intesa, di problemi in comune.
Treni e alberghi ce li paghiamo noi (come stavolta), i rinfreschi li offre la Martini&Rossi: al Vaticano non costa niente.
Sento l’obiezione: un sinodo cattolico-laico? Rispondo: e perché CODICE RATZINGER Sacro e profano in Vaticano di Federico Mello in “il Fatto Quotidiano” del 22 novembre 2009 Questa volta non ci sono ragazzine urlanti per i loro divi, né flash di fotografi.
E il red carpet non è a Cannes, o a Venezia, né tanto meno a Hollywood, ma a Roma, in piazza San Pietro, sotto il colonnato del Bernini.
Alle nove e mezzo, alla spicciolata, si fanno vedere i primi artisti.
Nanni Moretti e Paolo Veronesi arrivano da soli, a piedi.
Antonello Venditti parcheggia la sua Smart in piazza.
I Pooh, manco fossero i Beatles, attraversano via della Conciliazione tra gli applausi.
L’occasione è solenne.
A dieci anni dalla lettera che Giovanni Paolo II inviò agli artisti, anche Benedetto XVI ha chiamato a raccolta artisti di tutto il mondo e di tutte le fedi.
Tra di loro, 260 in tutto, gli italiani la fanno da padroni: ci sono Baglioni, Vecchioni, Venditti, Castellitto e Margaret Mazzantini; Carla Fracci, Raoul Bova, Claudio Amendola e Terence Hill; Franco Nero, Angelo Branduardi (in camicia di lino e sabot), Tornatore, e Nanni Moretti; Carla Fracci, Cocciante, Bocelli, i fratelli Taviani e Morricone.
Tra gli internazionali spiccano le archistar Zaha Hadid e Santiago Calatrava e lo scrittore iraniano Kader Abdolah, che sfoggia una sgargiante sciarpa verde “in solidarietà al mio popolo”.
I giornalisti, con un accredito stampa che necessita di un obolo di 5 euro (con tanto di ricevuta) arrivano in pullmino dentro i Musei Vaticani, a due passi dall’incredibile volta della Cappella Sistina dove gli artisti attendono il Papa.
Alle undici in punto il Pontefice entra tra gli applausi.
Scende il silenzio e parte il coro della Cappella Musicale Pontificia Sistina.
Tocca quindi a Sergio Castellitto leggere alcuni brani della lettera che Giovanni Paolo II inviò agli artisti nel 1999.
Quindi il saluto di monsignor Ravasi: “L’arte si è spesso dedicata solo all’effimero e a esercizi stilistici sempre più provocatori e autoreferenziali”.
E’ il momento del Santo Padre.
Il Papa ricorda come fu Paolo VI per primo, il 7 maggio 1964, a voler incontrare gli artisti per “riaffermare l’amicizia tra la Chiesa e le arti”.
Ma è alla “Bellezza” che Benedetto XVI dedica il suo discorso.
Bellezza “che richiama l’uomo al suo destino ultimo” anche se “troppo spesso la bellezza che viene propagandata è illusoria e mendace, superficiale e abbagliante fino allo stordimento e, invece di far uscire gli uomini da sé e aprirli ad orizzonti di vera libertà attirandoli verso l’alto li rende ancor più schiavi, privi di speranza e di gioia”.
Questa bellezza “mendace”, continua il Santo Padre, “si trasforma ben presto nel suo contrario, assumendo i volti dell’oscenità, della trasgressione o della provocazione fine a se stessa”.
La sala, assorta, annuisce.
Alla fine del discorso “arrivederci” è il saluto.
Uno scroscio di applausi saluta il Pontefice che, annuncia una voce al microfono, “va a ritirarsi nelle sue stanze” .
Monsignor Ravasi consegna ai presenti una medaglia ricordo.
Ha una parola per tutti: “Ciao Don Matteo” rivolto a Terence Hill, poi abbraccia calorosamente Roberto Vecchioni.
A questa punto l’arte, deve scendere dalle altezze dell’assoluto e confrontarsi con la stampa.
I giornalisti aspettano nella straordinaria Galleria Lapidaria, che collega la Cappella Sistina ai Musei Vaticani.
Sulle pareti sono affisse incisioni di epoca romana: “Sono i manifesti murari dell’Antica Roma – ci spiega una guida – annunci di ogni tipo, a partire da quelli funebri”.
Avanzano gli artisti, gentili e disponibili.
Claudio Baglioni è con il figlio Giovanni (“Sono un vostro lettore” ci dice); Andrea Bocelli posa per i fotografi con moglie e figli.
Susanna Tamaro è braccata dalla corrispondente della Bbc: “Cosa ne pensa della censura della Chiesa, come quella della mostra in cui era esposta una rana crocifissa?”.
“Basta non andare a vedere le cose che non piacciono – risponde la Tamaro – e poi, nei paesi musulmani avrebbero permesso un’offesa del genere alla religione?”.
Risposta da riciclare, nel caso, per “Porta a Porta”.
Castellitto e Mazzantini attraversano la sala di corsa, mano nella mano.
Nanni Moretti, il più atteso – nel nuovo film interpreta lo psicologo di un Papa depresso – non si ferma con nessuno.
Paolo Sorrentino dice che è venuto “per curiosità”; mentre Raoul Bova, evidentemente emozionato, attacca a rilasciare interviste e non la smette neanche quando gli altri sono già al “gnam-gnam” come scriverebbe Dagospia.
Effettivamente Umberto Pizzi, il fotografo del sito di D’Agostino, scatterebbe capolavori sotto queste volte sacre.
Il banchetto, riservato solo agli artisti, è offerto dalla Martini, che distribuisce un comunicato: “La presenza di Martini come sponsor unico dell’incontro in Vaticano, ecc.
ecc.”; e peccato se il marchio dell’aperitivo fa tanto “mercanti del tempio” tra le mura vaticane.
Arriva anche Lino Banfi, il nonno d’Italia.
E’ quasi commosso, racconta che il Papa, entrando nella Cappella, con un cenno del capo ha salutato solo lui.
“Probabilmente si è ricordato quando due anni fa, a Valencia, dissi che se io sono ‘L’abuelo d’Italia’, il nonno d’Italia, allora lui è ‘L’abuelo del mundo’”.
Sembra quasi un’amicizia.
Forse è questo il messaggio più bello della giornata: se anche un ex attore comico interprete di memorabili pellicole scollacciate, può diventare amico del Papa, allora c’è speranza per tutti i peccatori.
Artisti e no.
La bellezza salverà il mondo di Davide Rondoni in “Il Sole-24 Ore” del 22 novembre 2009 Il Papa è entrato nella sala della Cappella Sistina rapido e sorridente.
Al seguito poche persone, uno con una borsa di pelle un poco sdrucita.
Ho pensato: forse un medico, o uno con degli attrezzi.
Ma di attrezzi strani non ha avuto bisogno il Papa per parlare a noi cinquecento artisti invitati da tutto il mondo.
È stato semplice e diretto.
Ha detto, in sintesi: l’arte è una finestra sul mistero, sulla bellezza.
Vi offro la mia amicizia, l’amicizia della Chiesa, di questo posto dove l’arte parla da millenni, perché la fede e l’arte hanno qualcosa di simile.
Ad ascoltarlo grandi artisti internazionali, come Bill Viola, famosi architetti come Mario Botta, e nomi e volti italicamente noti, da Moretti a Cocciante, da Sorrentino a Lino Banfi, da Ranieri al simpaticissimo Giacomo del trio di Aldo e Giovanni.
E poi scrittori come Tamaro, Bevilacqua, Parazzoli, Mondo, Doninelli, Elkan, poeti come Cucchi, Conte, Lamarque, Mussapi.
Tutti un po’ in gita e un po’ emozionati.
Gente di molta fede, e gente di fede così così o di nessuna.
O di altra fede.
L’occasione dell’invito, curato da Monsignor Gianfranco Ravasi, è stato dato dal decennale della importante Lettera agli artisti di Giovanni Paolo II per il Giubileo.
E nel 1964 anche Paolo VI aveva fatto un incontro simile.
Un po’ smarriti e curiosi ci siamo aggirati per le sale dei Musei vaticani.
Gente che si rivedeva dopo trent’anni, o compagni di avventure frequenti.
Venerdì sera il ricevimento, dopo la visita alla parte moderna e contemporanea della collezione d’arte.
La forza del crocefisso di Sutherland.
O le due figure di Previati, Bacon, Boccioni…
E poi nella magnifica Sistina ieri l’incontro con Benedetto.
Che è andato dritto al problema.
Il problema che si chiama: la bellezza.
Che ferisce e attrae, che non ci sta a essere irrisa dal sorrisetto cinico di tanti maestri del pensiero contemporaneo che la trattano come una invenzione del passato.
Che non ci sta a essere solo una specie di esca per mettere in moto brame di possesso.
La bellezza che, insomma, non lascia in pace l’uomo, e dà tormento e visione agli artisti.
Il Papa ha detto che la Chiesa è amica di tutto questo.
Lo è stata lungo i secoli, e se pure qualcuno vorrebbe rompere questa amicizia, se pure tra clericali e gretti laicisti in molti ce la mettono tutta a far fuggire la bellezza dalle stanze del cuore e o delle stanze delle nostre città dove si pronuncia il nome di Dio, questa amicizia non si rompe.
Il Papa l’ha riaffermata.
Lo fa non in nome di una “teoria” cattolica dell’arte, ma di una storia spaventosa di bellezza e di fervore.
E grazie alla forza di pensiero, di testimonianza d’arte e di amicizia che si esprimono in tante figure del nostro tempo.
Non a caso ha citato Simon Weil, Von Balthasar e altri.
La grande scrittrice americana Flannery O’Connor quando le obiettavano che una cattolica non poteva essere una artista nel 900, rispondeva serafica e tagliente che lei proprio perché era cattolica non poteva che essere un’artista nel 900.
Come dire: chi ha un senso vivo del mistero nella vita, chi non accetta la riduzione del cuore a pompa provvisoriamente funzionante, chi conosce l’arte come “ragione in atto”, cioè ragione non ridotta a razionalismo e non bisognosa di fughe irrazionalistiche per toccare il mistero abissale del vivente, ecco, costui nel nostro tempo comprende la attualità dell’amicizia proposta nuovamente ieri da Benedetto.
La storia dell’arte senza la Chiesa semplicemente non ci sarebbe.
Ma quel che la può alimentare non è la resistenza di musei, o un dispiegamento istituzionale di mezzi.
So che al dicastero della cultura pensano di firmare un padiglione di arte vaticana alla Biennale di Venezia.
Mi pare un’azione ambigua.
Quel che alimenterà arte ferita e attratta dalla bellezza come feriva e attraeva Michelangelo sarà l’amicizia nella vita tra uomini di fede e uomini dell’arte.
Così che nella vita degli uni l’arte non sarà una faccenda estranea -come troppe volte ora accade, anche ai più alti livelli di gerarchie e di istituti formativi – e nella vita di noi artisti il volto del mistero che tutto crea anche nelle nostre stesse mani s’incarni nei giorni e nelle ore consuete, e non solo come un profilo sfuggente nella bellezza e nelle ombre.
«Fede e genio siano alleati» di Carlo Marroni in “Il Sole-24 Ore” del 22 novembre 2009 «La fede non toglie nulla al genio».
Ai 260 artisti affluiti ieri nella Cappella Sistina, Benedetto XVI ha lanciato un appello di coesione e riconciliazione, un’esortazione a marciare insieme verso la «Bellezza infinita».
L’evento, a 45 anni dall’incontro con il mondo dell’arte che volle Paolo VI, ha rimarcato l’obiettivo di riaprire il dialogo tra la Chiesa e l’arte, tema che sta a cuore al Papa teologo e musicista.
«Custodi della bellezza», grazie al loro talento, gli artisti hanno «la possibilità di parlare al cuore dell’umanità, di toccare la sensibilità individuale e collettiva, di suscitare sogni e speranze, di ampliare gli orizzonti della conoscenza e dell’impegno umano» ha detto nel discorso Benedetto XVI.
«Siate perciò grati dei doni ricevuti e pienamente consapevoli della grande responsabilità di comunicare la bellezza.
Siate anche voi, attraverso la vostra arte, annunciatori e testimoni di speranza per l’umanità.
E non abbiate paura di confrontarvi con la sorgente prima e ultima della bellezza, di dialogare con i credenti, con chi, come voi, si sente pellegrino nel mondo e nella storia verso la Bellezza infinita».
Per Raztinger «l’umanità può vivere senza la scienza, può vivere senza pane, ma soltanto senza la bellezza non potrebbe più vivere, perché non ci sarebbe più nulla da fare al mondo.
Tutto il segreto è qui, tutta la storia è qui.
Troppo spesso la bellezza che viene propagandata è illusoria e mendace, superficiale e abbagliante fino allo stordimento e, invece di far uscire gli uomini da sè e aprirli ad orizzonti di vera libertà attirandoli verso l’alto, li imprigiona in se stessi e li rende ancor più schiavi, privi di speranza e di gioia.
Si tratta di una seducente ma ipocrita bellezza, che ridesta la brama, la volontà di potere, di possesso, di sopraffazione sull’altro e che si trasforma, ben presto, nel suo contrario, assumendo i volti dell’oscenità, della trasgressione o della provocazione fine a se stessa».
E alla fine dell’incontro saluta gli artisti con un «arrivederci».
Tra i 260 artisti che il Papa ha incontrato anche Antonello Venditti che, parlando di una «giornata memorabile», non ha nascosto un piccolo rammarico: «Mi trovavo nelle prime file e l’acustica non era delle migliori perciò ho perso le bellissime parole che ha pronunciato il Pontefice.
Tutti ci guardavamo ma nessuno ha avuto il coraggio di dire che non si sentiva».
Poi una sorpresa per gli invitati: un tour nei musei vaticani organizzato dal ministro della cultura del Vaticano, monsignor Gianfranco Ravasi, ideatore dell’evento.
«Una carezza alla cultura in un periodo in cui riceve solo schiaffi» è stato, per Giuseppe Tornatore, il discorso del papa rivolto agli esponenti del mondo della cultura: dal cinema all’architettura, passando per poesia, danza, musica, teatro e fotografia.
Tra i tanti presenti i fratelli Taviani, Nanni Moretti, Paolo Sorrentino, Matteo Garrone, Francesca lo Schiavo e Gabriella Pescucci, Maria Luisa Spaziani, Liliana Cavani, Ugo Nespolo, Claudio Baglioni con il figlio Giovanni, Terence Hill («Don Matteo»), i Pooh nella nuova formazione a tre (applauditissimi in Piazza San Pietro), Sergio Castellitto (che ha letto un brano della lettera di Giovanni Paolo II) con la moglie Margaret Mazzantini, la soprano Daniela Dessì, Riccardo Cocciante, Antonello Venditti, Peter Greenaway, Monica Guerritore, Raul Bova (uno dei pochi con meno di 40 anni), Carla Fracci a Andrea Bocelli con i figli.
Moretti, tra l’altro, sta lavorando proprio in questi mesi ad una commedia ambientata in Vaticano, il cui titolo dovrebbe essere Habemus Papam.
 Dopo aver descritto, nelle precedenti catechesi, fatti e personaggi della teologia medievale, papa Joseph Ratzinger ha scelto di illustrare – tre giorni prima dell’incontro con gli artisti – quei capolavori di arte e di fede che sono le cattedrali romaniche e gotiche, quelle che dopo l’anno 1000 coprirono l’Europa “della bianca veste di nuove chiese”.
La prima lezione che Benedetto XVI ne ha tratto è che l’arte e la fede cristiana si chiamano l’un l’altra, “perché entrambe possono e vogliono parlare di Dio, rendendo visibile l’Invisibile”.
La seconda lezione è che la bellezza è “la via più attraente ed affascinante per giungere ad incontrare ed amare Dio”.
Sono temi ai quali Ratzinger, come teologo e pastore, è da sempre sensibilissimo.
Più sotto è riprodotta integralmente la sua riflessione di mercoledì 18 novembre.
Ma per cogliere il suo pensiero più dal vivo è utile riandare a ciò che egli disse, parlando a braccio, ai preti della diocesi di Bressanone da lui incontrati nell’estate del 2008.
Si è abituati a pensare a Benedetto XVI come al papa del “Logos”.
I suoi critici lo accusano di razionalismo.
Ma in realtà egli è convinto che “la prova di verità” del cristianesimo non si dà per sola via razionale.
Per lui “sono l’arte e i santi la più grande apologia della nostra fede”.
Ecco infatti che cosa disse a questo proposito quel 6 di agosto, festa della Trasfigurazione di Gesù, ai preti di Bressanone: “Gli argomenti portati dalla ragione sono assolutamente importanti ed irrinunciabili, ma poi da qualche parte rimane sempre il dissenso.
Invece, se guardiamo i santi, questa grande scia luminosa con la quale Iddio ha attraversato la storia, vediamo che lì veramente c’è una forza del bene che resiste ai millenni, lì c’è veramente la luce dalla luce.
“E nello stesso modo, se contempliamo le bellezze create dalla fede, ecco, sono semplicemente, direi, la prova vivente della fede.
[…] Tutte le grandi opere d’arte, le cattedrali – le cattedrali gotiche e le splendide chiese barocche – tutte sono un segno luminoso di Dio e quindi veramente una manifestazione, un’epifania di Dio.
[…] “Abbiamo appena ascoltato il suono dell’organo in tutto il suo splendore e io penso che la grande musica nata nella Chiesa sia un rendere udibile e percepibile la verità della nostra fede: dal gregoriano alla musica delle cattedrali fino a Palestrina e alla sua epoca, fino a Bach e quindi a Mozart e Bruckner e così via…
Ascoltando tutte queste opere – le Passioni di Bach, la sua Messa in si minore e le grandi composizioni spirituali della polifonia del XVI secolo, della scuola viennese, di tutta la musica, anche quella di compositori minori – improvvisamente sentiamo: è vero! Dove nascono cose del genere, c’è la Verità.
[…] “L’arte cristiana è un’arte razionale – pensiamo all’arte del gotico o alla grande musica o anche, appunto, alla nostra arte barocca – ma è espressione artistica di una ragione molto più ampia, nella quale cuore e ragione si incontrano.
Questo è il punto.
Questo, penso, è in qualche modo la prova della verità del cristianesimo: cuore e ragione si incontrano, bellezza e verità si toccano.
E quanto più noi stessi riusciamo a vivere nella bellezza della verità, tanto più la fede potrà tornare ad essere creativa anche nel nostro tempo e ad esprimersi in una forma artistica convincente”.
Qui di seguito, la sua catechesi di due giorni fa sulle cattedrali romaniche e gotiche: Quando l’Europa si coprì “della bianca veste di nuove chiese” di Benedetto XVI Roma, udienza generale di mercoledì 18 novembre 2009 Cari fratelli e sorelle, nelle catechesi delle scorse settimane ho presentato alcuni aspetti della teologia medievale.
Ma la fede cristiana, profondamente radicata negli uomini e nelle donne di quei secoli, non diede origine soltanto a capolavori della letteratura teologica, del pensiero e della fede.
Essa ispirò anche una delle creazioni artistiche più elevate della civiltà universale: le cattedrali, vera gloria del Medioevo cristiano.
Infatti, per circa tre secoli, a partire dal principio del secolo XI si assistette in Europa a un fervore artistico straordinario.
Un antico cronista descrive così l’entusiasmo e la laboriosità di quel tempo: “Accadde che in tutto il mondo, ma specialmente in Italia e nelle Gallie, si incominciasse a ricostruire le chiese, sebbene molte, per essere ancora in buone condizioni, non avessero bisogno di tale restaurazione.
Era come una gara tra un popolo e l’altro; si sarebbe creduto che il mondo, scuotendosi di dosso i vecchi cenci, volesse rivestirsi dappertutto della bianca veste di nuove chiese.
Insomma, quasi tutte le chiese cattedrali, un gran numero di chiese monastiche, e perfino oratori di villaggio, furono allora restaurati dai fedeli” (Rodolfo il Glabro, Historiarum 3, 4).
Vari fattori contribuirono a questa rinascita dell’architettura religiosa.
Anzitutto, condizioni storiche più favorevoli, come una maggiore sicurezza politica, accompagnata da un costante aumento della popolazione e dal progressivo sviluppo delle città, degli scambi e della ricchezza.
Inoltre, gli architetti individuavano soluzioni tecniche sempre più elaborate per aumentare le dimensioni degli edifici, assicurandone allo stesso tempo la saldezza e la maestosità.
Fu però principalmente grazie all’ardore e allo zelo spirituale del monachesimo in piena espansione che vennero innalzate chiese abbaziali, dove la liturgia poteva essere celebrata con dignità e solennità, e i fedeli potevano sostare in preghiera, attratti dalla venerazione delle reliquie dei santi, mèta di incessanti pellegrinaggi.
Nacquero così le chiese e le cattedrali romaniche, caratterizzate dallo sviluppo longitudinale, in lunghezza, delle navate per accogliere numerosi fedeli; chiese molto solide, con muri spessi, volte in pietra e linee semplici ed essenziali.
Una novità è rappresentata dall’introduzione delle sculture.
Essendo le chiese romaniche il luogo della preghiera monastica e del culto dei fedeli, gli scultori, più che preoccuparsi della perfezione tecnica, curarono soprattutto la finalità educativa.
Poiché bisognava suscitare nelle anime impressioni forti, sentimenti che potessero incitare a fuggire il vizio, il male, e a praticare la virtù, il bene, il tema ricorrente era la rappresentazione di Cristo come giudice universale, circondato dai personaggi dell’Apocalisse.
Sono in genere i portali delle chiese romaniche a offrire questa raffigurazione, per sottolineare che Cristo è la Porta che conduce al Cielo.
I fedeli, oltrepassando la soglia dell’edificio sacro, entrano in un tempo e in uno spazio differenti da quelli della vita ordinaria.
Oltre il portale della chiesa, i credenti in Cristo, sovrano, giusto e misericordioso, nell’intenzione degli artisti potevano gustare un anticipo della beatitudine eterna nella celebrazione della liturgia e negli atti di pietà svolti all’interno dell’edificio sacro.
Nei secoli XII e XIII, a partire dal nord della Francia, si diffuse un altro tipo di architettura nella costruzione degli edifici sacri, quella gotica, con due caratteristiche nuove rispetto al romanico, e cioè lo slancio verticale e la luminosità.
Le cattedrali gotiche mostravano una sintesi di fede e di arte armoniosamente espressa attraverso il linguaggio universale e affascinante della bellezza, che ancor oggi suscita stupore.
Grazie all’introduzione delle volte a sesto acuto, che poggiavano su robusti pilastri, fu possibile innalzarne notevolmente l’altezza.
Lo slancio verso l’alto voleva invitare alla preghiera ed era esso stesso una preghiera.
La cattedrale gotica intendeva tradurre così, nelle sue linee architettoniche, l’anelito delle anime verso Dio.
Inoltre, con le nuove soluzioni tecniche adottate, i muri perimetrali potevano essere traforati e abbelliti da vetrate policrome.
In altre parole, le finestre diventavano grandi immagini luminose, molto adatte ad istruire il popolo nella fede.
In esse – scena per scena – venivano narrati la vita di un santo, una parabola, o altri eventi biblici.
Dalle vetrate dipinte una cascata di luce si riversava sui fedeli per narrare loro la storia della salvezza e coinvolgerli in questa storia.
Un altro pregio delle cattedrali gotiche è costituito dal fatto che alla loro costruzione e alla loro decorazione, in modo differente ma corale, partecipava tutta la comunità cristiana e civile; partecipavano gli umili e i potenti, gli analfabeti e i dotti, perché in questa casa comune tutti i credenti erano istruiti nella fede.
La scultura gotica ha fatto delle cattedrali una “Bibbia di pietra”, rappresentando gli episodi del Vangelo e illustrando i contenuti dell’anno liturgico, dalla Natività alla Glorificazione del Signore.
In quei secoli, inoltre, si diffondeva sempre di più la percezione dell’umanità del Signore, e i patimenti della sua Passione venivano rappresentati in modo realistico: il Cristo sofferente, il “Christus patiens”, divenne un’immagine amata da tutti, ed atta a ispirare pietà e pentimento per i peccati.
Né mancavano i personaggi dell’Antico Testamento, la cui storia divenne in tal modo familiare ai fedeli che frequentavano le cattedrali come parte dell’unica, comune storia di salvezza.
Con i suoi volti pieni di bellezza, di dolcezza, di intelligenza, la scultura gotica del secolo XIII rivela una pietà felice e serena, che si compiace di effondere una devozione sentita e filiale verso la Madre di Dio, vista a volte come una giovane donna, sorridente e materna, e principalmente rappresentata come la sovrana del cielo e della terra, potente e misericordiosa.
I fedeli che affollavano le cattedrali gotiche amavano trovarvi anche espressioni artistiche che ricordassero i santi, modelli di vita cristiana e intercessori presso Dio.
E non mancarono le manifestazioni “laiche” dell’esistenza; ecco allora apparire, qua e là, rappresentazioni del lavoro dei campi, delle scienze e delle arti.
Tutto era orientato e offerto a Dio nel luogo in cui si celebrava la liturgia.
Possiamo comprendere meglio il senso che veniva attribuito a una cattedrale gotica, considerando il testo dell’iscrizione incisa sul portale centrale di Saint-Denis, a Parigi: “Passante, che vuoi lodare la bellezza di queste porte, non lasciarti abbagliare né dall’oro, né dalla magnificenza, ma piuttosto dal faticoso lavoro.
Qui brilla un’opera famosa, ma voglia il cielo che quest’opera famosa che brilla faccia splendere gli spiriti, affinché con le verità luminose s’incamminino verso la vera luce, dove il Cristo è la vera porta”.
Cari fratelli e sorelle, mi piace ora sottolineare due elementi dell’arte romanica e gotica utili anche per noi.
Il primo: i capolavori artistici nati in Europa nei secoli passati sono incomprensibili se non si tiene conto dell’anima religiosa che li ha ispirati.
Un artista, che ha testimoniato sempre l’incontro tra estetica e fede, Marc Chagall, ha scritto che “i pittori per secoli hanno intinto il loro pennello in quell’alfabeto colorato che era la Bibbia”.
Quando la fede, in modo particolare celebrata nella liturgia, incontra l’arte, si crea una sintonia profonda, perché entrambe possono e vogliono parlare di Dio, rendendo visibile l’Invisibile.
Vorrei condividere questo nell’incontro con gli artisti del 21 novembre, rinnovando ad essi quella proposta di amicizia tra la spiritualità cristiana e l’arte, auspicata dai miei venerati predecessori, in particolare dai servi di Dio Paolo VI e Giovanni Paolo II.
Il secondo elemento: la forza dello stile romanico e lo splendore delle cattedrali gotiche ci rammentano che la “via pulchritudinis”, la via della bellezza, è un percorso privilegiato e affascinante per avvicinarsi al Mistero di Dio.
Che cos’è la bellezza, che scrittori, poeti, musicisti, artisti contemplano e traducono nel loro linguaggio, se non il riflesso dello splendore del Verbo eterno fatto carne? Afferma sant’Agostino: “Interroga la bellezza della terra, interroga la bellezza del mare, interroga la bellezza dell’aria diffusa e soffusa.
Interroga la bellezza del cielo, interroga l’ordine delle stelle, interroga il sole, che col suo splendore rischiara il giorno; interroga la luna, che col suo chiarore modera le tenebre della notte.
Interroga le fiere che si muovono nell’acqua, che camminano sulla terra, che volano nell’aria: anime che si nascondono, corpi che si mostrano; visibile che si fa guidare, invisibile che guida.
Interrogali! Tutti ti risponderanno: Guardaci: siamo belli! La loro bellezza li fa conoscere.
Questa bellezza mutevole chi l’ha creata, se non la Bellezza Immutabile?” (Sermo CCXLI, 2: PL 38, 1134).
Cari fratelli e sorelle, ci aiuti il Signore a riscoprire la via della bellezza come uno degli itinerari, forse il più attraente ed affascinante, per giungere ad incontrare ed amare Dio.

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