Il Tar del Lazio su Irc e credito scolastico

Il Tar del Lazio su Irc e credito scolastico   Sergio Cicatelli     In agosto i giornali sono a corto di notizie e allora si lascia spazio volentieri a dibattiti vuoti o polemiche superficiali per riempire in qualche modo le pagine.
C’è chi approfitta di questa situazione trovando facile ospitalità per “notizie” abilmente costruite e destinate a sopravvivere alla propria reale consistenza.
È il caso della sentenza del Tar del Lazio n.
7076, che è esplosa su TV e giornali tra l’11 e il 12 agosto scorsi, con titoli che parlavano di esclusione degli Idr dagli scrutini e interviste inneggianti alla recuperata laicità della scuola.
Chi si è fermato alla lettura dei giornali (o almeno di certi giornali) avrà immaginato un terremoto scolastico; chi ha cercato di documentarsi meglio avrà compreso la reale portata della sentenza e della notizia ad essa collegata.
Vogliamo quindi provare a ricostruire la vicenda, riconducendola entro i suoi effettivi confini giuridici ed evitando di discutere sui massimi sistemi (valore della religione, tradizioni storiche, laicità dello stato e della scuola, ecc.) come hanno fatto tanti degli esperti che, da posizioni diverse, sono intervenuti nei giorni scorsi sull’argomento cadendo nella trappola della polemica precostituita.
  Anzitutto, il merito della questione.
Non si parla assolutamente di esclusione degli Idr dagli scrutini ma solo del contributo dell’Irc al credito scolastico negli ultimi tre anni di scuola superiore, in vista dell’esame di stato.
Il Tar del Lazio ha riunito insieme in un’unica trattazione due ricorsi che impugnavano le ordinanze ministeriali del 2007 e 2008 sugli esami di stato (OM 26/07 e OM 30/08), in cui era previsto (art.
8, cc.
13-14) che l’Irc potesse intervenire nella banda di oscillazione del punteggio di credito insieme agli altri fattori previsti dal regolamento d’esame (frequenza, partecipazione al dialogo educativo, attività integrative, crediti formativi extrascolastici).
Sull’OM 26/07 il Tar si era già espresso nel maggio 2007 disponendone la sospensione, ma la sua ordinanza (n.
2408) era stata tempestivamente annullata dal Consiglio di Stato (sez.
VI, decreto presidenziale cautelare n.
2699 del 31-5-2007 e ord.
2920 del 12-6-2007).
Incuranti di quell’annullamento, i ricorrenti – che nel frattempo hanno chiamato a raccolta altri alleati costituendo un cartello di ben 24 associazioni e comunità religiose non cattoliche (con sigle invero talvolta sovrapponibili) – hanno riproposto il medesimo ricorso contro l’ordinanza dell’anno successivo e il Tar ha abbinato inopinatamente la trattazione di entrambi i ricorsi (del resto identici) nella sentenza attuale pur conoscendo già la posizione contraria del superiore Consiglio di Stato.
In secondo luogo, diamo un’occhiata alle date.
La prima udienza pubblica in merito si tiene l’11 febbraio 2009, in singolare coincidenza con l’ottantesimo anniversario del primo Concordato.
La camera di consiglio si svolge il 6 maggio e la sentenza porta la data del 17 luglio.
C’è da chiedersi come mai sia finita sui giornali solo il 12 agosto, ma forse i registi della comunicazione hanno voluto assicurarsi una platea sgombra da altri eventi per ottenere una maggiore risonanza.
Inoltre, non va dimenticato che i ricorsi riguardano le ordinanze del 2007 e del 2008, relative ad anni scolastici che hanno da tempo concluso e perfezionato le loro operazioni; e la sentenza non ha alcuna efficacia sull’anno scolastico ancora in corso, che vedrà concludere nei prossimi giorni gli scrutini lasciati in sospeso a giugno per gli studenti che dovevano recuperare qualche materia.
Ma siamo certi che qualche zelante docente o dirigente non mancherà di sollevare la questione, comunque priva di qualsiasi fondamento giuridico.
Pare che anche contro l’ordinanza di quest’anno (OM 40/09) sia stato fatto ricorso, ma il Tar non si è ancora pronunciato.
Nel frattempo, lo scorso 19 agosto è uscito in Gazzetta Ufficiale l’atteso regolamento della valutazione (DPR 20-6-2009, n.
122), che scioglie ogni dubbio ribadendo che l’Idr partecipa regolarmente all’attribuzione del punteggio per il credito scolastico (art.
6, c.
3).
Infine, è curioso che il Tar del Lazio si sia pronunciato sulla questione dopo aver già respinto (con sentenza n.
7101 del 2000) il medesimo ricorso sull’ordinanza del 1999.
Ma si tratta di sezioni diverse del medesimo Tar: mentre nel 2000 era intervenuta la sezione terza bis del Tar laziale, da qualche anno il solito gruppo di ricorrenti ha trovato un insperato alleato nella sezione terza quater del medesimo Tar, che è già intervenuta in altre occasioni (puntualmente amplificate dalla stampa) su questioni relative alla valutazione dell’Irc.
Il collegio giudicante – composto dal dr.
Mario Di Giuseppe, presidente, e dal dr.
Umberto Realfonzo, relatore, di volta in volta affiancati da un terzo giudice – si era infatti già occupato di valutazione dell’Irc (ordinanze nn.
741-742 del 2006) disponendo la sospensiva della CM 84/05 che all’epoca aveva consentito il rientro dell’Irc in un unico documento di valutazione.
Il Ministero era stato di conseguenza costretto ad emanare le note del 3-2-2006, del 9-2-2006 e del 12-2-2006 con cui si precisava che le istituzioni scolastiche avrebbero prima “potuto” e poi “dovuto” redigere le consuete schede separate di valutazione dell’Irc.
  La posizione della sezione terza quater del Tar laziale è facilmente riassumibile nella tesi della natura religiosa e non scolastica dell’Irc, nonostante il Concordato del 1984 lo abbia collocato «nel quadro delle finalità della scuola» e la successiva Intesa del 1985 abbia fissato tutti gli aspetti che ne fanno un insegnamento pienamente scolastico (programmi didattici, libri di testo, percorsi di formazione degli Idr).
Non è forse un caso che spesso, quando non cita formalmente norme costituite, il Tar parli di scelta della “religione cattolica” e non di scelta dell’“insegnamento” della religione cattolica, non volendo – forse inconsciamente – riconoscere valenza scolastica (di insegnamento) a quella che per esso rimane una scelta di fede e una dichiarazione di appartenenza.
I giudici della sezione terza quater, infatti, collocano l’Irc nell’ambito della «tutela di valori di carattere morale, spirituale e/o confessionale» che da un lato legittimano le diverse confessioni religiose a ricorrere e dall’altro riducono le coordinate scolastiche dell’Irc.
Essi sono consapevoli di entrare in contraddizione con i colleghi che nel 2000 si erano invece pronunciati a favore dell’Irc, ma contestano la logica della precedente pronuncia, fondata «su un presupposto logico e giuridico che non può essere condiviso, cioè che l’insegnamento di una religione, qualunque essa sia (sia cattolica che di altri culti), possa essere assimilata a qualsiasi altra attività intellettuale o educativa in senso tecnico del termine», dato che «qualsiasi religione – per sua natura – non è né un’attività culturale, né artistica, né ludica, né un’attività sportiva né un’attività lavorativa ma attiene all’essere più profondo della spiritualità dell’uomo ed a tale stregua va considerata a tutti gli effetti».
Già nelle ordinanze del 2007 la sezione terza quater aveva anticipato in forma sintetica le sue opinioni ritenendo «l’insegnamento della religione come una materia extracurriculare, come è dimostrato dal fatto che il relativo il giudizio – per coloro che se ne avvalgono – non fa parte della pagella ma deve essere comunicato con una separata “speciale nota”»; per altro verso, «sul piano didattico, l’insegnamento della religione non può a nessun titolo, concorrere alla formazione del “credito scolastico” di cui all’art.
11 del D.P.R.
n.
323/1988, per gli esami di maturità, che darebbe postumamente luogo ad una disparità di trattamento con gli studenti che non seguono né l’insegnamento religioso e né usufruiscono di attività sostitutive».
Con simili premesse, è facile ai giudici Di Giuseppe, Realfonzo e Amicuzzi accogliere oggi le ragioni dei ricorrenti, che possono essere sinteticamente riassunte come segue: 1) il divieto di discriminazione fissato dallo stesso Concordato del 1984 come conseguenza della scelta effettuata sull’Irc; 2-a) la disparità di trattamento tra chi si avvale dell’Irc e chi non se ne avvale, 2-b) l’indeterminatezza dei criteri di valutazione del credito scolastico che possono dar luogo ad ulteriori discriminazioni, 2-c) la tardiva pubblicazione delle istruzioni che fissano criteri per la valutazione di attività scelte in precedenza; 3) l’illegittimità costituzionale dell’art.
9 del Concordato stesso per la disparità di trattamento tra le diverse confessioni religiose.
Con atti separati alcuni hanno anche sostenuto che l’attribuzione del credito condizionerebbe la scelta di avvalersi dell’Irc.
È abbastanza facile notare invece che: 1) il divieto di discriminazione, in ragione del principio costituzionale di uguaglianza, non può essere interpretato a senso unico come possibile solo nei confronti di chi non si avvale dell’Irc ma deve valere anche a tutela di coloro che si avvalgono dell’Irc, impedendo che siano posti in difficoltà con il tentativo di rendere inefficace ai fini scolastici la scelta effettuata; 2-a) la scelta sull’Irc inevitabilmente determina una condizione diversa tra chi se ne avvale e chi non se ne avvale (altrimenti non avrebbe senso scegliere) e si deve solo evitare che la diversità diventi discriminazione con l’imposizione di una condizione deteriore (ad entrambe le parti) in ragione di quella scelta; 2-b) i criteri di valutazione sono istituzionalmente affidati alla discrezionalità delle singole scuole a motivo della loro autonomia (DPR 275/99, art.
4, c.
4) e del carattere tecnico della valutazione stessa; 2-c) le ordinanze sugli esami sono sempre state pubblicate in corso d’anno con istruzioni che si ripetono ogni volta per consuetudine consolidata, anche se si deve riconoscere che la sede più appropriata per le disposizioni sull’Irc sarebbe stata il regolamento dell’esame o una sua integrazione; 3) la legittimità costituzionale dell’art.
9 del nuovo Concordato è stata riconosciuta una prima volta dalla Corte costituzionale con la sentenza 203/89 (qui si intravede una nuova fragile contestazione, relativa all’uguaglianza tra confessioni religiose, ma la distinta definizione delle rispettive condizioni negli articoli 7 e 8 della Costituzione dovrebbe sufficientemente convincere circa la legittimità delle soluzioni adottate).
Per evidenti ragioni di spazio dobbiamo sorvolare sulle questioni procedurali e sugli errori tecnici commessi dai giudici.
Su questi ultimi – per non lasciare nel vago l’accusa – ci limitiamo a segnalare che il divieto di voto e di esame viene attribuito, insieme alla scheda separata di valutazione, al Protocollo addizionale del nuovo Concordato mentre è materia normata dall’art.
309 del DLgs 297/94 sulla base di autonome disposizioni risalenti addirittura al 1930; inoltre si sostiene che le ordinanze del 2007 e 2008 si pongono «in palese contraddizione con le precedenti analoghe ordinanze ministeriali», quando invece le norme impugnate risalgono all’OM 128 del 1999 e sono state puntualmente ribadite da tutti i Ministri succedutisi da allora, da Berlinguer a De Mauro, a Moratti e a Fioroni, come dimostra del resto il precedente ricorso risolto dal Tar nel 2000.
Sarebbe inoltre da approfondire l’uso parziale e tendenzioso che i giudici della sezione terza quater fanno delle sentenze della Corte costituzionale, estraendo dal contesto affermazioni incomplete.
Nel 1989, per esempio, la Corte costituzionale si espresse in maniera ambigua, scrivendo che «con l’accordo del 18 febbraio 1984 emerge un carattere peculiare dell’insegnamento di una religione positiva: il potere suscitare, dinanzi a proposte di sostanziale adesione ad una dottrina, problemi di coscienza personale e di educazione familiare, per evitare i quali lo Stato laico chiede agli interessati un atto di libera scelta».
L’Irc non propone assolutamente di aderire ad una fede ma solo di conoscerne correttamente i contenuti, come provano tutti i programmi didattici emanati negli ultimi venticinque anni.
D’altra parte, proprio la Corte costituzionale nella stessa sentenza n.
203 descrive l’Irc come «non implicante una pretesa di adesione diversa o superiore rispetto a quella richiesta per qualsiasi altra materia d’insegnamento».
I giudici della sezione terza quater, invece, sfruttano astutamente l’equivoca espressione della Corte costituzionale per sostenere che, «sul piano giuridico, un insegnamento di carattere etico e religioso, strettamente attinente alla fede individuale, non può assolutamente essere oggetto di una valutazione sul piano del profitto scolastico, proprio per il rischio di valutazioni di valore proporzionalmente ancorate alla misura della fede stessa».
E introducono addirittura il sospetto che la valutazione dell’Irc sia da collegare «alla misura della adesione ai valori dell’insegnamento cattolico impartito» o che il profitto degli avvalentisi più convinti «potrebbe essere condizionato da dubbi teologici sui misteri della propria Fede».
  Già solo alla luce di queste sommarie considerazioni risulta facile concludere che la sentenza 7076/09 è solo uno strumento di propaganda ideologica, visto che gli stessi giudici sono intervenuti inutilmente su anni scolastici conclusi e senza che gli interessati abbiano impugnato gli scrutini in cui si sarebbe verificata la supposta disparità di trattamento.
Sull’anno scolastico 2008-09 la sentenza non ha alcuna efficacia, sia perché l’anno è regolamentato dalla specifica OM 40/09 che finora non è stata annullata da alcuna ulteriore disposizione, sia perché è adesso in vigore il regolamento della valutazione (DPR 122/09) che riconosce all’Irc il ruolo di contribuire al credito scolastico.
Inoltre, non è difficile immaginare l’esito del ricorso annunciato dal ministro Gelmini al Consiglio di Stato (e non avrebbero dovuto far fatica ad immaginarlo neanche i giudici della sezione terza quater, visto che l’organo superiore si era già pronunciato in materia).
Ciononostante, la disputa ferragostana sull’Irc è risolta ma non dissolta, perché gli agguerriti ricorrenti non mancheranno di far partire nuovi attacchi alla normativa oggi contenuta nel DPR 122/09 (la Cgil ha da tempo annunciato ricorsi), quanto meno per via dell’incomprensibile distinzione – questa sì discriminante – che il Ministero ha voluto introdurre tra chi frequenta l’Irc e chi frequenta le attività alternative (art.
2, c.
5, e art.
4, c.
1).
D’altra parte, l’obiettivo era quello di riattizzare la polemica sull’Irc rilanciando argomenti e slogan privi di fondamento giuridico ma efficaci su un’opinione pubblica distratta e superficiale.
Come scriveva Beaumarchais: «Calunniate, calunniate.
Qualcosa resterà».

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *