Vacanze Romane

Per amore si può anche rinunciare a uno scoop giornalistico.
E se il cuore batte per la principessa Audrey Hepburn – simbolo di grazia, classe e femminilità – si può ben capire quanto sia dolorosa la successiva, forzata rinuncia a questo amore, sacrificato all’altare della ragion di Stato.
Gregory Peck, nei panni del reporter statunitense Joe Bradley, incarna in Roman Holiday il dramma di un amore impossibile a causa della differenza di ceto.
Del film, diretto da William Wyler nel 1953, e vincitore di tre Oscar (Hepburn quale miglior attrice, soggetto, costumi bianco e nero), generalmente si ricordano solo le scene più leggere e spensierate, come per esempio la mano dei due protagonisti nella Bocca della Verità, il radicale taglio di capelli della principessa Anna durante il suo allegro vagabondare – anche a bordo di una Vespa – per le vie di una Roma popolare e sorridente.
Ma c’è molto di più, e di più profondo nel film, comunicato con tocco leggiadro.
Vacanze Romane fa parte di quella ristretta élite di pellicole che, riviste più volte, si apprezzano ancora meglio, perché – parafrasando Italo Calvino a proposito dei capolavori letterari – non finiscono mai di dire quello che hanno da dire.
E più si rivede Vacanze Romane più ci si accorge di dettagli e sfumature che, a una prima pur attenta visione, potrebbero sfuggire.
Girato in un periodo in cui si stavano sempre più affermando pellicole sentimentali molto “parlate”, quello tra Audrey Hepburn e Gregory Peck è un amore fatto soprattutto di sguardi, di silenzi, di frasi solo accennate, ma quanto mai eloquenti.
Una lezione di cinema sempre valida dunque, considerando la mai domata tensione, nel mondo della celluloide, alla verbosità e al didascalico, alla quale, in questo film, si sottraggono anche le figure dei coprotagonisti, delineate con sapiente misura.
Dal film di Wyler si trae poi una lezione di discrezione.
Difficile infatti immaginare un rapporto più casto tra i due protagonisti: eppure che intensità e che ardore in quegli abbracci, a indicare un sentimento che nasce e a sancire l’addio a questo amore.
La fuga dalla realtà della principessa Anna, insofferente delle pastoie del protocollo, è destinata a fallire sin dall’inizio; come pure non ha scampo il sogno del giornalista americano di strappare, dal suo mondo, una testa coronata.
Lungo il solco di questo incolmabile divario si dipana il film, che sa unire sorriso e lacrima, spensieratezza e amara riflessione sui capricci della sorte.
Ai dignitari che le fanno notare che, con la fuga, era venuta meno ai suoi doveri, la principessa risponde, con esemplare fermezza, che se fosse stato veramente così, non sarebbe più tornata – “né ora, né mai” – al ruolo che il destino le aveva riservato.
E quando alla fine del film – durante l’incontro con la stampa estera – Anna capisce, tutto in un attimo, la nobile verità sul giornalista da lei amato, la sensazione è che questo colpo di scena già pone il film nel novero dei capolavori.
E la sensazione diventa certezza quando, dopo aver visto per l’ultima volta la principessa, il giornalista, tornando sui suoi passi, soffoca il suo grande amore in un tormentato singhiozzo: il gozzo di Gregory Peck, che impercettibilmente, ma quanto mai significativamente, va, per una frazione di secondo, su e giù, è tra le scene più semplici e rivelatrici della storia del cinema.
(©L’Osservatore Romano – 31 luglio 2009)

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