Filippo Neri: la predicazione quotidiana

La preziosa eredità filippiana fu codificata negli Instituta della congregazione, approvati da Paolo V nel 1612: “Coloro che sono stati scelti per questo ufficio nutrono l’anima degli ascoltatori con un genere di predicazione veramente fruttuoso, adattando soprattutto le parole, con ordinata successione, alla comprensione del popolo, senza concedere nulla alla vuota pomposità e al vano applauso; e confermano l’insegnamento particolarmente citando gli esempi dei Santi e con fatti storici documentati.
Eviteranno inoltre (…) tutti gli argomenti che si addicono più alle scuole che all’Oratorio”.
Già il primo testo costituzionale (1583) stabiliva che cibo fondamentale nella congregazione oratoriana fosse la Scrittura di cui si chiedeva una conoscenza profonda attraverso un perseverante contatto: percupimus eos qui publicis praedicationibus destinandi erunt Scripturae divinae paginas (…) diurna nocturnaque manu diligentissime pertractare.
E gli scritti dei primi oratoriani, con la loro ricchezza di informazione e la penetrazione della Sacra Scrittura, mostrano quanto tale indicazione fosse diligentemente accolta.
“Padre Filippo – si legge nell’Itinerario spirituale dell’Oratorio – con il suo metodo creò una vera scuola nell’ambiente di Roma, dove i predicatori ecclesiastici rivaleggiavano con i classici pagani.
Il Santo insegnava che per predicare, bisogna prima far molta preghiera, dar molta importanza alla pratica della virtù, avere retta intenzione nello studio e ricorrere frequentemente agli esempi presi dalla vita della Chiesa e dei Santi.
Padre Giuliano Giustiniani era solito dire che un prete di Congregazione doveva morire sopra uno di questi “tre legni”: la predella dell’altare, il confessionale, la sedia dei ragionamenti”.
A questo metodo si ispirarono fin da subito i primi che Filippo Neri chiamò a coadiuvarlo nella tractatio Verbi Dei, poiché, come testimonia padre Pompeo Pateri, Filippo “volle che i suoi discepoli si abituassero allo stesso modo a annunciare la Parola di Dio, per ferire più i cuori degli ascoltatori che le orecchie”.
In qualche caso li educò alla semplicità, alla sincerità e a un rapporto di intima confidenza con gli ascoltatori anche con espedienti curiosi: al padre Agostino Manni, anima poetica e di grande sensibilità artistica, incline a farsi prendere la mano dalla vena letteraria, fece ripetere, ad esempio, per sei volte lo stesso elaborato sermone, tanto che i fedeli pensarono che quel padre non sapesse dir altro; a padre Francesco Maria Tarugi, che in un sermone parlò, con enfasi eccessiva e impeto degno della miglior retorica, sull’utilità della sofferenza, padre Filippo, dopo essersi a lungo agitato sulla sedia per fargli comprendere di rientrare nei giusti confini, disse pubblicamente, al termine, che nessuno di loro aveva ancora versato una goccia di sangue per Gesù Cristo.
Per l’attrattiva che esercitava e per i frutti di sincera conversione che produceva, lo stile della predicazione filippiana si diffuse presto anche al di fuori dell’ambiente oratoriano dando il via al rifiorire della predicazione frequente nelle chiese romane: i domenicani della Minerva furono i primi ad assumerlo, fin dal 1562, per iniziativa del loro priore Vincenzo Ercolani, grande amico di padre Filippo; gli scolopi stabilirono nelle loro costituzioni che si usasse la stessa familiare eloquenza “di cui si servono i RR.
pp.
dell’Oratorio alla Vallicella”; fuori Roma, san Carlo Borromeo lo prescrisse ai padri oblati di Milano e san Vincenzo de Paoli lo raccomandò ai suoi missionari.
Interessante, al riguardo, quanto riportato in una deposizione di padre Francesco Bozzio: “Avendo saputo che alcuni religiosi avevano adottato il tipo di predicazione che si faceva nel nostro Oratorio, e poiché un padre diceva che non era lecito usurpare quello che Padre Filippo aveva istituito, il Beato Padre rispose: oh se tutti fossero profeti…” I testi del processo di canonizzazione di Filippo Neri, editi da Giovanni Incisa della Rocchetta e da Nello Vian – verso i quali l’Oratorio conserva, e non solo per questo, un grato ricordo – sono ricchi di testimonianze sul ministero della predicazione di padre Filippo, il quale, già negli anni della giovinezza, aveva suscitato ammirazione parlando nella chiesa romana di San Salvatore in Campo, negli incontri della confraternita della Santissima Trinità.
Prima di citarne alcune, merita ricordare quella contenuta in una lettera che egli ricevette da Napoli nel 1588, agli inizi di quell’Oratorio, fondato da padri provenienti dalla Casa di Roma: “Oggi – scrisse padre Antonio Talpa – il padre messer Francesco Maria [Tarugi] ha parlato familiarmente, poi ha parlato messer Giovenale [Ancina].
Io ne ho sentita tanta consolazione che non potrei dir di più: mi è sembrato di vedere l’Oratorio in quella purezza e semplicità che aveva a San Girolamo.
(…) Desidererei che Vostra Reverenza non solo gli desse la sua approvazione, ma anche che glielo comandasse (…) Il frutto sarà certamente maggiore e minore la fatica, e, quel che più importa, si conserverà la forma di parlare propria dell’Oratorio e si trasmetterà ai posteri: altrimenti si perderebbe, ed è il bene più grande che la nostra Congregazione possiede”.
Nella risposta di Filippo Neri – diretta al Tarugi e affidata, come spesso accadeva, alla penna di Niccolò Gigli, molto caro al santo per il candore e la profonda sintonia di spirito – si legge una preziosa indicazione: “Le dico che il Padre ed i Deputati e gli altri sacerdoti di Congregazione si sono rallegrati quando hanno saputo che Vostra Reverenza ha parlato sopra il libro, secondo l’antico costume dell’Oratorio, quando in spiritu et veritate et simplicitate cordis si predicava, lasciando che lo Spirito Santo infondesse le sue virtù in bocca a chi parlava”.
Francesco M.
Tarugi, ne era ben convinto: tracciando le linee programmatiche su cui sviluppare il testo delle Costituzioni, egli affermava infatti: “Si cerchi di mantenere l’Oratorio più con la devozione che con gli ornamenti del parlare”; e già qualche anno prima, scrivendo nel 1579 a Carlo Borromeo, aveva ricordato che l’Oratorio consiste “nel trattare ogni giorno il Verbo di Dio in modo familiare” precisando che la “familiarità” non doveva essere separata dalla “dignità dovuta” e la “semplicità” non doveva confondersi con la povertà dei contenuti, dal momento che scopo principale dell’Oratorio è “formare un uomo cristiano e tenerlo, con l’aiuto della Grazia, continuamente in esercizio”.
Nelle deposizioni dei testi al processo è presente il ricordo della predicazione di padre Filippo in chiesa, durante le celebrazioni, caratterizzata da fervore e commozione, ma anche da una speciale capacità di leggere negli animi che gli consentiva di parlare a tutti tenendo presente la situazione di ognuno.
Vigerio Aquilino, che attesta di averlo sentito spesso sermoneggiare nella Chiesa Nuova, depone: “Una volta, mentre il Padre predicava pubblicamente, e credo che fosse l’anno 1583, raccontò dettagliatamente il caso di un conflitto spirituale molto stravagante, che diceva essere capitato ad un sacerdote.
E io, che ero presente ed ero ordinato sacerdote sebbene ancora non avessi celebrato la messa, ho capito che il beato Padre faceva per me questo ragionamento, poiché questo conflitto era quello che si agitava in me, punto per punto, come il Padre lo raccontava.
Donde io ne ricevetti ammirazione per il Padre e giovamento per la mia anima”.
Ciò che ancor più colpiva era però il suo “ragionare” nell’Oratorio: “Chi voglia farsi un’idea del predicare di lui – scrive il cardinale Capecelatro – deve risalire su fino a Gesù Cristo e ricordare la semplicità, la bellezza e la facilità grande delle parabole evangeliche”.
Marcello Ferro, tra gli altri, descrive gli incontri in cui san Filippo, esponendo la Parola di Dio, come un “Socrate cristiano”, coinvolgeva i presenti: “Da quando mi posi nelle sue mani, intorno al 1553, mi sono trovato molte volte presente quando il beato Filippo, cominciava a parlare, o proponeva qualche cosa di spirituale e faceva dire agli astanti il loro parere”.
Era toccante il fervore di Filippo: “Si vedeva – ricorda un teste – che nel parlare delle cose di Dio andava tutto in spirito, e molte volte l’ho visto che tremava e si muoveva facendo tremare anche il letto (…) a volte sembrava che tremasse la camera stessa”.
Il fenomeno era iniziato con la misteriosa effusione di Spirito Santo che Filippo ricevette, ancora laico – sarebbe stato ordinato sacerdote solo nel 1551, a trentasei anni – nell’imminenza della Pentecoste del 1544.
Di quell’avvenimento egli custodì gelosamente il segreto – secretum meum mihi diceva – fin quasi al termine della sua vita, ma non sempre fu in grado di nascondere gli improvvisi calori, i tremiti, le estasi e le impressionanti palpitazioni del cuore di cui l’esame autoptico evidenziò l’enorme dilatazione.
Una prorompente commozione accompagnava spesso il fervore, testimonia, tra i molti, Marcello Vitelleschi – “Io ho visto molte volte il Padre piangere, perché non si poteva trattenere” – e l’abate Marco Antonio Maffa attesta che ciò accadeva anche nella predicazione del Padre in chiesa: “L’ho sentito molte volte predicare (…) e come aveva detto dieci parole incominciava a versare lacrime nel parlare dell’amore di Dio, al punto che doveva interrompersi”.
Fu questo il motivo per cui, negli ultimi anni della vita, non parlò più in pubblico.
L’ultima volta che cercò di predicare è ricordata dai testi con particolare commozione: “Mi ricordo ancora – testimonia Alessandro Illuminati, il 2 settembre 1595 – che, circa sei anni sono, mentre si facevano sermoni nell’oratorio il padre salì su la banca da sermoneggiare con tanto spirito, et venne in tanta dirottura de piangere che non possette dire una parola, et discese giù senza dir altro, et mai più ci è salito”.
Da quel momento Filippo, che viveva della Parola di Dio, in modo ancor più efficace divenne tacito predicatore del Verbo, ripetendo, fin sul letto di morte: “Cristo mio, Signor mio, tutto è vanità.
Chi vuol altro che non sia Cristo non sa quel che si voglia, chi cerca altro che Cristo non sa quel che cerca, chi fa e non per Cristo non sa quel che si faccia”.
Schola beati Patris sarà detto dal Gallonio e dai primi oratoriani il cammino dei discepoli di padre Filippo ed il metodo dell’Oratorio, che nell’ascolto della Parola di Dio, nella preghiera, nella assidua pratica sacramentale, nell’ascetica dell’umiltà come base per l’esercizio delle virtù ha il proprio punto di forza.
Senza proclami ufficiali, in tutta semplicità, l’Oratorio assunse il volto della comunità apostolica descritta dagli Atti, come testimoniano, tra i primi, Cesare Baronio e Francesco M.
Tarugi: “Sembrò riapparire, in relazione al tempo presente, il bel volto della comunità apostolica”, “la rinnovazione dello spirito che ebbero i cristiani della primitiva Chiesa”.
(©L’Osservatore Romano – 25-26 maggio 2009) Nella preghiera litanica che il cardinale John Henry Newman compose delineando il volto e la missione di san Filippo Neri, l’invocazione Sancte Philippe, qui Verbum Dei cotidianum distribuisti esprime l’amore di Filippo per la Parola di Dio, ma anche la novità della predicazione quotidiana in un’epoca in cui essa era piuttosto occasionale, tanto che Antonio Gallonio, autore della prima biografia del santo, poté scrivere che Filippo “fu il primo che introdusse in Roma la parola di Dio cotidiana”.
Ciò che attirava all’Oratorio un numero crescente di persone, era, comunque, la semplicità e il modo familiare con cui egli, con evidente distanza dallo stile ampolloso e pieno di artifici retorici della sua epoca, trasmetteva ogni giorno la Parola di Dio.

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