V DOMENICA TEMPO ORDINARIO

Prima lettura: Isaia 6,1-2.3-8

Nell’anno in cui morì il re Ozìa, io vidi il Signore seduto su un trono alto ed elevato; i lembi del suo manto riempivano il tempio. Sopra di lui stavano dei serafini; ognuno aveva sei ali. Proclamavano l’uno all’altro, dicendo: «Santo, santo, santo il Signore degli eserciti! Tutta la terra è piena della sua gloria». Vibravano gli stipiti delle porte al risuonare di quella voce, mentre il tempio si riempiva di fumo. E dissi: «Ohimè! Io sono perduto, perché un uomo dalle labbra impure io sono e in mezzo a un popolo dalle labbra impure io abito; eppure i miei occhi hanno visto il re, il Signore degli eserciti». Allora uno dei serafini volò verso di me; teneva in mano un carbone ardente che aveva preso con le molle dall’altare. Egli mi toccò la bocca e disse: «Ecco, questo ha toccato le tue labbra, perciò è scomparsa la tua colpa e il tuo peccato è espiato». Poi io udii la voce del Signore che diceva: «Chi manderò e chi andrà per noi?». E io risposi: «Eccomi, manda me!».

 

 

v Vocazione e mandato, ovvero affidamento di un compito da svolgere, nell’Antico Testamento sono sempre strettamente congiunti. Talvolta tuttavia la chiamata è semplicemente supposta ed è indicato solo il mandato di Dio all’uomo: è questo ciò che accade ad Abramo (Gn 12,1). Nel caso di Mosè, la chiamata e il mandato vengono ampiamente e di-stintamente descritti, nella lunga e drammatica cornice di una teofania (Es 3,2-4,17). Altre volte la vocazione non è affatto descritta, ma è soltanto ricordata dall’interessato (Amos 7,14-15) oppure dallo stesso Dio, p. es., nella scena che descrive ampiamente il mandato affidato al profeta Geremia (1,4-5: «La parola del Signore mi fu rivolta in questi termini: Prima che io ti formassi nel grembo, ti ho conosciuto…»).

     La chiamata di Isaia al ministero profetico richiama in qualche modo la chiamata e il mandato di Mosè descritti nel libro dell’Esodo, ma con un ritmo e un linguaggio molto più concentrati ed essenziali. Nell’uno e nell’altro caso, tutto comincia con una teofania, che sorprende gli interessati. Essi si dichiarano profondamente turbati dalla manifestazione di Dio e consapevoli della loro personale indegnità. Da questo punto in poi, le due situazioni hanno però un diverso sviluppo: Mosè continua a protestare la sua incapacità di assolvere il mandato, mentre Isaia, purificato dai carboni ardenti dell’altare, si offre con slancio come

inviato del Signore. Diverso anche, nei due casi, è il contenuto del mandato: in quello di Mosè sta in primo piano l’annunzio della vicina liberazione dalla schiavitù, in quello di Isaia sta in primo piano un annunzio di sventura, mentre è solo appena intravista la fine della sventura medesima.

     Nel v. 1, il profeta ci dice che il suo ministero profetico ebbe inizio «Nell’anno in cui morì il re Ozìa (nelle traduzioni dato talvolta come Uzzia e nel libro dei Re è chiamato Azaria), cioè probabilmente tra il 740-739. Subito dopo è descritta la teofania, fino al v. 4. Emerge in questa descrizione la santità di Dio, cioè la sua trascendenza, sperimentata come incommensurabilità (i lembi del suo manto riempivano il tempio), maestà reale (seduto su un trono) e santità proclamata a cori alterni dai misteriosi serafini. Il termine «santità», oltre l’idea della trascendenza, include anche l’idea della suprema rettitudine. Ciò è indicato esplicitamente dal v. 5, nel quale è descritta la reazione del profeta, il quale dalla stessa visione di Dio è indotto a riconoscere la sua indegnità di peccatore, partecipe dei peccati del suo popolo.

     Se la teofania si chiudesse con la confessione del peccato, suo effetto sarebbe la disperazione. Essa invece prosegue, nei vv. 5-7, con la descrizione di una purificazione, che è anche una santificazione aperta alla speranza.

     Nel v. 8, è detto come è bastato al profeta purificato sentire che Dio cercava qualcuno da inviare come suo portavoce, perché egli si offrisse con slancio per quel compito.

     Non sono poche le analogie tra questo testo del profeta Isaia e la nostra lettura evangelica.

 

Seconda lettura: 1Corinzi 15,1-11

 

Vi proclamo, fratelli, il Vangelo che vi ho annunciato e che voi avete ricevuto, nel quale restate saldi e dal quale siete salvati, se lo mantenete come ve l’ho annunciato. A meno che non abbiate creduto invano! A voi infatti ho trasmesso, anzitutto, quello che anch’io ho ricevuto, cioè che Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture e che fu sepolto e che è risorto il terzo giorno secondo le Scritture e che apparve a Cefa e quindi ai Dodici. In seguito apparve a più di cinquecento fratelli in una sola volta: la maggior parte di essi vive ancora, mentre alcuni sono morti. Inoltre apparve a Giacomo, e quindi a tutti gli apostoli. Ultimo fra tutti apparve anche a me come a un aborto. Io infatti sono il più piccolo tra gli apostoli e non sono degno di essere chiamato apostolo perché ho perseguitato la Chiesa di Dio. Per grazia di Dio, però, sono quello che sono, e la sua grazia in me non è stata vana. Anzi, ho faticato più di tutti loro, non io però, ma la grazia di Dio che è con me. Dunque, sia io che loro, così predichiamo e così avete creduto.    

 

v Il brano della prima lettera ai Corinzi che costituisce la nostra seconda lettura contiene l’inizio della risposta di Paolo a quello che probabilmente era l’ultimo quesito postogli da quella comunità, riguardante il problema della risurrezione dei morti.

     Nei vv. 1-2 c’è un moderato elogio dei Corinzi, per avere essi accolto il vangelo che egli stesso aveva loro presentato e per avere resistito a quelli che avrebbero voluto corromperlo o deformarlo. Essi hanno anche sperimentato la forza salvifica che c’è in quel vangelo.

     Nei vv. 3-7, l’apostolo riassume l’insegnamento centrale del Vangelo, che egli predica, in piena concordia con la predicazione della Chiesa: che Gesù Cristo è morto per la remissione dei peccati, che fu sepolto e fu risuscitato, conformemente alle affermazioni delle Scritture, che finalmente è apparso a quelli che poi hanno testimoniato quella risurrezione: rispettando l’ordine gerarchico, vengono nominati Cefa, i Dodici, più di cinquecento fratelli e Giacomo (rappresentante dei «fratelli del Signore»). Per questo condensato del kèrigma primitivo, sono adoperati i termini tecnici ricevere e trasmettere. A questo patrimonio comune, nei vv. 8-10, Paolo aggiunge la sua personale testimonianza: anch’egli, ultimo (quasi un aborto, avendo egli prima perseguitato la Chiesa), ha visto il Signore risorto e questa apparizione ha radicalmente cambiato la sua vita, facendolo diventare un apostolo infaticabile.

     La conclusione del brano, nel v. 11, è brevissima e solenne: questa e non altra è la fede di tutta la Chiesa, la fede che ha reso cristiani i destinatari della lettera di Paolo. Solo partendo da questa fede egli potrà affrontare e discutere il problema della risurrezione dei morti.

 

Vangelo: Luca 5,1-11

In quel tempo, mentre la folla gli faceva ressa attorno per ascoltare la parola di Dio, Gesù, stando presso il lago di Gennèsaret, vide due barche accostate alla sponda. I pescatori erano scesi e lavavano le reti. Salì in una barca, che era di Simone, e lo pregò di scostarsi un poco da terra. Sedette e insegnava alle folle dalla barca. Quando ebbe finito di parlare, disse a Simone: «Prendi il largo e gettate le vostre reti per la pesca». Simone rispose: «Maestro, abbiamo faticato tutta la notte e non abbiamo preso nulla; ma sulla tua parola getterò le reti». Fecero così e presero una quantità enorme di pesci e le loro reti quasi si rompevano. Allora fecero cenno ai compagni dell’altra barca, che venissero ad aiutarli. Essi vennero e riempirono tutte e due le barche fino a farle quasi affondare. Al vedere questo, Simon Pietro si gettò alle ginocchia di Gesù, dicendo: «Signore, allontànati da me, perché sono un peccatore». Lo stupore infatti aveva invaso lui e tutti quelli che erano con lui, per la pesca che avevano fatto; così pure Giacomo e Giovanni, figli di Zebedèo, che erano soci di Simone. Gesù disse a Simone: «Non temere; d’ora in poi sarai pescatore di uomini». E, tirate le barche a terra, lasciarono tutto e lo seguirono.

    

  

Esegesi

     Questo testo di Luca utilizza certamente il racconto della chiamata dei primi discepoli di Gesù, che si trova in Mc 16-20 e Mt 18-22, ma non è semplicemente lo stesso racconto con qualche variazione. Direttamente, il tema del nostro brano è preannunzio del ministero apostolico di Pietro, che egli avrebbe poi svolto insieme agli altri apostoli, qui rappresentati da Giacomo e Giovanni, i figli di Zebedeo. In tal modo, il terzo vangelo ci assicura che il ministero apostolico, guidato dal gruppo dei dodici, è stato voluto e preordinato da Gesù fin dall’inizio della sua vita pubblica e non è scaturito solo dall’entusiasmo del tempo post-pasquale. Si può pensare che sia questo il motivo per cui nel terzo vangelo non si trova il mandato con cui il Signore risorto affida agli undici la diffusione del vangelo nel mondo (Mt 28,19-20; cf. Mc 16,15) e il potere di rimettere i peccati (Gv 20,21-23).                                                          

     Le parole con cui Gesù esprime la sua volontà e preannunzia il ministero apostolico di Pietro e dei suoi collaboratori sono preparate da una scena d’insegnamento dello stesso Gesù e dal racconto di un miracolo.

     Nella scena di insegnamento (vv. 1-3), Gesù è presentato circondato dalla folla, che vuole ascoltare da lui «la parola di Dio». Perché a tutti più facilmente arrivi quella «parola», Gesù chiede a Simone di poter utilizzare la sua barca.

     Nei vv. 4-7 è raccontato il miracolo di una pesca straordinaria ottenuta su indicazione di Gesù. Il fatto appare come prodigioso, perché avvenuto su semplice segnalazione di Gesù, in condizioni normalmente sfavorevoli, cioè in pieno giorno (mentre di solito la pesca si fa di notte) e in quantità del tutto inusuale: in tal modo Gesù dimostra di avere autorità sul mare e sui pesci. Non pare che l’evangelista abbia voluto dare un valore simbolico all’avvenimento della pesca, quasi per assicurare in anticipo la fecondità dell’attività apostolica della Chiesa. Il prodigio sembra avere soltanto lo scopo di dare autorevolezza a Gesù e alle parole che egli, subito dopo, dice a Pietro. Nei vv. 8-10a, è descritto l’effetto che il prodigio produce su Pietro e i suoi collaboratori: tutti avvertono in Gesù il potere misterioso di Dio e prendono coscienza della loro fragilità peccatrice.

     Nel v. l0b il racconto evangelico tocca il suo culmine, nelle parole di Gesù: «Non temere; d’ora in poi sarai pescatore di uomini». Qui propriamente non è espresso un comando o una chiamata: piuttosto, è pronunziata una profezia. È detto però che essa comincia già a realizzarsi subito, a partire da quel preciso momento. La chiamata appare così inclusa nella profezia, estendendosi anche ai collaboratori di Pietro. Si può anche notare che il termine greco adoperato per pescatore è zogròn, a cui talvolta viene dato il senso di salvare dalla morte: ciò vorrebbe dire che la profezia annunzia per Pietro e i suoi compagni una attività misteriosa al servizio della vita degli uomini.

     Il v. 11 col minimo di parole, descrive l’effetto delle parole sovrane di Gesù: «E, tirate le barche a terra, lasciarono tutto e lo seguirono».

     Non si può evitare di confrontare questo testo di Luca con il racconto della apparizione di Gesù risorto presso il lago di Tiberiade, con relativa pesca prodigiosa e conclusivo mandato pastorale affidato a Pietro, che si trova nel c. 21 di Giovanni. Sono tali e tanti gli elementi di somiglianza tra i due racconti, che si è costretti a pensare di avere davanti due trasmissioni indipendenti dello stesso avvenimento. Pur con persistenti esitazioni, si può pensare che il testo di Giovanni conservi la formulazione più antica del fatto e che sia stato Luca a spostarlo dai racconti di apparizione all’inizio del ministero pubblico di Gesù. Per l’appunto nel testo di Giovanni, alla fine, appare assai chiaramente che il culmine della storia sta nel mandato affidato a Pietro di pascere, cioè curare e custodire i credenti in Cristo. 

 

Meditazione

Sempre nella storia Dio ha chiamato uomini fragili e peccatori per affidar loro la sua parola da annunciare e per renderli partecipi del suo progetto sull’umanità. I contesti di una chiamata possono essere molto differenti e, in un certo senso, anche le modalità con cui Dio chiama sanno adattarsi all’uomo. Tuttavia nella dinamica di una vocazione ci sono delle costanti e nel narrare una chiamata la Scrittura sembra quasi seguire uno schema. C’è sempre un’esperienza di Dio da parte del chiamato che passa attraverso l’incontro con il suo volto e la sua parola. Questa esperienza, questo ‘contatto’ con Dio coinvolge totalmente colui che è chiamato, il quale sente la sua radicale lontananza da Colui che è il ‘totalmente altro’. Ma Dio quando chiama ha la potenza di cambiare radicalmente il cammino e la vita di una persona: ogni vocazione è sempre una conversione. E questo cambiamento è in vista di una missione. Possiamo scorgere questi elementi, che caratterizzano, secondo la Scrittura, la dinamica di una chiamata, nei due testi che la liturgia della Parola di questa domenica accosta e che ci fa leggere in parallelo. Si tratta del testo di Is 6,1-8, la vocazione profetica di Isaia e il suo invio al popolo di Israele, e del racconto della chiamata dei primi discepoli di Gesù, secondo la narrazione di Lc 5,1-11. In due contesti molto diversi, la stessa parola di Dio entra nella vita dell’uomo, con essa inizia un dialogo che si trasforma in chiamata e in missione. Isaia vede qualcosa allo stesso tempo affascinate e tremendo: «vidi il Signore seduto su un trono alto… i lembi del suo manto riempivano il tempio… Santo, santo, santo il Signore degli eserciti…» (Is 6,1-3). Gesù, tra la folla che «fa ressa attorno a lui per ascoltare la parola di Dio» (Lc 5,l), vede due barche e dei pescatori. Isaia sperimenta smarrimento e lontananza da questo Dio così al di là di ogni possibilità umana: «io sono perduto, perché uomo dalle labbra impure» (Is 6,5). Di fronte alla potenza della parola di Gesù, in Pietro avviene una presa di coscienza della propria povertà, del peccato che abita in lui: «Signore, allontanati da me perché sono un peccatore» (Lc 5,8). L’incontro con Dio cambia in profondità Isaia: è chiamato ad essere profeta e le sue labbra vengono purificate per una missione che Dio stesso gli affida (cfr. 6,6-8). Proprio Pietro, il peccatore, e i suoi compagni sono chiamati a diventare discepoli di Gesù e annunciatori del Regno in mezzo agli uomini: da pescatori di pesci diventano «pescatori di uomini» (Lc 5,10). Di fronte alla potenza e alla gratuità di Dio, Isaia si arrende: «Eccomi, manda me!» (Is 6,8). I quattro pescatori «tirate le barche a terra, lasciarono tutto e seguirono Gesù» (Lc 5,11). Tenendo con-to di questa lettura parallela, ci soffermiamo ora su alcuni elementi del racconto di Luca. Luca inquadra la scena focalizzando l’attenzione su Gesù che insegna, che annuncia la parola di Dio, mentre molta folla si accalca attorno a lui per ascoltarlo. Due barche sulla riva, accanto alle quali ci sono quattro pescatori, attirano l’attenzione di Gesù: possono diventare il mezzo per rendergli più agevole la predicazione. E così sale su una barca e invita il proprietario, Simone, a scostarsi un po’ dalla riva (cfr. Lc 5,1-3). In questa descrizione emergono alcuni elementi che inquadrano la successiva scena, e soprattutto orientano la dinamica della chiamata. Tutto sembra occasionale, ma lo sguardo di Gesù guida invece ogni momento. È lui che vede le barche e i quattro pescatori. Così in mezzo a questa folla anonima, grazie allo sguardo di Gesù emergono quattro volti che entrano in relazione più diretta con lui. E tra questi volti, uno in particolare sembra catturare l’attenzione di Gesù: quello di Simon Pietro. Ma fin da questa prima scena c’è un altro elemento che farà poi da legame a vari momenti dell’episodio: è la parola di Gesù. Gesù infatti sta annunciando la parola di Dio (cfr. v. 1); è sulla parola di Gesù che Simon Pietro getterà le reti al largo (cfr. v. 5); e infine, ancora sulla parola di Gesù i quattro pescatori lasceranno tutto per seguirlo (cfr. vv. 10-11).

     L’incontro diretto di Gesù con questi pescatori è caratterizzato da un ordine perentorio e apparentemente assurdo: «Prendete il largo e gettate le vostre reti per la pesca… Maestro, abbiamo faticato tutta la notte e non abbiamo preso nulla» (vv. 4-5). Sembra quasi che Gesù voglia fare sperimentare a questi uomini un paradosso, il quale può diventare esperienza e incontro con Dio: ciò che all’uomo è impossibile è invece possibile a Dio. Per entrare in questo ‘paradosso’, all’uomo è richiesta fede radicale e obbedienza. Infatti ciò che viene richiesto a Simon Pietro può avvenire solo sulla parola di Gesù. E il pescatore accetta questa sfida: «sulla tua parola getterò le reti. Fecero così e presero una quantità enorme di pesci» (v. 5-6).

     Questo passaggio dall’impossibile al possibile e, più concretamente, da una pesca senza risultati alla vista di una pesca così abbondante e impensata, provoca una reazione in Simon Pietro: la presa di coscienza della distanza tra lui, peccatore, e Gesù. È il timore di fronte alla santità e alla potenza di Dio che costringe Simone a inginocchiarsi di fronte a Gesù e a riconoscere una sorta di impossibilità a stargli vicino: «si gettò alle ginocchia… allontanati da me; perché sono un peccatore» (v. 8).

     Ma proprio una nuova parola di Gesù supera questa distanza, altrimenti incolmabile per l’uomo. Gesù non solo non si allontana da Simon Pietro, ma si avvicina e con la sua parola lo chiama a stare con lui: «Non temere; d’ora in poi sarai pescatore di uomini» (v. 10). La parola di Gesù opera una conversione di Simon Pietro e dei suoi compagni, cambiandone l’identità (‘pescatori di uomini’) e il cammino (‘d’ora in poi sarai’). Anche qui a Pietro e agli altri viene richiesta obbedienza e fede (‘non temere…’) che passano attraverso un radicale distacco da ogni certezza, da un passato conosciuto, per camminare dietro a Gesù fidandosi solo di lui e della sua parola: «e, tirate le barche a terra, lasciarono tutto e lo seguirono».

     Ma forse uno dei cambiamenti più paradossali sta proprio nella missione che Gesù affida a questi pescatori: «d’ora in poi sarai pescatore di uomini» (v. 10). Simon Pietro e gli altri restano ancora pescatori; ma non cattureranno più pesci ma «prenderanno uomini per la vita» (questo è il significato letterale dell’espressione usata da Luca). Come Gesù e con Gesù, saranno chiamati a incontrare uomini e a comunicare loro la vita mediante l’annuncio dell’evangelo. «A voi infatti ho trasmesso – dirà Paolo ai Corinzi – quello che anch’io ho ricevuto, cioè che Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture e che fu sepolto e che è risorto il terzo giorno secondo le Scritture e che è apparso a Cefa e quindi ai dodici» (1Cor 15,3-5).

     Questi ‘pescatori di uomini’ dovranno andare sempre di più al largo (e Luca narra questo straordinario viaggio al largo nel libro degli Atti) e continuare a gettare le reti ‘sulla parola di Gesù’. In questo simbolico viaggio in mare aperto, tanti altri uomini e donne si uniranno a questo piccolo gruppo. E questa comunità senza confini non è altro che la Chiesa di ogni tempo che continua a prendere nelle reti della parola l’umanità per consegnarla alla vita.

 

L’immagine della domenica


 

«L’uomo comprende

veramente sé stesso,

solo a partire

dal proprio limite».

(Dietrich Bonhoeffer)


Preghiere e racconti

 

Chiamati a qualcosa di più

L’insuccesso mostra all’uomo lo scarto tra l’infinità dei suoi desideri e la possibilità di realizzarli. La pesca infruttuosa suscita nei discepoli l’amara sensazione che non basta dire di andare a pescare per riuscire a pescare. C’è uno scarto tra la potenza dei desideri e la loro realizzazione effettiva. Quanti sogni di gioventù restano castelli in aria proprio per lo scarto tra ciò che noi vorremmo essere nella vita e ciò che poi si realizza! Vorremmo essere come il tale o il tal’altro, il nostro “io ideale” si proietta e alla fine vediamo che c’è una differenza enorme; l’insuccesso mostra la distanza tra l’infinità dei desideri e la possibilità di realizzarli.

La pesca infruttuosa diventa il simbolo di questo scarto, ed è una delusione salutare perché ci permette di riappropriarci con ordine dei nostri desideri. Ma può essere anche molto pericolosa: scatena reazioni negative e drammatiche.

Ricordo il caso di un uomo molto per bene che non riuscì ad accettare l’umiliazione di essere retrocesso nella carriera e per questo giunse a uccidere. L’insuccesso aveva provocato in lui lo scatenamento di desideri, che c’erano ma che prima riusciva a dominare perfettamente. È un’immagine di ciò che l’insuccesso provoca, per la violenza delle forze che si agitano dentro di noi, e che gli antichi chiamavano le passioni dell’uomo. Le passioni non sono soltanto la sensualità; sono anche l’invidia, l’ambizione, l’orgoglio e i risentimenti più forti; come pure sono passioni l’amore, la fedeltà, l’impegno, il coraggio, l’entusiasmo e la perseveranza. Queste sono le forze dell’uomo che dobbiamo imparare a conoscere e a dominare.

Anche se non arriviamo a casi drammatici, dobbiamo però dire che la pesca infruttuosa si ripete spesso nella nostra vita. Viene ad esempio, magari in giovanissima età, una malattia che immobilizza ed ecco tutta una serie di sogni che crollano. E uno passa due, tre, quattro anni prima di riuscire, se riesce, a ricomporre la profondità dei suoi desideri con la realtà che sta vivendo. Conosco situazioni in cui da questa ricomposizione è venuta fuori una forza speculare formidabile. Ma quanta fatica per arrivare a questa ricomposizione! Anche un’amicizia che sfuma è spesso fonte di grande delusione; un posto non ottenuto, un posto di lavoro sul quale avevamo puntato, soprattutto in situazioni in cui c’è una carriera quasi obbligata. È la notte sul lago di Tiberiade. E il Vangelo non dice tutto; ma quando cominciavano a tirar su la rete vuota, sarà cominciata la litania delle colpe: «È colpa tua, quanto mai siamo venuti, chi ci ha fatto uscire, chi ha avuto questa idea». Cioè vengono fuori tutti i sentimenti negativi.

Dobbiamo riflettere per capire, come gli apostoli, che in fondo l’importante non è “andare a pescare”, che si è chiamati a qualcosa di più grande e che il Signore può farci conoscere quel “qualcosa di più” attraverso l’insuccesso.

(Carlo Maria MARTINI, Incontro al Signore risorto, San Paolo, Cinisello Balsamo, 2009, 42-43).

 

Da peccatore a pescatore (Lc 5,1-11)

Quando finisce di parlare, Gesù da un ordine a Simone: « Prendi il largo e calate le reti per la pesca » (Lc 5, 4). E Simone risponde: «Signore, avendo faticato tutta la notte nulla abbiamo preso» (Lc 5,5): il verbo usato da Luca è kopiasantes (part. aor. di kopiao), che in Atti si riferisce alla fatica apostolica, la fatica di annunciare il Vangelo. È la fatica di chi, pur avendo speso molte energie, pur avendo messo in opera tutte le proprie forze, non ottiene alcun risultato. E Simone decide di rischiare ancora una volta, di ignorare la fatica che lo opprime, di rischiare il ridicolo: «ma sulla tua parola getterò le reti» (Lc 5, 5). È l’immagine dell’Apostolo che supera la prova di fiducia, che non cade nella delusione e nella disperazione, ma trova la forza di provarci ancora una volta… «sulla tua parola».

Simone diventa immagine dell’uomo che rischia se stesso anche in situazioni piccole ma che esigono decisione e coraggio. Santo è colui che sa rischiare, che si butta fuori, che non agisce in base a ragionamenti soltanto di convenienza. Non  sarà la sola fatica umana, neanche il calcolo o gli interessi ma l’amore che permetterà a Pietro di buttarsi, di andare fuori, di saper rischiare con e per Gesù. E Gesù ripaga la fatica di Simone: «E avendolo fatto, presero una quantità enorme di pesci e le reti si rompevano» (Lc 5,6).

Giunti a riva, Simone davanti a tutta la folla «si gettò alle ginocchia di Gesù dicendo: “Signore, allontanati da me che sono un peccatore”» (Lc 5,8). La potenza della parola di Gesù gli ha aperto gli occhi sulla propria condizione di peccatore. Posto dinanzi alla potenza di Gesù, Simone riconosce la propria fragilità e trova la sua autorealizzazione. E Gesù, accogliendo il peccatore, lo trasfigura in… pescatore di uomini!

 

 

La chiamata dei primi discepoli

Nella liturgia odierna, il Vangelo secondo Luca presenta il racconto della chiamata dei primi discepoli, con una versione originale rispetto agli altri due Sinottici, Matteo e Marco (cfr Mt 4,18-22; Mc 1,16-20). La chiamata, infatti, è preceduta dall’insegnamento di Gesù alla folla e da una pesca miracolosa, compiuta per volontà del Signore (Lc 5,1-6). Mentre infatti la folla si accalca sulla riva del lago di Gennèsaret per ascoltare Gesù, Egli vede Simone sfiduciato per non aver pescato nulla tutta la notte. Dapprima gli chiede di poter salire sulla sua barca per predicare alla gente stando a poca distanza dalla riva; poi, finita la predicazione, gli comanda di uscire al largo con i suoi compagni e di gettare le reti (cfr v. 5). Simone obbedisce, ed essi pescano una quantità incredibile di pesci. In questo modo, l’evangelista fa vedere come i primi discepoli seguirono Gesù fidandosi di Lui, fondandosi sulla sua Parola, accompagnata anche da segni prodigiosi. Osserviamo che, prima di questo segno, Simone si rivolge a Gesù chiamandolo «Maestro» (v. 5), mentre dopo lo chiama «Signore» (v. 7). E’ la pedagogia della chiamata di Dio, che non guarda tanto alle qualità degli eletti, ma alla loro fede, come quella di Simone che dice: «Sulla tua parola getterò le reti» (v. 5).

L’immagine della pesca rimanda alla missione della Chiesa. Commenta al riguardo sant’Agostino: «Due volte i discepoli si misero a pescare dietro comando del Signore: una volta prima della passione e un’altra dopo la risurrezione. Nelle due pesche è raffigurata l’intera Chiesa: la Chiesa come è adesso e come sarà dopo la risurrezione dei morti. Adesso accoglie una moltitudine impossibile a enumerarsi, comprendente i buoni e i cattivi; dopo la risurrezione comprenderà solo i buoni» (Discorso 248,1). L’esperienza di Pietro, certamente singolare, è anche rappresentativa della chiamata di ogni apostolo del Vangelo, che non deve mai scoraggiarsi nell’annunciare Cristo a tutti gli uomini, fino ai confini del mondo. Tuttavia, il testo odierno fa riflettere sulla vocazione al sacerdozio e alla vita consacrata. Essa è opera di Dio. L’uomo non è autore della propria vocazione, ma dà risposta alla proposta divina; e la debolezza umana non deve far paura se Dio chiama. Bisogna avere fiducia nella sua forza che agisce proprio nella nostra povertà; bisogna confidare sempre più nella potenza della sua misericordia, che trasforma e rinnova.

Cari fratelli e sorelle, questa Parola di Dio ravvivi anche in noi e nelle nostre comunità cristiane il coraggio, la fiducia e lo slancio nell’annunciare e testimoniare il Vangelo. Gli insuccessi e le difficoltà non inducano allo scoraggiamento: a noi spetta gettare le reti con fede, il Signore fa il resto. Confidiamo anche nell’intercessione della Vergine Maria, Regina degli Apostoli. Alla chiamata del Signore, Ella, ben consapevole della sua piccolezza, rispose con totale affidamento: «Eccomi». Col suo materno aiuto, rinnoviamo la nostra disponibilità a seguire Gesù, Maestro e Signore.

(Benedetto XVI, Prima dell’Angelus, 10.02.2013).

 

Come Pietro i cristiani credono nell’amore del Signore

Un gruppetto di pescatori delusi da una notte intera di inutile fatica, ma proprio da là dove si erano fermati il Signore li fa ripartire. E così fa con ogni vita: propone a ciascuno una vocazione, con delicatezza e sapienza, come nelle tre parole a Simone:

– lo pregò di scostarsi da riva: Gesù prega Simone, chiede un favore, lui non si impone mai;- non temere: Dio viene come coraggio di vita; libera dalla paura che paralizza il cuore;- tu sarai: lo sguardo di Gesù si dirige subito al futuro, intuisce in me fioriture di domani; per lui nessun uomo coincide con i suoi limiti ma con le sue potenzialità.

Sono parole con le quali Gesù, maestro di umanità, rimette in moto la vita ed è per questo che è legittimato a proporsi all’uomo, perché parla il linguaggio della tenerezza, del coraggio, del futuro. Simone è stanco dopo una notte di inutile fatica, forse vorrebbe solo ritornare a riva e riposare, ma qualcosa gli fa dire: Va bene, sulla tua parola getterò le reti.

Che cosa spinge Pietro a fidarsi? Non ci sono discorsi sulla barca, solo sguardi. Per Gesù guardare una persona e amarla erano la stessa cosa. Pietro in quegli occhi ha visto l’amore per lui. Si è sentito amato, sente che la sua vita è al sicuro accanto a Gesù, che il suo nome è al sicuro su quelle labbra. I cristiani sono quelli che, come Simone, credono nell’amore di Dio (1Gv 4,16). E le reti si riempiono. Simone davanti al prodigio si sente stordito, inadeguato: Signore, allontanati da me, perché sono un peccatore.

Gesù risponde con una reazione bellissima, una meraviglia che m’incanta. Trasporta Simone su di un piano totalmente diverso, sovranamente indifferente al suo passato e ai suoi peccati, lui non si lascia impressionare dai difetti di nessuno, pronuncia e crea futuro: Non temere. Sarai pescatore di uomini. Li raccoglierai da quel fondo dove credono di vivere e non vivono; mostrerai loro che sono fatti per un altro respiro, un altro cielo, un’altra vita! Li raccoglierai per la vita.

Quando si pescano dei pesci è per la morte. Ma per gli uomini no: pescare significa catturare vivi, è il verbo usato nella Bibbia per indicare coloro che in una battaglia sono salvati dalla morte e lasciati in vita (Gs 2,13; 6,25; 2Sam 8,2… ). Nella battaglia per la vita l’uomo sarà salvato, protetto dall’abisso dove rischia di cadere, portato alla luce.

E abbandonate le barche cariche del loro piccolo tesoro, proprio nel momento in cui avrebbe senso restare, seguono il Maestro verso un altro mare. Senza neppure chiedersi dove li condurrà. Sono i «futuri di cuore». Vanno dietro a lui e vanno verso l’uomo, quella doppia direzione che sola conduce al cuore della vita.

(Ermes Ronchi)

 

“Duc in altum!”

Siamo sempre agli inizi della predicazione e dell’attività di Gesù e anche Luca colloca in questo esordio del ministero pubblico del profeta di Galilea la chiamata dei primi discepoli. Rispetto però al vangelo secondo Marco (cf. Mc 1,16-20), ripreso negli stessi termini da Matteo (cf. Mt 4,18-22), Luca dà una lettura più teologica della vocazione. Il racconto si arricchisce di particolari, è espresso con un’ottica diversa, sicché già qui vi è un messaggio che riguarda la teologia della chiesa.

Gesù svolgeva il suo ministero soprattutto nelle città e nelle campagne attorno al lago di Tiberiade (o di Gennesaret), quale profeta continuava a dispensare la parola di Dio ad ascoltatori che aumentavano ogni giorno, fino a diventare una vera e propria folla che faceva ressa, premendo per stargli vicino e raccogliere le sue parole. In quella calca, Gesù vede due barche ormeggiate sulla spiaggia, perché i pescatori erano scesi e stavano pulendo le reti dai detriti risaliti dalle acque del lago insieme ai pesci.

Pensa allora di salire su una delle due barche, quella appartenente a Simone, e lo prega di allontanare un po’ la barca da riva, così da farne una sorta di ambone da cui proclamare la parola di Dio. La scena è di per sé eloquente: Gesù “parla la Parola” e come seme la getta verso terra (la spiaggia) nel cuore degli ascoltatori lì radunati (cf. Lc 8,4-15); ciò che nella sinagoga è un ambone solenne, una cattedra, qui è la barca di Simone…

Non appena ha terminato quell’omelia, quell’insegnamento, Gesù passa dalle parole all’evento: chiede a Simone di “prendere il largo” (“Duc in altum!”, nella Vulgata) – cioè di abbandonare con coraggio e speranza le acque quiete dell’insenatura per inoltrarsi in mare aperto – e di gettare le reti in mare. Simone è un pescatore esperto, per tutta la notte ha tentato la pesca senza ottenere risultati.

Tuttavia quel Gesù che ha parlato lo ha impressionato per la sua exousía; è un uomo affidabile – pensa –, che merita obbedienza, dunque gli risponde: “Maestro, … sulla tua parola getterò le reti”. Eccolo dunque avanzare verso le acque profonde, verso l’abisso (eis tò báthos), senza timore, munito solo della fiducia nella parola di quel profeta.

Il risultato è immediato, sbalorditivo: “Fecero così e presero una quantità enorme di pesci e le loro reti quasi si rompevano. Allora fecero cenno ai compagni dell’altra barca, che venissero ad aiutarli. Essi vennero e riempirono tutte e due le barche fino a farle quasi affondare”. Da dove viene questo successo, se per tutta la notte questi uomini hanno faticato invano? Dalla fede-fiducia nella parola di Gesù!

C’è qui una profezia per ogni “uscita”, per ogni missione della chiesa: deve essere sempre fatta su indicazione di Gesù, va eseguita con fede piena nelle sua parola, altrimenti risulterà sterile e inutile. Non era bastata la loro competenza di pescatori, non era risultata feconda la loro fatica, ma tutto muta se è Gesù a chiedere, a guidare, ad accompagnare la missione.

Questo segno stupisce Simone, che subito cade ai piedi di Gesù in atto di adorazione; nello stesso tempo, percependosi nella condizione di uomo peccatore, chiede a Gesù di stare lontano da lui. Accade cioè nel cuore di Pietro la rivelazione che in Gesù c’è la santità, che Gesù è il Kýrios, il Signore, mentre egli è solo un misero, un peccatore, indegno di tale relazione con Gesù.

È la stessa reazione di Isaia quando nel tempio “vede il Signore” (cf. Is 6,1) e si sente costretto a gridare: “Guai a me, uomo dalle labbra impure!” (Is 6,8; Is 6,1-2a.3-8 è la prima lettura di questa domenica); è la reazione di tanti profeti che hanno visto Dio entrare nelle loro vite, attraverso teofanie, manifestazioni grandiose di Dio stesso.

Qui c’è Gesù, un uomo, un profeta su una barca, eppure Pietro ha compreso la sua identità: Gesù è “il Santo di Dio” – come Pietro stesso confessa esplicitamente altrove (Gv 6,69) –, mentre egli è un peccatore e dovrà sentirsi tale per tutta la vita, in tante occasioni. E quando dimenticherà di essere peccatore, il canto del gallo glielo ricorderà: il gallo canterà tre volte, così come lui tre volte aveva gravemente peccato, dicendo di non avere mai conosciuto né avuto rapporti con l’uomo (cf. Lc 22,54-62) di cui qui riconosce la santità e che più tardi confesserà “Messia di Dio” (Lc 9,20).

Stupore e tremore per Pietro, dunque, ma anche per i suoi compagni, di cui ora Luca svela i nomi: Giacomo e Giovanni, i figli di Zebedeo. Si intravede già quel gruppetto di tre che saranno i più vicini a Gesù: erano discepoli amati, non prediletti, non amati più degli altri, perché l’amore, quando è vivo ed è in azione, non è mai uguale nel manifestarsi.

Certo, amati da Gesù come gli altri, ma partecipi all’intimità della sua vita in modo diverso, poiché muniti di doni diversi rispetto agli altri: non a caso saranno scelti da Gesù quali testimoni della resurrezione della figlia di Giairo (cf. Lc 8,51-55), testimoni della gloriosa trasfigurazione dell’aspetto di Gesù sull’altro monte (cf. Lc 9,28-29), testimone della sua de-figurante passione nel giardino degli Ulivi (secondo Mc 14,33 e Mt 26,37).

Saranno coinvolti con Gesù nella sua gloria e nella sua miseria, dunque sempre in ansia, sempre chiamati alla vigilanza, di cui non sono capaci (cf. Lc 22,45-46 e par.), sempre chiamati a una fedeltà che però viene meno, a causa del rinnegamento (cf. Lc 22,54-62) o della fuga (cf. Mc 14,50; Mt 26,56).

Secondo Luca qui Gesù consegna a Pietro la vocazione: “Non temere, d’ora in poi tu prenderai, catturerai vivi degli uomini”. Ovvero, “d’ora in poi è tuo compito andare negli abissi, al largo, per salvare uomini preda del male, per salvarli da abissi infernali, da strade perdute. I pesci muoiono, gli uomini sono invece destinati alla vita eterna!”.

Non si pensi subito alla missione come a un causare la conversione, ma a un annuncio di salvezza, quello che Gesù aveva illustrato di sé nella sinagoga di Nazaret, leggendo un brano del profeta Isaia e dichiarando realizzata quella profezia: liberare i prigionieri, ridare la vista ai ciechi, redimere gli oppressi, annunciare ai poveri la buna notizia del Vangelo (cf. Lc 4,16-21; Is 61,1-2).

La chiesa, quando va in missione, non va innanzitutto per fare cristiani, per aumentare il numero dei suoi membri, per battezzare, ma in primis per un’azione di liberazione dei bisognosi. Se fa questo, annuncerà il Signore Gesù e, se Dio vorrà, ci saranno conversioni e partecipazione ecclesiale. Attenzione però a non capovolgere la realtà determinata dal Signore, cercando risultati, opere visibili delle nostre mani. Ecco allora avvenire il mutamento decisivo:

“Tirate le barche a terra, lasciarono tutto e lo seguirono”.

Ormai non sono più addetti alla barca, alla pesca, al loro mestiere, ma tutte queste cose sono abbandonate per sempre sulla riva del lago. Ora è avvenuto il “sì”, l’“amen” al profeta Gesù, affidabile e dunque autorevole: vale la pena seguirlo e fondare la propria vita sulla sua parola. Luca ha utilizzato la metafora della pesca – come accade altre volte nei vangeli – per dirci una cosa semplice: quando Gesù chiama, trasforma quello che facciamo, e questa trasformazione richiede un abbandono di ciò che eravamo e una novità di vita, di forma di vita, nel futuro che si apre davanti a noi.

(Enzo Bianchi)

 

Sono pronta a partire

«Sono pronta a partire,

e il mio desiderio con vele spiegate aspetta il vento.

Solo un altro respiro respirerò in quest’aria calma,

solo un altro sguardo d’amore

volgerò all’indietro,

e poi sarò tra voi, un navigante tra naviganti.

E tu vasto mare, madre insonne,

unica pace e libertà per fiumi e rivi

solo un’altra svolta farà questa corrente,

solo un altro mormorio in questa radura,

e poi io verrò da te,

una goccia sconfinata in uno sconfinato oceano»

 

Tuffati profondo!

 La perla di gran prezzo

giace nascosta giù nel profondo.

Come un pescatore di perle,

anima mia, tuffati,

tuffati profondo,

tuffati ancora più profondo e cerca!

Può darsi che non trovi nulla

la prima volta,

Come un pescatore di perle, anima mia,

senza stancarti, persisti e persisti ancora,

tuffati profondo, sempre più profondo,

e cerca!

Quelli che non conoscono il segreto

si prenderanno gioco di te

e tu ne sarai rattristata.

Ma non perderti di coraggio,

pescatore di perle, anima mia!

La perla di gran prezzo

è proprio nascosta là

nascosta proprio in fondo.

E’ la tua fede

che ti aiuterà a trovare il tesoro,

è essa che permetterà

che ciò che era nascosto

sia finalmente rivelato.

Tuffati profondo,

tuffati ancora più profondo,

come un pescatore di perle, anima mia,

e cerca, cerca senza stancarti.

(Swami Parmánanda).

 

«Amore»

Il Signore ha bisbigliato una parola all’orecchio di un fiore e questo si è aperto in tanti petali colorati.

Il Signore ha bisbigliato una parola ad una pietra, e questa ha assunto i colori iridescenti e le sfumature del diamante.

Il Signore ha bisbigliato una parola al ruscello, ed esso è sgorgato con la freschezza di una sorgente d’acqua viva e perenne.

Il Signore, alla fine, si è chinato all’orecchio dell’uomo e gli ha sussurrato dolcemente una sola parola: amore.

(Gilal Ed-Din Rumi, monaco sufita del XIII secolo).

 

Solo Gesù può liberarmi totalmente

Nel Nuovo Testamento

la presenza di Gesù

con le sue parole e i suoi gesti

diviene una fonte inesauribile

d’ispirazione per la preghiera:

è Gesù che mi si accosta e m’interpella.

Gesù è il Buon Pastore

alla ricerca della pecora smarrita,

e io lo seguo.

Gesù è la vigna;

Dio, il vignaiolo, mi monda dei rami malati

perché io possa dare buoni frutti.

Alla moltiplicazione dei pani,

è Gesù che m’invita

a offrirgli la mia povertà

– cinque pani e due pesci –

perché egli se ne serva

per compiere meraviglie.

Alla pesca miracolosa,

è Gesù che mi chiede

una fiducia assoluta nella sua parola

più che nei miei mezzi umani.

In occasione di numerose guarigioni,

Gesù mi rammenta                                            

che lui solo può liberarmi totalmente.

(Jean -Jacques Gareau).

 

Preghiera

Signore Gesù,                                           

Tu ci chiami a seguirTi,                                    

nel Tuo cammino di croce;                                     

Tu sconvolgi i nostri sogni                                            

e i nostri progetti:                                                   

eppure, Tu sei la nostra pace…                                       

Accettaci con le nostre paure

e le esitazioni del cuore;

accogli il nostro umile amore,

capace di darTi soltanto

il poco che siamo.

ConvertiTi a noi, Signore,

e noi ci convertiremo a Te,

lasciandoci condurre

dove forse non avremmo voluto,

ma dove Tu ci precedi

e ci attendi,

perforo delle povere storie

della nostra vita

e del nostro dolore

la Tua storia con noi.

Amen. Alleluia.

(Bruno Forte)

  

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

COMUNITÀ DI S. EGIDIO, La Parola e la storia, Milano, Vita e Pensiero, 2012.

COMUNITÀ MONASTICA SS. TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade, Milano, Vita e Pensiero, 2008-2009.

M. FERRARI, «Oggi di è adempiuta questa scrittura». Avvento, Tempo di Natale e Tempo ordinario (prima parte), Milano, Vita e Pensiero, 2012.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù, Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi.

 

PER L’APPROFONDIMENTO:

V DOMENICA TEMPO ORD