V DOMENICA DI QUARESIMA

Prima lettura: Ezechiele 37,12-14

 Così dice il Signore Dio: «Ecco, io apro i vostri sepolcri, vi faccio uscire dalle vostre tombe, o popolo mio, e vi riconduco nella terra d’Israele. Riconoscerete che io sono il Signore, quando aprirò le vostre tombe e vi farò uscire dai vostri sepolcri, o popolo mio. Farò entrare in voi il mio spirito e rivivrete; vi farò riposare nella vostra terra. Saprete che io sono il Signore. L’ho detto e lo farò». Oracolo del Signore Dio.

 

  • I tre versetti del capitolo 37 di Ezechiele, che la liturgia fa leggere oggi danno ad Israele, come segno della restaurazione della terra promessa e del ritorno in essa di tutto il popolo, la risurrezione dei morti. Non si tratta della risurrezione finale, ma del segno della potenza di Dio che ama il suo popolo e, dopo i castighi, gli invia una esaltante promessa di salvezza. «Ecco, io apro i vostri sepolcri, vi faccio uscire dalle vostre tombe, o popolo mio, e vi riconduco nella terra d’Israele» (Ez 37,12). Il Signore si rivolge ad Israele con l’appellativo «popolo mio» ripetuto due volte in due versetti consecutivi.

         Dio ha scelto per sua libera volontà Israele e lo ha fatto proprio; i profeti lo ricordano ad Israele in esilio e sottolineano tutto l’amore paterno che Dio ha per lui. Egli castiga perché Israele si ravveda, ma egli è sempre il Dio misericordioso e consolatore, che ha scelto Sion fin dalla creazione del mondo: «Ti ho nascosto sotto l’ombra delle mie ali, quando ho disteso i cieli e fondato la terra, e ho detto a Sion: “Tu sei il mio popolo” (Is 51,16). Dio stesso si incarica di rinnovare dall’interno ogni membro del suo popolo, perché segua i suoi comandi e non incorra più nell’infedeltà: «Darò loro un cuore nuovo ed uno spirito nuovo metterò dentro di loro…perché seguano i miei decreti e osservino le mie leggi e li mettano in pratica, saranno il mio popolo e io sarò il loro Dio» (Ez 11,20; cf. 14,11; 34,30; 36,28; 37,23.27).

         Anche Geremia insiste sull’appartenenza di Israele a Dio, che si fa carico di riportarlo nella terra che ha promesso ai padri: «Io poserò lo sguardo sopra di loro per il loro bene li ricondurrò in questo paese, li ristabilirò fermamente e non li demolirò; li pianterò e non li sradicherò mai più. Darò loro un cuore capace di conoscermi, perché io sono il Signore; essi saranno il mio popolo e io sarò il loro Dio, se torneranno a me con tutto il cuore» (Ger 24,6-7).

                Dio è fedele nonostante le infedeltà del popolo e concede la grazia del ravvedimento (in ebraico teshuvà).

 

Seconda lettura: Romani 8,8-11

Fratelli, quelli che si lasciano dominare dalla carne non possono piacere a Dio.
Voi però non siete sotto il dominio della carne, ma dello Spirito, dal momento che lo Spirito di Dio abita in voi. Se qualcuno non ha lo Spirito di Cristo, non gli appartiene.
Ora, se Cristo è in voi, il vostro corpo è morto per il peccato, ma lo Spirito è vita per la giustizia. E se lo Spirito di Dio, che ha risuscitato Gesù dai morti, abita in voi, colui che ha risuscitato Cristo dai morti darà la vita anche ai vostri corpi mortali per mezzo del suo Spirito che abita in voi.

 

  • Paolo nella prima sezione del capitolo 8 della lettera ai Romani presenta la vita nello Spirito che inabita nei cristiani come la vera ed unica vita, contrapposta a quella della carne, che è vita solo apparente, ma in realtà è morte. Egli con «carne», non intende i corpi mortali, ma i vizi e il peccato, che allontanano da Dio, unica fonte di vita. «Quelli che si lasciano dominare dalla carne non possono piacere a Dio» (Rm 8,8). «Voi però non siete sotto il dominio della carne, ma dello Spirito, dal momento che lo Spirito di Dio abita in voi» (Rm 8,9; cf. 1Cor 3,16; 1Gv 3,24). La caratteristica propria dei cristiani è essere fatti simili a Cristo dallo Spirito. Non appartiene a Cristo chi non ha il suo stesso Spirito, mentre «se uno è in Cristo è una creatura nuova» (2Cor 5,17).

         Paolo di sé dichiara: «Sono stato crocefisso col Cristo e non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me», e spiega che non si tratta di uscire dalla condizione mortale, ma di vivere nella fede: «Questa vita nella carne io la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato ed ha dato se stesso per me». (Gal 2,20; cf. Fil 1.21; Rm 8,2).

         Lo Spirito che risuscitò il Cristo è la caparra della risurrezione dei cristiani diventati mediante lo Spirito figli di Dio a somiglianza del Cristo (Rm 8,11.16).

 

Vangelo:Giovanni 11,1-45

In quel tempo, un certo Lazzaro di Betània, il villaggio di Maria e di Marta sua sorella, era malato. Maria era quella che cosparse di profumo il Signore e gli asciugò i piedi con i suoi capelli; suo fratello Lazzaro era malato. Le sorelle mandarono dunque a dire a Gesù: «Signore, ecco, colui che tu ami è malato». All’udire questo, Gesù disse: «Questa malattia non porterà alla morte, ma è per la gloria di Dio, affinché per mezzo di essa il Figlio di Dio venga glorificato». Gesù amava Marta e sua sorella e Lazzaro. Quando sentì che era malato, rimase per due giorni nel luogo dove si trovava. Poi disse ai discepoli: «Andiamo di nuovo in Giudea!». I discepoli gli dissero: «Rabbì, poco fa i Giudei cercavano di lapidarti e tu ci vai di nuovo?». Gesù rispose: «Non sono forse dodici le ore del giorno? Se uno cammina di giorno, non inciampa, perché vede la luce di questo mondo; ma se cammina di notte, inciampa, perché la luce non è in lui». Disse queste cose e poi soggiunse loro: «Lazzaro, il nostro amico, s’è addormentato; ma io vado a svegliarlo». Gli dissero allora i discepoli: «Signore, se si è addormentato, si salverà». Gesù aveva parlato della morte di lui; essi invece pensarono che parlasse del riposo del sonno. Allora Gesù disse loro apertamente: «Lazzaro è morto e io sono contento per voi di non essere stato là, affinché voi crediate; ma andiamo da lui!». Allora Tommaso, chiamato Dìdimo, disse agli altri discepoli: «Andiamo anche noi a morire con lui!». Quando Gesù arrivò, trovò Lazzaro che già da quattro giorni era nel sepolcro. Betània distava da Gerusalemme meno di tre chilometri e molti Giudei erano venuti da Marta e Maria a consolarle per il fratello. Marta dunque, come udì che veniva Gesù, gli andò incontro; Maria invece stava seduta in casa. Marta disse a Gesù: «Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto! Ma anche ora so che qualunque cosa tu chiederai a Dio, Dio te la concederà». Gesù le disse: «Tuo fratello risorgerà». Gli rispose Marta: «So che risorgerà nella risurrezione dell’ultimo giorno». Gesù le disse: «Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà; chiunque vive e crede in me, non morirà in eterno. Credi questo?». Gli rispose: «Sì, o Signore, io credo che tu sei il Cristo, il Figlio di Dio, colui che viene nel mondo».

Dette queste parole, andò a chiamare Maria, sua sorella, e di nascosto le disse: «Il Maestro è qui e ti chiama». Udito questo, ella si alzò subito e andò da lui. Gesù non era entrato nel villaggio, ma si trovava ancora là dove Marta gli era andata incontro. Allora i Giudei, che erano in casa con lei a consolarla, vedendo Maria alzarsi in fretta e uscire, la seguirono, pensando che andasse a piangere al sepolcro.

Quando Maria giunse dove si trovava Gesù, appena lo vide si gettò ai suoi piedi dicendogli: «Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto!». Gesù allora, quando la vide piangere, e piangere anche i Giudei che erano venuti con lei, si commosse profondamente e, molto turbato, domandò: «Dove lo avete posto?». Gli dissero: «Signore, vieni a vedere!». Gesù scoppiò in pianto. Dissero allora i Giudei: «Guarda come lo amava!». Ma alcuni di loro dissero: «Lui, che ha aperto gli occhi al cieco, non poteva anche far sì che costui non morisse?». Allora Gesù, ancora una volta commosso profondamente, si recò al sepolcro: era una grotta e contro di essa era posta una pietra. Disse Gesù: «Togliete la pietra!». Gli rispose Marta, la sorella del morto: «Signore, manda già cattivo odore: è lì da quattro giorni». Le disse Gesù: «Non ti ho detto che, se crederai, vedrai la gloria di Dio?». Tolsero dunque la pietra. Gesù allora alzò gli occhi e disse: «Padre, ti rendo grazie perché mi hai ascoltato. Io sapevo che mi dai sempre ascolto, ma l’ho detto per la gente che mi sta attorno, perché credano che tu mi hai mandato». Detto questo, gridò a gran voce: «Lazzaro, vieni fuori!». Il morto uscì, i piedi e le mani legati con bende, e il viso avvolto da un sudario. Gesù disse loro: «Liberatelo e lasciatelo andare». Molti dei Giudei che erano venuti da Maria, alla vista di ciò che egli aveva compiuto, credettero in lui.

 

 

Esegesi 

     Il racconto della risurrezione di Lazzaro si può considerare una vera e propria introduzione alla storia della passione, che si concluderà con la risurrezione dello stesso Gesù. La narrazione inizia con la presentazione dei protagonisti: Lazzaro, forma grecizzata di El-Azar, Dio presta aiuto, le sorelle Maria e Marta (Gv 12.1-8; Mt 26,6-13; Mc 14,3-9). Maria è presentata come «quella che cosparse di profumo il Signore e gli asciugò i piedi con i suoi capelli» (Gv 11,2); il verbo è al passato, ma in realtà il gesto è narrato nel capitolo successivo (Gv 12,1-8; cf. Mt 26,6-13) e ambientato nel festoso banchetto dopo la risurrezione di Lazzaro; il gesto di Maria è da Gesù messo in relazione alla sua sepoltura (Gv 12,7). Non bisogna fare confusione fra Maria sorella di Lazzaro e la peccatrice nominata in Lc 10,36ss. Tale identificazione non è conosciuta dai padri prima di Gregorio Magno, ed è smentita dagli esegeti contemporanei. Lazzaro si ammala seriamente e le sorelle lo segnalano a Gesù, senza richiedere esplicitamente il suo intervento, come fa la madre di Gesù che segnala la mancanza di vino alle nozze di Cana senza aggiungere altro (Gv 2,3). Va da sé che Gesù, data la familiarità con queste persone, capisce anche quello che esse tacciono per discrezione. Gesù commenta la notizia dicendo che non è una malattia per la morte, ma per la gloria di Dio e la glorificazione del Figlio (Gv 11,4; cf. 9,3). Nel Vangelo di Giovanni la glorificazione del Figlio è l’evento pasquale (cf. Gv 3,14:8,28; 12,16-23; 13,31-32; 17,5) e la risurrezione di Lazzaro ne è un’anticipazione. Gesù si trattiene ancora due giorni nel luogo dove si trovava. Poi con grande risolutezza invita i discepoli: «Andiamo di nuovo in Giudea!» (Gv 11,7). Egli sa che là si deve compiere la sua missione e con coraggio la vuole portare a termine. Anche Luca ci presenta un Gesù risoluto mentre intraprende il suo ultimo viaggio a Gerusalemme, è un Gesù che «indurisce la sua faccia», vale a dire richiama tutto il suo coraggio, prima di affrontare con decisione il cammino verso la passione (cf. Lc 9,51). I discepoli, appena Gesù ha espresso la volontà di andare in Giudea, gli ricordano timorosi che là era stato minacciato di morte (Gv 11,8). Gesù risponde con una parabola (Gv 11, 9-10) per rinfrancare i discepoli, che restano tuttavia tentennanti e, appena Gesù dice che Lazzaro si è addormentato ed egli vuole andare a riscuoterlo dal sonno, non vogliono capire e avanzano l’obiezione che se si è addormentato guarirà. Essi vogliono dissuadere Gesù dall’andare in Giudea e non colgono il secondo senso delle parole di Gesù, che si riferisce al sonno della morte. Allora Gesù dichiara apertamente che Lazzaro è morto ed è un bene che egli non era presente, perché ora essi avranno maggiore fede in lui. Poi rinnova l’invito a partire alla volta della Giudea. Fra i discepoli timorosi si distingue Tommaso (chiamato Didimo, che significa gemello) che, risoluto esorta i suoi compagni a condividere la stessa sorte di Gesù (Gv 11,16).

     All’arrivo di Gesù a Betania Lazzaro è sepolto da quattro giorni (Gv 11,18) e molte persone si sono radunate in casa di Marta e Maria per partecipare al loro lutto (Gv 11,19). Marta appena sente dell’arrivo di Gesù gli va subito incontro, mentre Maria rimane in casa (Gv 11,20). Questo particolare fa venire in mente l’episodio narrato da Luca 10,38-42; probabilmente entrambi gli evangelisti avevano dei ricordi molto vivi della stessa famiglia e in particolare delle due sorelle. La conversazione di Gesù con Marta introduce le motivazioni teologiche della rivelazione di Gesù che si presenta come «risurrezione e vita». Infatti la professione di fede di Marta nella risurrezione finale (Gv 11,24, cf. Dn 12,1-3; 2Mac 7,22-24,12,44) viene attualizzata da Gesù: «Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà» (Gv 11,25). È una ripresa più esplicitamente riferita alla sua persona di quanto aveva già detto: «In verità in verità vi dico: viene l’ora ed è ora in cui i morti udranno la voce del Figlio di Dio e coloro che l’avranno ascoltata vivranno» (Gv 5,25).

     Alla domanda di Gesù «Credi questo?». Marta risponde con la bellissima professione di fede simile a quella di Simon Pietro: «Sì, o Signore, io credo che tu sei il Cristo, il Figlio di Dio, colui che viene nel mondo » (Gv 11,27, cf. Mt 16,16). Marta allora va a chiamare Maria che esce in fretta anche lei per incontrarlo. La seguono i suoi ospiti, che credono che sia uscita per andare al sepolcro (Gv 11, 28-31). Gesù al vedere Maria e gli altri piangere è turbato (tarasso) e piange (dakryo) (Gv 11,33.35). Il pianto e il turbamento di Gesù di fronte alla morte di Lazzaro anticipano il turbamento di fronte alla propria morte: «ora la mia anima è turbata (tarasso) e che devo dire … padre salvami da quest’ora? Ma proprio per questo sono venuto a quest’ora» (Gv 12,27).

     Al sepolcro c’è un’altra conversazione con Marta che obietta alla richiesta di Gesù di aprire il sepolcro; ella non ha ancora capito fino in fondo le parole di Gesù. Appena tolta la pietra Gesù innalza con la piena fiducia di essere esaudito una preghiera di ringraziamento al Padre e lo fa a voce alta, perché gli astanti odano e credano, poi a «gran voce» esclama: «Lazzaro vieni fuori!» e Lazzaro ubbidisce (Gv 11,41-44).

 

Meditazione 

      Il passaggio dalla morte alla vita, centro del messaggio di questa domenica, prelude, soprattutto con l’episodio della resurrezione di Lazzaro, all’evento pasquale la cui celebrazione si fa sempre più vicina. La resurrezione appare come evento storico: la morte in cui giacciono i figli d’Israele è la situazione di esilio a Babilonia da cui essi risorgeranno ritornando in terra d’Israele (I lettura); appare come evento spirituale che caratterizza il credente che, lasciandosi guidare dallo Spirito di Dio, passa dalla vita nella carne, cioè nell’egoismo e nel peccato, alla vita in Cristo (II lettura); appare come evento personale e corporeo che conduce Lazzaro a uscire dalla tomba all’udire la parola di Gesù (vangelo). I testi sottolineano anche tre dimensioni della morte: se solo la morte di Lazzaro è fisica, la morte spirituale di chi vive nella chiusura egocentrica e la morte simbolica del popolo deportato non sono meno drammatiche e reali.

     La morte comunitaria di cui parla Ezechiele è situazione di morte della speranza: «La nostra speranza è svanita, siamo perduti» (Ez 37,11). Anche noi, nelle vicende relazionali (un’amicizia, un amore, un matrimonio), comunitarie ed ecclesiali che viviamo, possiamo sperimentare la morte della speranza, l’assenza di futuro. Tuttavia, la nascita della fede nella resurrezione e della speranza pasquale avviene attraverso la morte di altre speranze. Lo Spirito creatore è anche lo Spirito che dona vita e suscita speranza là dove regna la morte.

     Per Paolo l’uomo che vive «nella carne», nell’autosufficienza egoistica, fa del proprio cuore la propria tomba e si trova nella morte spirituale. Ma lo Spirito di resurrezione che forza l’impenetrabilità della morte e fa uscire dai sepolcri, può penetrare le chiusure individualistiche e, ponendo la dimora nel cuore umano e inabitando in esso, può immettere l’uomo in una vita nuova.

     Il brano evangelico è una pedagogia verso la fede in Cristo che è la resurrezione e la vita. Il dialogo tra Gesù e Marta è incentrato sul credere: «Chi crede in me, anche se muore vivrà» (Gv 11,25); «Credi questo?» (11,26); «Sì, o Signore, io credo» (11,27). Di fronte all’insicurezza e alla precarietà che la prospettiva della morte ingenera nelle nostre vite («a causa della morte, noi, gli uomini, siamo come città senza mura»: Epicuro), noi siamo tentati di costruirci baluardi, difese e barriere che ci proteggano da essa. Siamo indotti dalla paura a un atteggiamento difensivo. E così facciamo anche della vita una morte, una schiavitù («gli uomini sono schiavi per tutta la vita a causa della paura della morte»: Eb 2,15): cercando di difenderci dalla morte, in realtà ci allontaniamo dalla vita. Gesù, invece, chiedendo fede, affidamento, chiede di entrare nel suo atteggiamento di fronte alla morte («Padre, ti rendo grazie perché mi hai ascoltato»: Gv 11,42), atteggiamento che, mentre assume la morte e soffre per colui che è morto, fa anche della morte una vita, vivifica la morte. La fede è il luogo della resurrezione. La fede di Gesù è dunque un magistero perché noi impariamo a credere: «L’ho detto per la gente che mi sta attorno, perché credano» (Gv 11,42). Proclama un’omelia dello Pseudo Ippolito: «Avendo tu visto l’opera divina del Signore Gesù, non dubitare più della resurrezione! Lazzaro sia per te come uno specchio: contemplando te stesso in lui, credi nel risveglio».

     Se la fede è il luogo della resurrezione, l’amore ne è la forza: Gesù amava molto Lazzaro (11,5) e questo amore si fece visibile nel suo pianto dirotto (11,35-36). L’amore integra la morte nella vita e trova il senso di quest’ultima nel dono: dare la vita diviene un dare vita. Aver fede in Gesù che è resurrezione e vita significa fare dell’amore un luogo in cui la morte viene messa a servizio della vita.

     La fede e l’amore si manifestano nella parola con cui Gesù resuscita Lazzaro: lo scandalo e la follia di chiamare chi è morto e giace nel sepolcro è possibile grazie alla fede nel Dio che resuscita i morti e all’amore, all’umanissimo amore che legava Gesù a Lazzaro. La potenza di resurrezione della parola di Gesù è tutta nella fede e nell’amore che la abitano.

 

Immagine della Domenica   

 

 

Il dono della vita

La gioia mi prende e mi riempie tutto, mi fa girare la testa come un buon bicchiere di vino. La gioia di sapere che io esisto per esistere, che io ho un valore, che vivo per vivere e non per morire, questa certezza mi riempie di gratitudine. Mi spinge a lottare anche per chi non ha forza, per chi è indifeso e senza libertà, per chi si sente inutile, per chi non ne ha voglia. La gioia di vivere non mi fa sentire la stanchezza; è bello, è meraviglioso lottare sapendo che la vita non finisce con la morte; questa lotta è un modo per dire grazie. E la gioia è più grande se si trasmette questo senso di eternità a quelli che non credono.

(E. OLIVERO, L’amore ha già vinto, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2005, 9-10)

  

Preghiere e racconti

 

L’amico dietro la pietra

Forse nel libro del Padre questo miracolo non era scritto. Egli non era stato mandato sulla terra per gli amici: i malati che guarisce, i morti che risuscita sono estranei; gente mai vista o quasi, lebbrosi dal volto irriconoscibile, salme ignote entro bare già coperte. Ai suoi non può regalar molto, al più un paio d’idre di vino, il carico di due barche da pesca. A se stesso nulla può regalare: forse per questo è bello pensare ch’egli abbia indugiato quei giorni sul Giordano.

«Io sono anche un uomo, Padre, e Lazzaro mi è più caro d’ogni altra cosa perché egli è il mio amico, la poca dolcezza di questo viaggio amaro che tu hai voluto. Se io corro a Betania, tu, lo so, darai potenza alle mie mani e lui sorgerà dal sepolcro, ma quel miracolo io lo farei per me solo, per queste poche giornate che mi rimangono, giacché la morte è troppo fredda senza un fuoco presso cui aspettarla. Scrivi quest’altro miracolo nel tuo libro, ma fa’ che a te, non a me io lo doni: quell’uomo che io amo rendimelo sconosciuto, cancella dalla mia memoria le dolci sere, fallo uguale a tutti questi altri di cui non so il nome, che non mi sono amici, ma solamente fratelli».

Il Padre ha risposto di sì, perché lui e il Padre sono una cosa sola. Dunque Lazzaro risorgerà. C’è solo questa remora di scostare la pietra, qualche istante appena e poi Marta e Maria risusciteranno anche loro alla gioia, quando quel fantoccio stecchito tornerà a essere il fratello e le sue braccia appena slegate dalle bende stringeranno contro il petto le loro teste indolenzite di pianto. Perché piange, allora? Signore, noi siamo felici, Lazzaro già respira sotto il sudario, era vero come tu dicevi, egli era solo assopito… 

(Luigi Santucci)

 

Quello che sarebbe accaduto nel Maestro era già realizzato nel servo

«Il Signore aveva resuscitato la figlia del capo della sinagoga, Giairo, ma quando era morta da poco (cfr. Mc 5,21-43). […] Aveva resuscitato anche il figlio unico di una vedova, ma fermando il corteo funebre, prima che fosse sepolto, in modo da evitare la corruzione e prevenire il fetore, per restituire la vita al morto prima che fosse interamente caduto in potere della morte (cfr. Lc 7,11-17). Ma per ciò che riguarda Lazzaro tutto quello che accade è eccezionale; la sua morte e la sua risurrezione non hanno niente in comune con le altre di cui si è detto. Qui è dispiegata tutta la potenza della morte ed è manifestato tutto lo splendore della risurrezione. Oso dire che Lazzaro avrebbe sottratto tutto il mistero della resurrezione del Signore se fosse ritornato dagli inferi il terzo giorno, poiché Cristo ritornò il terzo giorno come Signore, Lazzaro è richiamato alla vita il quarto giorno come servo. Ma per provare quanto abbiamo detto, soffermiamoci su alcuni passaggi della lettura. Le sue sorelle andarono a dire al Signore: “Signore, colui che tu ami è malato” (Gv 11,3). Con queste parole toccano i suoi affetti, fanno appello all’amore, smuovono la carità, cercano di superare il tragico momento con l’amicizia. Ma Cristo al quale interessa di più vincere la morte che allontanare la malattia, per il quale amare non è far uscire dal letto, ma ricondurre dagli inferi, preparò per l’amato non una medicina per la sua malattia, ma la gloria della risurrezione. Quando seppe che Lazzaro era malato, rimase due giorni nello stesso luogo (Gv 11,6). Vedete come lascia campo libero alla morte, concede opportunità alla morte, permette che avvenga la decomposizione, non ostacola ne la putrefazione ne il fetore. Accetta che gli inferi si impadroniscano di Lazzaro, che lo trascinino a sé, che l’abbiano prigioniero; agisce in modo tale che tutta la speranza umana sia perduta e che tutta la violenza della disperazione terrena si scateni perché ciò che opera è divino e non umano. Resta nel medesimo luogo ad aspettare la morte di Lazzaro fino a che egli stesso possa annunciarla e dichiarare che andrà da lui. Dice infatti: Lazzaro è morto e io ne gioisco (Gv 11,14). È questo l’amore? Cristo gioiva perché la tristezza della morte si sarebbe trasformata ben presto nella gioia della resurrezione. E io ne gioisco per voi: perché per voi? Perché nella morte e nella risurrezione di Lazzaro era rappresentata in figura la morte e la risurrezione del Signore e quello che sarebbe accaduto nel Maestro era già realizzato nel servo […] Era necessaria la morte di Lazzaro, affinché la fede dei discepoli, sepolta con Lazzaro, resuscitasse con lui».

(PIETRO CRISOLOGO, Discorsi 63, CCL 24 A, pp. 373-376).

 

Desiderio di eternità

Mancano solo due settimane alla Pasqua, e le Letture bibliche di questa domenica parlano tutte della risurrezione. Non ancora di quella di Gesù, che irromperà come una novità assoluta, ma della nostra risurrezione, quella a cui noi aspiriamo e che proprio Cristo ci ha donato, risorgendo dai morti. In effetti, la morte rappresenta per noi come un muro che ci impedisce di vedere oltre; eppure il nostro cuore si protende al di là di questo muro, e anche se non possiamo conoscere quello che esso nasconde, tuttavia lo pensiamo, lo immaginiamo, esprimendo con simboli il nostro desiderio di eternità.

Al popolo ebraico, in esilio lontano dalla terra d’Israele, il profeta Ezechiele annuncia che Dio aprirà i sepolcri dei deportati e li farà ritornare nella loro terra, per riposarvi in pace (cfr Ez 37,12-14). Questa aspirazione ancestrale dell’uomo ad essere sepolto insieme con i suoi padri è anelito ad una “patria” che lo accolga al termine delle fatiche terrene. Questa concezione non contiene ancora l’idea di una risurrezione personale dalla morte, che compare solo verso la fine dell’Antico Testamento, e ancora al tempo di Gesù non era accolta da tutti i Giudei. Del resto, anche tra i cristiani, la fede nella risurrezione e nella vita eterna si accompagna non raramente a tanti dubbi, a tanta confusione, perché si tratta pur sempre di una realtà che oltrepassa i limiti della nostra ragione, e richiede un atto di fede. Nel Vangelo di oggi – la risurrezione di Lazzaro – noi ascoltiamo la voce della fede dalla bocca di Marta, la sorella di Lazzaro. A Gesù che le dice: “Tuo fratello risorgerà”, ella risponde: “So che risorgerà nella risurrezione dell’ultimo giorno” (Gv 11,23-24). Ma Gesù replica: “Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà” (Gv 11,25-26). Ecco la vera novità, che irrompe e supera ogni barriera! Cristo abbatte il muro della morte, in Lui abita tutta la pienezza di Dio, che è vita, vita eterna. Per questo la morte non ha avuto potere su di Lui; e la risurrezione di Lazzaro è segno del suo pieno dominio sulla morte fisica, che davanti a Dio è come un sonno (cfr Gv 11,11).Ma c’è un’altra morte, che è costata a Cristo la più dura lotta, addirittura il prezzo della croce: è la morte spirituale, il peccato, che minaccia di rovinare l’esistenza di ogni uomo. Per vincere questa morte Cristo è morto, e la sua Risurrezione non è il ritorno alla vita precedente, ma l’apertura di una realtà nuova, una “nuova terra”, finalmente ricongiunta con il Cielo di Dio. Per questo san Paolo scrive: “Se lo Spirito di Dio, che ha risuscitato Gesù dai morti, abita in voi, colui che ha risuscitato Cristo dai morti darà la vita anche ai vostri corpi mortali per mezzo del suo Spirito che abita in voi” (Rm 8,11). Cari fratelli, rivolgiamoci alla Vergine Maria, che già partecipa di questa Risurrezione, perché ci aiuti a dire con fede: “Sì, o Signore, io credo che tu sei il Cristo, il Figlio di Dio” (Gv 11,27), a scoprire veramente che Lui è la nostra salvezza.

(Le parole del Papa Benedetto XVI alla recita dell’Angelus, 10-04-2011).

 

La vita eterna – che cos’è?

     «Forse oggi molte persone rifiutano la fede semplicemente perché la vita eterna non sembra loro una cosa desiderabile. Non vogliono affatto la vita eterna, ma quella presente, e la fede nella vita eterna sembra, per questo scopo, piuttosto un ostacolo.

Continuare a vivere in eterno – senza fine – appare più una condanna che un dono. La morte, certamente, si vorrebbe rimandare il più possibile. Ma vivere sempre, senza un termine –  questo, tutto sommato, può essere solo noioso e alla fine insopportabile.

     È precisamente questo che, per esempio, dice il Padre della Chiesa Ambrogio nel discorso funebre per il fratello defunto Satiro: “È vero che la morte non faceva  parte della natura, ma fu resa realtà di natura; infatti Dio da principio non stabilì la morte, ma la diede quale rimedio […] A causa della trasgressione, la vita degli uomini cominciò ad essere miserevole nella fatica quotidiana e nel pianto insopportabile. Doveva essere posto un termine al male, affinché la morte restituisse ciò che la vita aveva perduto. L’immortalità è un peso piuttosto che un vantaggio, se non illumina la grazia”. Già prima Ambrogio aveva detto: “Non dev’essere pianta la morte, perché è causa di salvezza…”».

(BENEDETTO XVI, Spe Salvi, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano, 2007, 24-25).

 

Il seme delle domande

Dio mio, sono venuto con il seme delle domande!

Le seminai e non fiorirono.

Dio mio, sono arrivato con le corolle delle risposte,

ma il vento non le sfoglia!

Dio mio, sono Lazzaro!

Piena d’aurora, la mia tomba

dà al mio carro neri puledri.

Dio mio, resterò senza domanda e con risposta

vedendo i rami muoversi!

(F. Garcia Lorca)

 

Io sono la risurrezione

Trovare una nuova vita attraverso la sofferenza e la morte: è questo il cuore della buona notizia. Gesù ha vissuto questa via di liberazione prima di noi e ne ha fatto il grande segno. Gli esseri umani hanno sempre la smania di vedere segni: eventi meravigliosi, straordinari, sensazionali che li possano distrarre un poco dalla dura realtà… Ci piacerebbe vedere qualcosa di meraviglioso, di eccezionale, che interrompa la vita ordinaria di tutti i giorni. In questo modo, anche se per un solo momento, possiamo giocare a nascondino. Ma a coloro che dicono: «Signore… vorremmo che tu ci facessi vedere un segno», Gesù risponde: «Una generazione perversa e adultera pretende un segno! Ma nessun segno le sarà dato, se non il segno di Giona profeta. Come infatti Giona rimase tre giorni e tre notti nel ventre del pesce, così il Figlio dell’uomo resterà tre giorni e tre notti nel cuore della terra».

Da tutto questo, si può vedere quale sia il segno autentico: non un miracolo sensazionale ma la sofferenza, la morte, la sepoltura e la risurrezione di Gesù. Il grande segno, che può essere compreso solo da coloro che sono disposti a seguire Gesù, è il segno di Giona, il quale volle anche lui fuggire dalla realtà, ma fu richiamato indietro da Dio perché adempisse il suo arduo compito fino in fondo. Guardare la sofferenza e la morte dritto in faccia e attraversarle con la speranza di una nuova vita data da Dio: è questo il segno di Gesù e di ogni essere umano che desidera vivere una vita spirituale a sua imitazione. È il segno della croce: il segno della sofferenza e della morte, ma anche della speranza di un totale rinnovamento.

(H.J.M. Nouwen, Lettere a un giovane, in ID., Mostrami il cammino. Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003, 117).

 

L’amore di Dio è più forte della morte

Anche se Gesù ha contrastato direttamente l’inclinazione umana a evitare la sofferenza e la morte, i suoi discepoli si resero conto che era meglio vivere la verità con occhi aperti che non vivere la loro vita nell’illusione.

La sofferenza e la morte appartengono alla via stretta di Gesù. Gesù non le glorifica, né le dichiara belle, buone o qualcosa da desiderare. Gesù non chiama all’eroismo o al sacrificio suicida. No, Gesù ci invita a guardare la realtà della nostra esistenza, e ci rivela che questa dura realtà è la strada da percorrere per arrivare a una nuova vita. Il nucleo del messaggio di Gesù è che la gioia e la pace non si possono mai raggiungere aggirando la sofferenza e la morte, ma soltanto affrontandole con coraggio.

Potremmo dire che in realtà, non abbiamo alcuna possibilità di scelta. Chi, infatti, sfugge alla sofferenza e alla morte? Eppure c’è ancora una scelta.

Possiamo negare la realtà della vita, o possiamo affrontarla. Se la affrontiamo non da disperati, ma con gli occhi di Gesù, scopriamo che dove meno ce l’aspettiamo, è nascosto qualcosa che sostiene una promessa più forte della morte stessa. Gesù ha vissuto la sua vita con la sicurezza che l’amore di Dio è più forte della morte e che la morte non ha, quindi, l’ultima parola. Egli ci invita ad affrontare la realtà dolorosa della nostra esistenza con la stessa fiducia. La Quaresima è soprattutto questo.

(H.J.M. Nouwen, Preghiere dal silenzio, in ID., Mostrami il cammino. Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003, 118).

Ezechiele 37, 12-14; Romani 8, 8-11; Giovanni 11, 1-45

 

La risurrezione del cuore

Le storie del Vangelo non sono scritte solo per essere lette, ma anche per essere rivissute. La storia di Lazzaro è stata scritta per dirci questo: c’è una risurrezione del corpo e c’è una risurrezione del cuore; se la risurrezione del corpo avverrà “nell’ultimo giorno”, quella del cuore avviene, o può avvenire, ogni giorno.

Questo è il significato della risurrezione di Lazzaro che la liturgia ha voluto evidenziare con la scelta della prima lettura di Ezechiele sulle ossa aride. Il profeta ha una visione: vede un’immensa distesa di ossa rinsecchite e capisce che esse rappresentano il morale del popolo che è a terra. La gente va dicendo: “La nostra speranza è svanita, noi siamo perduti”. Ad essi è rivolta la promessa di Dio: “Ecco io apro i vostri sepolcri, vi risuscito dalle vostre tombe…Farò entrare in voi il mio spirito e rivivrete”. Anche in questo caso non si tratta della risurrezione finale dei corpi, ma della risurrezione attuale dei cuori alla speranza. Quei cadaveri, si dice, si rianimarono, si misero in piedi ed erano “un esercito grande, sterminato”. Era il popolo d’Israele che tornava a sperare dopo l’esilio.

Da tutto questo deduciamo una cosa che conosciamo anche per esperienza: che si può essere morti, anche prima di…morire, mentre siamo ancora in questa vita. E non parlo solo della morte dell’anima a causa del peccato; parlo anche di quello stato di totale assenza di energia, di speranza, di voglia di lottare e di vivere che non si può chiamare con nome più indicato che questo: morte del cuore.

A tutti quelli che per le ragioni più diverse (matrimonio fallito, tradimento del coniuge, traviamento o malattia di un figlio, rovesci finanziari, crisi depressive, incapacità di uscire dall’alcolismo, dalla droga) si trovano in questa situazione, la storia di Lazzaro dovrebbe arrivare come il suono di campane il mattino di Pasqua.

Chi può darci questa risurrezione del cuore? Per certi mali, sappiamo bene che non c’è rimedio umano che tenga. Le parole di incoraggiamento lasciano il terreno che trovano. Anche in casa di Marta e Maria c’erano dei “giudei venuti per consolarle”, ma la loro presenza non aveva cambiato nulla. Bisogna “mandare a chiamare Gesù”, come fecero le sorelle di Lazzaro. Invocarlo come fanno le persone sepolte sotto una valanga o sotto le macerie di un terremoto che richiamano con i loro gemiti l’attenzione dei soccorritori.

Spesso le persone che si trovano in questa situazione non sono in grado di fare niente, neppure di pregare. Sono come Lazzaro nella tomba. Bisogna che altri facciano qualcosa per loro. Sulla bocca di Gesù troviamo una volta questo comando rivolto ai suoi discepoli: “Guarite gli infermi, risuscitate i morti” (Mt 10,8). Cosa intendeva dire Gesù: che dobbiamo risuscitare fisicamente dei morti? Se fosse così, nella storia si contano sulle dita i santi che hanno messo in pratica quel comando di Gesù. No, Gesù intendeva anche e soprattutto i morti nel cuore, i morti spirituali. Parlando del figliol prodigo, il padre dice: “Egli era morto ed è tornato in vita” (Lc 15, 32). E non si trattava certo di morte fisica, se era tornato a casa.

Quel comando: “Risuscitate i morti” è rivolto dunque a tutti i discepoli di Cristo. Anche a noi! Tra le opere di misericordia che abbiamo imparato da bambini, ce n’era che diceva: “seppellire i morti”; adesso sappiamo che c’è anche quella di “risuscitare i morti”.

 

 

Preghiera

Tu hai parole di vita eterna,

tu sei cibo e bevanda,

tu sei la via, la verità e la vita.

Sei la luce che splende nelle tenebre,

la lampada sul candelabro, la casa sul monte.

Sei la perfetta icona di Dio.

Io grazie a te posso vedere il Padre celeste,

e con te posso trovare la strada per giungere a lui.

Sii il mio Signore, il mio Salvatore, il mio Redentore.

la mia Guida, il mio Consolatore, il mio Conforto,

la mia Speranza, la mia Gioia, la mia Pace.

A te voglio dare tutto ciò che sono.

Fa’ che io ti dia tutto,

tutto ciò che ho, penso, faccio e sento.

È tutto tuo, o Signore.

Ti prego, accettalo e rendilo completamento tuo.

Amen.
 

Michelangelo Merisi da Caravaggio, Resurrezione di Lazzaro, 1609.
© Su concessione della Regione Siciliana, Assessorato Beni Culturali e Identità siciliana – Dipartimento Beni Culturali e Identità siciliana – Museo interdisciplinare regionale di Messina.

«Per la sua fede nel sole afferma san Giustino Martire non si è mai visto nessuno pronto a morire».
Consapevoli dell’orizzonte grande che la fede apriva loro, i cristiani chiamarono Cristo il vero sole, “i cui raggi donano la vita”. A Marta, che piange per la morte del fratello Lazzaro, Gesù dice: “Non ti ho detto che, se credi, vedrai la gloria di Dio?” (Gv 11,40). Chi crede, vede; vede con una luce che illumina tutto il percorso della strada, perché viene a noi da Cristo risorto, stella mattutina che non tramonta».
È quanto scrive papa Francesco all’inizio dell’enciclica Lumen fidei. Così come Gesù rispondendo a Tommaso dirà di sé: «Io sono la via, la verità e la vita» (Gv 14,6), anche nel dialogo con Marta, la sorella di Lazzaro di Betania, afferma: «Io sono la risurrezione e la vita […] chiunque vive e crede in me, non morrà in eterno» (Gv 11,25-26). Gesù, infatti, è il Verbo nel quale «era la vita» (Gv 1,4), venuto nel mondo perché coloro che credono in  lui abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza (cf. Gv 10,10). S. Agostino, riprendendo il testo giovanneo: «Chi crede in me anche se è morto vivrà, e chiunque vive e crede in me non morirà in eterno» (Gv 11,25-26), si chiede: «Che vuol dire questo? “Chi crede in me, anche se è morto” come è morto Lazzaro, “vivrà”, perché egli non è Dio dei morti ma dei viventi. Così rispose ai Giudei, riferendosi ai patriarchi morti da tanto tempo, cioè ad Abramo, Isacco e Giacobbe: Io sono il Dio di Abramo, il Dio d’Isacco e il Dio di Giacobbe; non sono Dio dei morti ma dei viventi: essi infatti sono tutti vivi (Mt 22,32; Lc 20,37-38). Credi dunque, e anche se sei morto, vivrai; se non credi, sei morto anche se vivi» (Commento al Vangelo di Giovanni 49). È proprio il dono della vita che Gesù partecipa all’amico Lazzaro che si era addormentato e che Egli era venuto a svegliare (cf. Gv 11,11).
Caravaggio ha tradotto in pittura l’episodio evangelico dipingendo a Messina, tra il 1608 e il 1609, una tela di notevoli dimensioni destinata alla Chiesa dei Padri Crociferi.
La scena è animata e mossa da un grande stupore che esprimono tutti i personaggi nell’istante in cui il corpo irrigidito di Lazzaro riprende vita, risvegliandosi dal sonno profondo della morte.
 
Il suo corpo nudo, liberato dalle bende, semicoperto da un lenzuolo, teso in forma di croce, è raggiunto dalla luce soprannaturale che si riflette anche sui volti smarriti dei personaggi che affollano il dipinto. All’estremità sinistra della tela è posta la figura solenne e composta di Gesù con il braccio destro alzato mentre la sua mano è rivolta verso il morto il quale ha già udito le parole: «Vieni fuori!» (Gv 11,43). Sciolto dalle bende e liberato dal sudario, Lazzaro riprende vita. Il suo capo è amorevolmente sostenuto dalle sorelle Maria e Marta. Quest’ultima aveva detto a Gesù: «Signore, se tu fossi stato qui mio fratello non sarebbe morto! Ma anche ora io so che qualunque cosa chiederai a Dio, Egli te la concederà» (Gv 11,21-22). Adesso vede realizzato il suo desiderio e il suo atto di fede in Cristo, vita e risurrezione, trova risposta. Il tutto si consuma in una scenografia che si materializza in un ampio sfondo scuro che sembra incombere sulle figure disposte lungo uno stesso piano, uno spazio vuoto e impenetrabile che viene come squarciato dalla luce divina.
Caravaggio organizza la scena in modo teatrale. La proporzione tra le figure e l’altezza della tela aumenta la percezione del sacro e del mistero che avvolge e sconvolge gli uomini quasi sopraffatti dalla sua rivelazione. Il gioco di luce e di ombra sottolinea ancora di più l’evento pasquale che si sta compiendo quale anticipo dell’esodo da questo mondo al Padre che Gesù avrebbe realizzato da lì a breve a Gerusalemme. Ormai la morte, di cui anche le ossa e il teschio posti in primo piano, è stata sconfitta e fa spazio alla vita.
Nell’uomo raffigurato con le mani giunte e posto dietro l’indice di Cristo, rivolto proprio verso la fonte di luce, quasi alla ricerca della grazia, molti hanno letto l’autoritratto dello stesso Caravaggio. Nel suo volto smarrito ogni uomo che ricerca la verità può riconoscere se stesso.
Ogni credente, infatti, è chiamato ad abbandonare le tenebre della morte e del peccato per lasciarsi raggiungere dalla luce vivificante di Cristo.

 

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Temi di predicazione. Omelie. Ciclo A, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2004;2007-.

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

– Comunità domenicana di Santa Maria delle Grazie, La grazia della predicazione, in «Allegato redazionale alla Rivista del Clero Italiano» (2014).

– C.M. MARTINI, Incontro al Signore risorto. Il cuore dello spirito cristiano, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009.

– E. BIANCHI et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Tempo ordinario anno A, Milano, vita e Pensiero, 2010.

– J.M. NOUWEN, Un ricordo che guida, in ID., Mostrami il cammino. Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003.

– F. ARMELLI, Ascoltarti è una festa. Le letture domenicali spiegate alla comunità, Anno A, Padova, Messagge-ro, 2001.  

– D. GHIDOTTI, Icone per pregare. 40 immagini di un’iconografia contemporanea, Milano, Ancora, 2003.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2011.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù, Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– J.M. Bergoglio – Papa Francesco, Matteo, il Vangelo del compimento, a cura di Gianfranco Venturi, LEV 2016.

– Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi.

 

PER L’APPROFONDIMENTO:

V DOMENICA DI QUARESIMA (A)