XXVIII DOMENICA TEMPO ORDINARIO

Prima lettura:2 Re 5,14-17

  In quei giorni, Naamàn [, il comandante dell’esercito del re di Aram,] scese e si immerse nel Giordano sette volte, secondo la parola di Elisèo, uomo di Dio, e il suo corpo ridivenne come il corpo di un ragazzo; egli era purificato [dalla sua lebbra]. Tornò con tutto il seguito da [Elisèo,] l’uomo di Dio; entrò e stette davanti a lui dicendo: «Ecco, ora so che non c’è Dio su tutta la terra se non in Israele. Adesso accetta un dono dal tuo servo». Quello disse: «Per la vita del Signore, alla cui presenza io sto, non lo prenderò». L’altro insisteva perché accettasse, ma egli rifiutò. Allora Naamàn disse: «Se è no, sia permesso almeno al tuo servo di caricare qui tanta terra quanta ne porta una coppia di muli, perché il tuo servo non intende compiere più un olocausto o un sacrificio ad altri dèi, ma solo al Signore».

 

È in questa linea che si muove la narrazione ripresa dal secondo libro dei Re (5,14-17). Essendo stato colpito dalla lebbra, Naaman, «il comandante dell’esercito del re di Aram» (5,1), sente dire da una giovinetta ebrea, rapita e deportata in Siria a servizio della moglie del generale, che in Israele c’è un profeta, Eliseo, che fa miracoli e può guarire anche dalla lebbra. Se nonché, il profeta gli ordina di bagnarsi sette volte nel Giordano per ottenere la guarigione. Il generale stenta a credere tutto questo: ma alla fine obbedisce e viene guarito. Per riconoscenza vuole offrire dei doni, che il profeta invece respinge, perché Dio soltanto può operare prodigi.      

     È a questo punto che Naaman il Siro si rende conto che solo il Dio di Israele, che il profeta ha invocato e di cui è come il portavoce, è il «vero Dio», e perciò chiede ad Eliseo il permesso di portare un «pezzo» di terra santa a Damasco per adorarvi l’unico Signore del cielo e della terra: «Se è no, sia permesso almeno al tuo servo di caricare qui tanta terra quanta ne porta una coppia di muli, perché il tuo servo non intende compiere più un olocausto o un sacrificio ad altri dèi, ma solo al Signore» (5,17).

     Anche Gesù nella sinagoga di Nazaret, davanti all’indisposizione dei suoi concittadini che reclamavano da lui miracoli, quasi come segno di particolare «appartenenza», si riferirà a questo episodio per dire che ormai non ci sono più «stranieri» nel suo regno, che appartiene a tutti coloro che vorranno entrarvi per la fede in lui: «C’erano molti lebbrosi in Israele al tempo del profeta Eliseo, ma nessuno di loro fu risanato se non Naaman, il Siro» (Lc 4,27).

     Con Gesù, Figlio di Dio, incarnatosi nel seno di Maria e diventato uomo come tutti noi, ogni uomo è chiamato a salvezza, a prescindere dalla collocazione geografica o dell’appartenenza a qualsiasi gruppo umano: ormai, con la sua venuta in mezzo a noi, ogni «terra» è diventata sacra!

 

Seconda lettura: 2Timoteo 2,8-13

Figlio mio, ricordati di Gesù Cristo, risorto dai morti, discendente di Davide, come io annuncio nel mio vangelo, per il quale soffro fino a portare le catene come un malfattore. Ma la parola di Dio non è incatenata! Perciò io sopporto ogni cosa per quelli che Dio ha scelto, perché anch’essi raggiungano la salvezza che è in Cristo Gesù, insieme alla gloria eterna. Questa parola è degna di fede: Se moriamo con lui, con lui anche vivremo;  se perseveriamo, con lui anche regneremo; se lo rinneghiamo, lui pure ci rinnegherà; se siamo infedeli, lui rimane fedele, perché non può rinnegare se stesso.

Questo riferimento a Cristo, morto e risuscitato per la salvezza di tutti, è ribadito nel brano della 2a lettera a Timoteo (2,8-13), in cui Paolo esorta il suo discepolo ad essere coraggioso testimone dell’annuncio cristiano, anche se ciò dovesse comportare inimicizia, e perfino il carcere, come di fatto è capitato a lui: «ricordati di Gesù Cristo, risorto dai morti, discendente di Davide, come io annuncio nel mio vangelo, per il quale soffro fino a portare le catene come un malfattore» (2,8-9).

     L’impedimento del carcere, però, non riuscirà a imprigionare la «parola» di Dio, non solo perché Paolo continuerà ad annunciarla anche in prigione, ma soprattutto perché nella sofferenza sarà anche più unito a Cristo, e così apporterà un suo particolare contributo all’opera di redenzione: «Ma la parola di Dio non è incatenata! Perciò io sopporto ogni cosa per quelli che Dio ha scelto, perché anch’essi raggiungano la salvezza che è in Cristo Gesù, insieme alla gloria eterna» (2,9-10).

     Segue quindi un frammento di antico inno cristiano, in cui si esalta la comunanza di vita e di destino del credente con il suo Signore, per cui soltanto il nostro rinnegamento della salvezza, da lui apportataci, potrebbe portare anche lui a rinnegarci: «Se moriamo con lui, con lui anche vivremo; se perseveriamo, con lui anche regneremo; se lo rinneghiamo, lui pure ci rinnegherà...» (2,11-13).

     C’è un riecheggiamento palese, in questa ultima espressione, delle parole di Gesù: «Chi mi rinnegherà davanti agli uomini, anch’io lo rinnegherò davanti al Padre mio che è nei cieli» (Mt 10,33).

     Questo brano della 2a lettera a Timoteo non è soltanto un invito al coraggio dell’annuncio, sempre e dovunque, di fronte a chiunque, ma anche l’affermazione della nostra «intimità» con Cristo, per cui, se «partecipiamo» al suo destino di sofferenza, parteciperemo anche alla sua «gloria». Noi potremmo anche essere estranei a Dio, ma lui non è mai «estraneo» a nessuno di noi!

 

Vangelo: Luca 17,11-19

 Lungo il cammino verso Gerusalemme, Gesù attraversava la Samarìa e la Galilea.
Entrando in un villaggio, gli vennero incontro dieci lebbrosi, che si fermarono a distanza e dissero ad alta voce: «Gesù, maestro, abbi pietà di noi!». Appena li vide, Gesù disse loro: «Andate a presentarvi ai sacerdoti». E mentre essi andavano, furono purificati. Uno di loro, vedendosi guarito, tornò indietro lodando Dio a gran voce, e si prostrò davanti a Gesù, ai suoi piedi, per ringraziarlo. Era un Samaritano. Ma Gesù osservò: «Non ne sono stati purificati dieci? E gli altri nove dove sono? Non si è trovato nessuno che tornasse indietro a rendere gloria a Dio, all’infuori di questo straniero?». E gli disse: «Àlzati e va’; la tua fede ti ha salvato!».

 

Esegesi

Guarigione dei dieci lebbrosi.

     È quanto ci dice soprattutto il racconto evangelico (Lc 17,11-19), che ci descrive la guarigione dei dieci lebbrosi, di cui uno soltanto, e precisamente un samaritano, torna a «rendere grazie a Dio» per la salute riacquistata. Già precedentemente Luca aveva narrato la guarigione di un lebbroso (5,12-16), che ritroviamo anche negli altri Sinottici (Mc 1,40-45; Mt 8,1-4). Qui invece egli attinge a materiale proprio, e appunto per le «particolarità» con cui l’episodio viene narrato non può essere una rielaborazione del precedente racconto, come qualcuno ha ipotizzato.

     Le «particolarità» più significative sono le seguenti: a) Gesù si trova quasi alla fine del «viaggio» che lo porta a Gerusalemme, dove sarà drammaticamente respinto dal suo popolo, che era venuto a salvare; b) è un gruppo intero di lebbrosi (10) che si rivolge a lui per essere guarito e che la sciagura aveva come affratellato, senza distinzione né di razza né di religione, nonostante che Giudei e Samaritani non avessero «buone relazioni» fra di loro (cf. Gv 4,9); c) Gesù non tocca i lebbrosi per guarirli (cf. 5,13), ma, rispettando la legge mosaica (cf. Lev 13,4-5), a distanza comanda loro di «presentarsi ai sacerdoti» per la verifica della guarigione, che sola consentiva il normale rientro nella società: la guarigione avviene proprio lungo il loro viaggio verso Gerusalemme.

     — Solo il samaritano torna a «ringraziare».

     Ma a questo punto accade la cosa più inattesa di tutto l’episodio, che è anche la «punta» semantica di tutto il racconto: uno soltanto, e precisamente il samaritano, cioè lo «straniero», torna a ringraziare Gesù, nel quale ovviamente ha riconosciuto un inviato di Dio. È allora che Gesù esprime la sua amarezza per l’ingratitudine degli altri, che erano tutti ebrei: «Non ne sono stati purificati dieci? E gli altri nove dove sono? Non si è trovato nessuno che tornasse indietro a rendere gloria a Dio, all’infuori di questo straniero?». E gli disse: «Àlzati e va’; la tua fede ti ha salvato!» (17,17-19).

     Qui la «salvezza» ovviamente è da intendere in senso più largo: non solo quella fisica, che avevano ricevuto anche gli altri, ma anche quella spirituale, che si ottiene appunto per la fede e che introduce nella comunità di Gesù, che è aperta a tutti e non solo ai Giudei.

     Anche altrove S. Luca dimostra simpatia per i Samaritani: si ricordi appunto la parabola del buon Samaritano che, a differenza del sacerdote e del levita, ebrei, passati avanti senza curarsi di lui, si china sull’uomo ferito e lo aiuta con tutti i suoi mezzi, che Gesù porta ad esempio del vero amore del prossimo (cf. Lc 10,30-37).

     Come si vede, anche la parabola del buon Samaritano, in ultima analisi, vuol dire che la salvezza portata da Gesù non solo si allarga oltre i confini d’Israele, ma addirittura che i «lontani» sono talora più vicini a Dio di quelli che dovrebbero essergli più «prossimi».
 

L’immagine della domenica

 

FINISTERRE (A CORUÑA)  –   CAMMINO DI SANTIAGO 2016


RINGRAZIAMENTO

Il mondo ha abbastanza belle montagne e prati,

cieli spettacolari e laghi sereni.

Dispone di un numero sufficiente di lussureggianti foreste,

campi fioriti e spiagge di sabbia.

E’ pieno di stelle e di promesse di nuove albe e tramonti ogni giorno.

Ma ciò di cui il mondo ha più bisogno

è gente che apprezzi e ringrazi per questo.

(Michael Josephson)

 

Meditazione 

     La prima lettura presenta la guarigione dalla lebbra dello straniero Nàaman ad opera del profeta Eliseo e il vangelo narra la guarigione, ad opera di Gesù, di dieci lebbrosi di cui uno solo, uno straniero (un samaritano), torna a ringraziarlo. Il tema dell’azione di grazie, della capacità eucaristica lega le due letture. Nàaman, che voleva sdebitarsi con Eliseo per la guarigione ottenuta e che incontra il rifiuto del profeta, ottiene un po’ di terra d’Israele per poter venerare il Signore, Dio d’Israele. La gratitudine appare così nella sua dimensione teologale. Il profeta scompare davanti al Signore, vero autore del beneficio, e Nàaman rivolge a Dio il suo ringraziamento. Anche il vangelo presenta la dimensione eucaristica della fede: il ringraziamento del samaritano a Gesù (Lc 17,16) esprime la sua fede (Lc 17,19).

     Il testo di 2Re mostra la difficoltà, soprattutto per un uomo importante, ricco e potente come Nàaman, di riconoscersi debitore: coprire di denaro e preziosi chi lo ha beneficato significherebbe «sdebitarsi», far divenire l’altro grato nei suoi confronti, e così non perdere la propria grandezza e la propria immagine di uomo che «non deve nulla a nessuno». La gratitudine è difficile e richiede la messa a morte del proprio narcisismo per entrare nel novero di coloro che si sanno graziati.

     La difficoltà del ringraziamento emerge anche dal vangelo: di dieci lebbrosi guariti, uno solo torna indietro per ringraziare Gesù. È colui che ha saputo vedersi guarito (Lc 17,15). Occorre il rispetto (nel senso etimologico di guardare indietro: respicere) per giungere al riconoscimento di ciò che è avvenuto e quindi alla riconoscenza, al ringraziamento. Il guardare indietro è anche lavoro di memoria e la memoria è costitutiva dell’eucaristia come del movimento umano della gratitudine: spesso ci rendiamo conto solo dopo molto tempo di ciò che dobbiamo a persone che abbiamo incontrato nel nostro passato e che hanno lasciato tracce importanti in noi.

     Il samaritano ha saputo vedersi guarito, dunque ha saputo prendere una distanza fra sé e sé e considerare ciò che è venuto a lui dal Signore. Allora è entrato nella salvezza ritornando indietro, cambiando strada, ovvero, immettendosi in un movimento di conversione. Ritornare da Gesù senza andare al tempio a farsi vedere dai sacerdoti perché venga verificata la guarigione, significa confessare che ormai la presenza di Dio ha trovato in Gesù il suo tempio, la sua manifestazione: è ringraziando Gesù che il samaritano rende gloria a Dio (Lc 17,18). E Gesù pronuncerà l’oracolo di salvezza nei suoi confronti: «Alzati e va’, la tua fede ti ha salvato» (Lc 17,19). Il vero culto è nella relazione con il Signore Gesù: è davanti a lui che il samaritano si prostra e rende grazie.

     Le parole di Gesù sulla fede del samaritano significano che la salvezza è veramente tale se la si celebra: il dono di Dio è veramente accolto quando per esso si sa ringraziare, ovvero riconoscerne e confessarne l’origine. Solo nel ringraziamento il dono è riconosciuto come dono. Per questo il cuore del culto cristiano si chiama eucaristia: di fronte al dono di Dio non vi è altro da fare che entrare nel ringraziamento, divenire eucaristici (cfr. Col 3,15), vivere nel rendimento di grazie.

     Tutti guariti, uno solo salvato. Questa la situazione dei dieci lebbrosi che Gesù ha incontrato. Nella rivelazione biblica ed evangelica guarigione e salvezza sono spesso associati e la salvezza appare significata e anticipata dalla guarigione. Oggi, di fronte alla svalutazione culturale di una salvezza oltremondana, il rapporto salvezza-guarigione viene capovolto e la salvezza è declinata come dilatazione del sé qui e ora, guarigione di tutti gli aspetti fisici e psichici dell’esistenza per poter vivere una vita «espansa», «piena». Ma la riscoperta della dimensione terapeutica della fede non può scadere in asservimento dello spirituale ai bisogni dell’individuo e non può dimenticare la dimensione tragica dell’esistenza, il non-guarito, il malato fin dalla nascita, la sofferenza innocente, il male che non passa. Non può dimenticare la croce di Cristo.

 

Preghiere e racconti 

Un giorno San Francesco…

Un giorno mentre il giovane Francesco andava a cavallo per la pianura che si stende ai piedi di Assisi, si imbatté in un lebbroso. Quell’incontro inaspettato lo riempì di orrore, ma ripensando al proposito di perfezione, già concepito nella sua mente, e riflettendo che, se voleva diventare cavaliere di Cristo, doveva prima di tutto vincere se stesso, scese da cavallo e corse ad abbracciare il lebbroso e, mentre questo stendeva la mano come per ricevere l’elemosina, gli porse del denaro e lo baciò.

(Dalla Leggenda Maggiore).

I Samaritani e i lebbrosi

Oggi, non bisogna forse chiedersi chi sono coloro che abbiamo trasformato in samaritani e in lebbrosi? Nel nostro mondo lacerato, ma anche fra i nostri vicini, fra i nostri compagni di lavoro, forse nella nostra stessa famiglia? La domanda è urgente: si tratta di rispettare e di accogliere tutti gli uomini, si tratta di rispettare e di accogliere Dio.

(G. Bessière, Il fuoco che rinfresca)

I dieci lebbrosi

I dieci lebbrosi se ne vanno al calar del sole

tutti guariti, mostrandosi la pelle sana

liberati dall’immonda raganella

che faceva il deserto all’ingresso dei villaggi.

Uno solo si gira, inquieto di camminare

fra due ombre: una dietro di lui

come i nove compagni e l’altra

leggera, davanti a lui, già calante

come se il suo dorso restasse rischiarato

dall’oriente, lo sguardo intravisto

che li ha mandati pieni di speranza ai sacerdoti

la Vita che si dona, dimenticata dalla vita

che segue e ricomincia. Dov’era il miracolo

prima del miracolo? Sono partiti così in fretta.

Gli altri nove sono lontano. Allora, lui decide

di risalire il fiume della strada.

(J.P. Lemaire, La rotta)

Grazie!

L’immagine che mai dimenticherò è la serie di donne che alle 6 del mattino trovo ad attendermi fuori della porta della mia stanza. Nessuna parla, nessuna mi guarda negli occhi. Con i loro bambini rachitici e senza più latte, sono lì ad aspettare. Se non dessi niente, se ne andrebbero via senza una parola. Nessuna chiede, è scontato il perché del loro essere lì. Devo capire e, se posso, aiutare! Una mamma mi mette in braccio il suo bambino dicendo che non vuole vederlo morire.

Con il raccolto di fine agosto la grande paura passa e la vita pian piano riprende normalmente.

Tutte, e sottolineo tutte, le donne che abbiamo aiutato sono tornate con un dono: chi una gallina, chi un gallo, chi un’anatra… Così la missione ha avuto finalmente il suo pollaio.

La sera, passeggiando in giro per la missione, rifletto sulla giornata trascorsa, mi fermo, guardo i polli, ripenso ai poveri di Fianga, ai poveri del mondo, che ogni giorno, in silenzio, tra le lacrime ma con grande dignità, sanno magistralmente dire grazie alla Vita!

(Saverio Fassina, in Piccole storie d’Africa. Da Fianga, nel Ciad).

Dire grazie

Tenerezza è dire grazie con la vita: e ringraziare è gioia perché è umile riconoscimento dell’essere amati.

(B. Forte)

Gesù l’ha denunciato

Gesù ha denunciato l’uomo che non ringrazia. Nel Vangelo di Luca (17,11) quando vide che dei dieci lebbrosi guariti ne era tornato uno solo a dire grazie, esclamò: “Non sono stati guariti tutti e dieci? E gli altri nove dove sono?”.

“E gli altri nove dove sono?”. È pesante questa denuncia di Cristo. La percentuale di chi pensa e ringrazia sarà sempre così ridotta? L’uomo è proprio inguaribile nel suo egoismo? Abbiamo addosso la lebbra dell’ingratitudine.

Il Signore aspetta il nostro ringraziamento come logica dei fatti; se abbiamo ricevuto da Dio è logico che lo riconosciamo, se lo riconosciamo è logico che ci apriamo alla gratitudine. Il Signore non ha dato ai nove lebbrosi guariti un ordine, ma si attendeva che i nove guariti dessero un ordine a se stessi.

La gratitudine è la logica dell’intelligenza e del cuore retto. Chi capisce e ha il cuore retto non può fare a meno di ringraziare. Per questo non esiste un comando specifico per il ringraziamento, perché il comandamento deve partire dall’uomo; avrebbe senso la riconoscenza imposta?

“E gli altri nove dove sono?”. In quei nove ci siamo tutti, perché sono innumerevoli le nostre negligenze verso la bontà di Dio. Purtroppo in quei nove siamo presenti tutti, perché tutti siamo colpevoli di ingratitudine a Dio. L’uomo non riuscirà mai a stare al passo coi doni di Dio. I benefici di Dio sono più numerosi dell’arena del mare, sono innumerevoli come le gocce d’acqua dell’oceano.

Ma l’uomo deve almeno aprirsi al problema! Non lo risolverà, ma deve almeno capire che c’è!

“E gli altri nove dove sono?”. La denuncia amara di Cristo deve spingermi a rappresentare gli assenti. Quando avremo capito e saremo guariti dalla lebbra dell’ingratitudine, dovremo presentarci a Dio anche per i nostri fratelli che non capiranno mai e rappresentarli: “Signore, perdonali, perché non sanno quello che fanno; io sono qui a ringraziare anche per loro, dammi la capacità di poterli rappresentare sostituendomi ad essi…”.

(A. GASPARINO, Maestro insegnaci a pregare, Leumann (Torino), Elle Di Ci, 1993, 45-46).

Dire “grazie”

«”Grazie” è una parola di poche lettere, ma di molto peso: ingentilisce la terra e la profuma. Ringraziare è un verbo da ricuperare» (Pino Pellegrino). La fede dei lebbrosi del Vangelo è sufficiente per ottenere il miracolo della guarigione. Ma questo deve aumentarla. La fede del Samaritano è nuova e più profonda. Gli altri hanno ottenuto la guarigione, lui una fede accresciuta e approfondita che ottiene la salvezza. Questa fede è in qualche modo risposta alla domanda dei discepoli: «Accresci in noi la fede!» (Lc 17,6; cf 27ª domenica). Come, dunque, chi è tornato indietro per rendere gloria a Dio e per benedirlo è stato veramente salvato, ha riconosciuto che in Gesù è Dio che agisce e salva; così solo chi è capace di «Eucaristia» (bene-dizione, rendimento di grazie), culmine e fonte di tutta l’attività della Chiesa, ha la «salvezza»: superamento del caos e accesso alla casa del senso. Il Samaritano guarito insegna a dire grazie. Niente ci è dovuto nel nostro rapporto con Dio. Come anche nel rapporto con i fratelli. «Tutto è grazia», dice Bernanos. E se tutto è grazia, solo chi sa dire «grazie» ha capito il suo posto e la sua strada. Nei nostri rapporti pensiamo sovente che tutto ci sia dovuto e facciamo fatica a dire «grazie», a utilizzare questa piccola forma di cortesia. «Il segreto del vivere spirituale è nella facoltà di lodare. La lode è il racconto dell’amore e precede la fede. Prima cantiamo e poi crediamo» (A.J. Heschel). Per chi legge il Vangelo non c’è niente di più impegnativo che dire «grazie». Dal profondo del cuore. È fare «Eucaristia». La lode è pura gratuità per il dono dell’esistenza. L’uomo è così restituito alla sua vocazione: «Misericordias Domini in aeternum cantabo!». «La riconoscenza – afferma un proverbio africano – è la memoria di cuore». È la capacità di ricordare e, pertanto, di amare.

Grazie, Signore 

Signore, ti ringrazio perché mi hai messo al mondo:

aiutami perché la mia vita

possa impegnarla per dare gloria a te e ai miei fratelli.

Ti ringrazio per avermi concesso questo privilegio:

perché tra gli operai scelti, tu hai preso proprio me.

Mi hai chiamato per nome

perché io collabori con la tua opera di salvezza.

Grazie perché il mio letto di dolore è fontana di carità,

è sorgente di amore.

Di amore per te, anche di amore per tutti i fratelli.

Signore, io seguo te più da vicino, in modo più stretto.

Voglio vivere in un legame più forte

per poter essere più pronto a darti una mano,

più agile perché i miei piedi che annunciano la pace sui monti

possano essere salutati da chi sta a valle.

Concedimi il gaudio di lavorare in comunione

e inondami di tristezza ogni volta che, isolandomi dagli altri,

pretendo di fare la mia corsa da solo.

Salvami, Signore, dalla presunzione di sapere tutto.

Dall’arroganza di chi non ammette dubbi.

Dalla durezza di chi non tollera i ritardi.

Dal rigore di chi non perdona le debolezze.

Dall’ipocrisia di chi salva i principi e uccide le persone.

Toccami il cuore e rendimi trasparente la vita,

perché le parole, quando veicolano la tua,

non suonino false sulle mie labbra.

(Don Tonino Bello)

Ascolta il tuo cuore

In quegli anni di sbandamento e di assenza di domicilio, ripresi a frequentare mia nonna. O meglio, fu lei, compresa finalmente la situazione, a venirmi incontro, cercando di stabilire un rapporto. Di relazioni affettive, però, ormai non volevo più sentir parlare, dunque dovette impegnarsi a fondo per riuscire ad aprire una breccia nel muro invalicabile che mi circondava. […] Eppure piano piano, giorno dopo giorno, con l’abilità di un cesellatore, riuscì a creare uno spiraglio per giungere al mio cuore.

Spesso mi sono chiesta come sia stato possibile per lei compiere questo miracolo, penso che nessun altro ci sarebbe riuscito. Non credo che il sangue e la parentela l’abbiano influenzata, così come lo spirito di maternità – vale a dire il sapersi prendere naturalmente cura dell’altro – che non le era mai veramente appartenuto. Mi confessò, infatti, di aver messo al mondo i suoi figli soltanto per consuetudine e non per una vera aspirazione.

Penso che quello che, alla fine, ci ha unite, sia stata la comune esigenza di raggiungere la verità nei rapporti. […] Aborriva come me il moralismo e, come me, detestava l’obbligo di volersi bene per pura convenzione. Non era la parentela a rendere necessario un rapporto, ma qualcosa di più profondo. Camminare verso la verità, nella verità. E camminare in quella direzione voleva dire una sola cosa: cancellare, giorno dopo giorno, la menzogna, la noia perpetua e falsificante dell’ovvietà delle parole già dette, dei pensieri già pensati. Voleva dire anche non avere alcun timore di entrare in una dimensione più profonda, quella dell’amore che niente pretende, niente separa, cieco davanti ogni forma di giudizio.

Alla nostra mente così piccola, così sempre desiderosa di distinguo, di separazioni, di cassetti ordinati in cui mettere le cose, di recinti in cui rinchiudere le persone, questo tipo di amore fa una paura tremenda perché, in qualche modo, si trasforma in una kenosis, in un vuoto.

Ma, a differenza del nulla a cui, fin dalla più tenera età, ero stata ammaestrata da mio padre – un nulla deserto, brullo, sterile, in cui l’unica forma di movimento era quello di qualche rotolo di spine o di qualche barattolo trascinato dal vento – il nulla propostomi da mia nonna, l’annullamento che veniva da Auschwitz e che, attraverso il suo corpo e le sue parole, era giunto fino a me, conteneva in sé il principio perpetuamente rigenerante della redenzione.

A questo principio ho dedicato le ultime righe di Và dove ti porta il cuore. “Stai ferma in silenzio e ascolta il tuo cuore…”

 

(Susanna TAMARO, Ogni angelo è tremendo, Bompiani, Milano, 2013, 199-201)

La sofferenza come maestra

Un giorno, un medico che ha lavorato per molti anni in un lebbrosario ha esclamato: “Sia ringraziato Iddio per il dolore!”, poiché il motivo per cui i lebbrosi perdono le dita, gli arti e persino gli elementi che compongono il volto non è la malattia di Hansen (la lebbra), bensì l’assenza di sensibilità, l’intorpidimento, l’incapacità di provare dolore. Un lebbroso può facilmente scavarsi la carne delle dita girando una chiave in una serratura che offre resistenza, senza accorgersi che si sta tagliando; può non accorgersi che un’infezione sta invadendo la sua carne straziata finché non gli cadono le dita. Non ha alcuna sensazione, né prova dolori che lo avvertono. Un lebbroso potrebbe tenere in mano il manico bollente di una pentola posta sul fuoco, senza accorgersi che si sta bruciando la mano, poiché non ha né sensibilità né dolori che lo rendono cosciente del pericolo. Perciò sia ringraziato Iddio per il fatto di avere sensazioni e dolori, dal momento che, spesso, ci avvertono della presenza di un pericolo e di un male.

Allo stesso modo, talvolta i vari disagi di cui facciamo esperienza ci mettono in guardia contro i nostri atteggiamenti distorti e paralizzanti. Resta il fatto che possiamo imparare le lezioni del dolore solo quando l’allievo è pronto. E Ciò significa che dobbiamo essere disposti a calarci nel nostro dolore, per cercare di trarne la lezione; significa che dobbiamo reprimere l’istinto che ci spinge a fuggirlo; significa che dobbiamo rifiutare qualsiasi inclinazione a intorpidirci nell’insensibilità pur di non sentire nulla. 

(J. POWELL, Perché ho paura di essere pienamente me stesso, Milano, Gribaudi, 2002, 148).

Dovremmo continuamente, incessantemente ringraziare

Noi riceviamo dalla grazia di Dio molti e svariati doni; in cambio di ciò che abbiamo ricevuto dobbiamo rendere grazie con la preghiera a chi ce li ha donati. Penso che anche se trascorressimo la nostra vita intera nel colloquio con Dio ringraziandolo e pregandolo, saremmo ancora lontani dal contraccambiarlo adeguatamente; ci troveremmo, in un certo senso, a non aver neppure cominciato a concepire il desiderio di ringraziarlo. Il tempo si divide in tre parti: passato, presente e futuro. In tutti e tre noi sperimentiamo la benevolenza del Signore. Se pensi al presente, sei in vita grazie al Signore. Se pensi al futuro, su di lui riposa la speranza di ciò che attendi. Se guardi al passato, non saresti in vita, se il Signore non ti avesse creato. Ti ha fatto il dono di ricevere vita da lui, e, una volta nato, ti è fatto il dono di avere in lui la vita e il movimento, come dice l’apostolo (cfr. At 17,28). Da questo stesso dono dipendono le tue speranze future. Nelle tue mani è soltanto il presente. Anche se tu non smettessi mai di ringraziare Dio, a stento potresti ringraziare per il tempo presente, ma non potresti mai rendere ciò che devi per il futuro o per il passato. Siamo ben lontani, del resto, dal rendere grazie secondo le nostre capacità! Non facciamo il possibile per ringraziare, non dico tutto il giorno, ma neppure una piccola parte del giorno, dedicandola a meditare le opere divine. Chi ha dispiegato la terra ai miei piedi? […] Chi ha dato a me, polvere senz’anima, vita e intelligenza? Chi ha plasmato me, che sono argilla a immagine di Dio? Chi ha restituito alla mia immagine alterata dal peccato il suo primitivo splendore? Chi riconduce alla primitiva beatitudine me che sono stato cacciato dal paradiso, allontanato dall’albero di vita, immerso nell’abisso dell’esistenza terrena? Non vi è chi comprenda (cfr. Rm 3,11), dice la Scrittura. Considerando queste cose, dovremmo continuamente, incessantemente ringraziare per tutta la nostra vita.

(GREGORIO DI NISSA, Sul Padre nostro 1, PG 44, 1124C-1125C).

Insegnaci a non amare solo noi stessi

Insegnaci, Signore, a non amare solo noi stessi, a non amare soltanto i nostri cari, a non amare soltanto quelli che ci amano. Insegnaci a pensare agli altri, ad amare anzitutto quelli che nessuno ama. Concedici la grazia di capire che in ogni istante, mentre noi viviamo una vita troppo felice e protetta da te, ci sono milioni di esseri umani, che pure sono tuoi figli e nostri fratelli, che muoiono di fame senza aver meritato di morire di fame, che muoiono di freddo senza aver meritato di morire di freddo. Signore abbi pietà di tutti i poveri del mondo; e non permettere più, o Signore, che viviamo felici da soli. Facci sentire l’angoscia della miseria universale e liberaci dal nostro egoismo.

(Raoul Follereau)

 

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

COMUNITÀ DI S. EGIDIO, La Parola e la storia, Milano, Vita e Pensiero, 2012.

COMUNITÀ MONASTICA SS. TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade, Milano, Vita e Pensiero, 2008-2009.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2011.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù, Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

 

Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi.

 

 PER L’APPROFONDIMENTO:

XXVIII DOM TEMP ORD (C)