CORPO E SANGUE DI CRISTO

Prima lettura: Genesi 14,18-20

 

In quei giorni, Melchìsedek, re di Salem, offrì pane e vino: era sacerdote del Dio altissimo e benedisse Abram con queste parole: «Sia benedetto Abram dal Dio altissimo, creatore del cielo e della terra, e benedetto sia il Dio altissimo, che ti ha messo in mano i tuoi nemici». E [Abramo] diede a lui la decima di tutto. 

 

Il tema della benedizione ritorna nel brano della Genesi. A pronunciarla è il re di Salem, di cui non conosciamo altro che il nome, Melchisedek. Egli, dice il testo «offrì pane e vino: era sacerdote del Dio altissimo e benedisse Abram con queste parole». Abramo era appena ritornato secondo il racconto di Gn 14, dalla vittoria contro i quattro re che avevano in precedenza sconfitto le città del mar Morto e catturato suo nipote Lot. Il re Melchisedek, che come era allora frequente consuetudine ricopriva pure a carica sacerdotale, portò come ristoro ai vincitori, alla cui testa era Abramo, pane e vino. Le parole di benedizione rivolte ad Abramo suonano dunque come un riconoscimento del suo ruolo nell’aver liberato il campo da pericolosi nemici. Ciò che ci riguarda maggiormente, però, è lo schema della benedizione. Da una parte c’è Dio che benedice, in quanto egli è creatore del mondo, ossia fa essere le cose che esistono; questa è la benedizione costitutiva o discendente. Dall’altra c’è

la benedizione e la lode che l’uomo eleva a Dio, detta dichiarativa o ascendente, perché  chi ha riconosciuto di essere stato beneficato da Dio, lo ringrazia. Quindi Abramo, considerando Melchisedek superiore a sé e intendendo manifestare la propria gratitudine nei confronti di Dio cede la decima a questo re. 

L’inserimento di questo brano nella liturgia del Corpus Domini si può giustificare solo a partire dall’interpretazione che ne hanno fatto i Padri della Chiesa, sulla scia di ciò che era trapelato nel Nuovo Testamento. Infatti diversi dei Padri hanno inteso l’offerta del pane e del vino come una prefigurazione dell’Eucaristia e Melchisedek, che ci viene presentato «senza padre, senza madre, senza genealogia, senza principio di giorni né fine di vita» (Eb 7,3), quindi eterno, come la prefigurazione del sacerdozio messianico, superiore a quello di Aronne.

 

Seconda lettura: 1Corinzi 11,23-26

Fratelli, io ho ricevuto dal Signore quello che a mia volta vi ho trasmesso: il Signore Gesù, nella notte in cui veniva tradito, prese del pane e, dopo aver reso grazie, lo spezzò e disse: «Questo è il mio corpo, che è per voi; fate questo in memoria di me».
Allo stesso modo, dopo aver cenato, prese anche il calice, dicendo: «Questo calice è la Nuova Alleanza nel mio sangue; fate questo, ogni volta che ne bevete, in memoria di me». Ogni volta infatti che mangiate questo pane e bevete al calice, voi annunciate la morte del Signore, finché egli venga.
       

 

Ma è il brano della prima lettera ai Corinzi che, in modo inequivocabile, ci riallaccia con la viva tradizione delle comunità dell’epoca apostolica. L’apostolo Paolo così introduce l’argomento: «Io, infatti, ho ricevuto dal Signore quello che a mia volta vi ho trasmesso». E questa trasmissione viene espressa con il significativo verbo paradidomi, da cui viene anche

l’idea di paradosis, ossia di una vera e propria consegna effettuata da una generazione a un altra, o da una persona a un’altra, in questo caso autorevolissima come il Signore. Paolo, dunque, è conscio di comunicare non qualcosa di suo, bensì qualcosa che appartiene al grande «patrimonio» che Gesù stesso ha lasciato ai suoi discepoli. Il problema posto riguarda perciò la sostanza di quel «vangelo che vi ho annunziato e che voi avete ricevuto, nel quale restate saldi, e dal quale anche ricevete la salvezza se lo mantenete m quella forma in cui ve l’ho annunziato» (1Cor 15,1).

     Di conseguenza, la fedeltà alla «tradizione» si fonde con la fedeltà alla «comunione». Nell’Eucaristia raccontata da Paolo si riprendono tutti gli specifici motivi fondamentali, a partire dal contesto, che è quello della cena precedente la passione e morte di Gesù. Vi viene rievocato il momento amaro del tradimento con lo stesso verbo paradidomi, quasi a voler intendere che la «consegna» di fare il memoriale dell’Eucaristia passa attraverso l’inevitabile «consegna» alla morte. Si prosegue con l’atto del prendere il pane, gesto familiare, da capofamiglia, che prelude al ringraziare (eucharistesas), cioè al benedire il datore di ogni dono, il Padre. Il pane, poi, viene spezzato per essere condiviso, per essere fonte di solidarietà e comunione. Infine, vengono riferite le parole che spiegano i gesti. «Questo è il mio corpo, che è per voi; fate questo in memoria di me». Anche riguardo al calice del vino le parole ne illuminano il senso: «Questo calice è la Nuova Alleanza nel mio sangue; fate questo, ogni volta che ne bevete, in memoria di me». Troppo difficile è il compito di commentare tali parole: c’è il senso dell’offerta, del sacrificio di colui che si fa «spezzare» la carne e «versare» il sangue per l’umanità che ama, inclusa quell’umanità che si sta preparando a consegnarlo alla morte; c’è il senso dell’alleanza del ricucire uno strappo che si sarebbe sempre più approfondito senza l’iniziativa divina di andare incontro all’umanità; c’è il senso del dover costantemente «far memoria» di tutto ciò, perché siamo stati comprati a caro prezzo (cf. 1Cor 6,20). Il mistero eucaristico si trasforma allora in una ricapitolazione della storia, nella quale viene riproposta in continuazione l’alleanza d’amore di Dio, in vista dell’evento finale, la venuta ultima di Gesù Cristo.

 

Vangelo: Luca 9,11-17 

In quel tempo, Gesù prese a parlare alle folle del regno di Dio e a guarire quanti avevano bisogno di cure. Il giorno cominciava a declinare e i Dodici gli si avvicinarono dicendo: «Congeda la folla perché vada nei villaggi e nelle campagne dei dintorni, per alloggiare e trovare cibo: qui siamo in una zona deserta». Gesù disse loro: «Voi stessi date loro da mangiare». Ma essi risposero: «Non abbiamo che cinque pani e due pesci, a meno che non andiamo noi a comprare viveri per tutta questa gente». C’erano infatti circa cinquemila uomini. Egli disse ai suoi discepoli: «Fateli sedere a gruppi di cinquanta circa». Fecero così e li fecero sedere tutti quanti. Egli prese i cinque pani e i due pesci, alzò gli occhi al cielo, recitò su di essi la benedizione, li spezzò e li dava ai discepoli perché li distribuissero alla folla. Tutti mangiarono a sazietà e furono portati via i pezzi loro avanzati: dodici ceste.

 

 

Esegesi

     La pericope evangelica proposta dalla liturgia ci presenta subito un Gesù impegnato nella predicazione e nelle guarigioni. Non è facile entrare nel clima del brano se non diamo uno sguardo al contesto in cui è inserito. Infatti la moltiplicazione dei pani si trova quasi alla fine del periodo di attività in Galilea, quando Gesù stava maturando la decisione

di dirigersi verso la capitale, Gerusalemme: «Mentre si compivano i giorni della sua ascensione, indurì la faccia di dirigersi a Gerusalemme» (Lc 9,51). Il senso letterale del versetto ci rende bene la ferma determinazione di Gesù, «perché non è possibile che un profeta muoia fuori di Gerusalemme» (Lc 13,33). Quasi a volersi congedare dalla Galilea, egli inviò i Dodici ad annunziare il regno di Dio e a guarire gli infermi, assegnando loro persino il potere di scacciare i demoni (9,1-2). Al loro ritorno, gli apostoli riferirono in dettaglio a Gesù ciò che avevano operato durante la missione. Egli «allora li prese con sé e si ritirò verso una città chiamata Betsaida» (9,10), perché essi avevano bisogno di riposare. Ma furono intercettati dalla folla, che costrinse Gesù a cambiare programma e a trascurare gli stanchi missionari. E quindi fu direttamente lui che si occupò di parlare del regno di Dio e di guarire quanti avevano bisogno di cure (9,11), come se la folla, dopo aver ascoltato gli apostoli desiderasse andare alla fonte dell’annuncio.

     In verità, l’annuncio del regno di Dio era stata la preoccupazione di Gesù fin dal primo momento. E anche la folla, fin dal principio, lo seguiva senza stancarsi e dargli un attimo di respiro. In 4,42-44 mentre cercava un luogo isolato, venne raggiunto dalla folla che non voleva lasciarlo andare via. Ma egli evitò di fermarsi, perché il regno doveva essere annunziato anche ad altre città. In 8,1, dopo aver perdonato la donna peccatrice e aver insegnato la misericordia al fariseo Simone, ritornò alla sua consueta attività di predicazione del regno e in 8,10 si dedicò a istruire in modo più particolareggiato gli apostoli. Infine al capitolo 9 associò gli apostoli all’opera di evangelizzazione, mai disgiunta dalla realizzazione dei segni delle guarigioni e degli esorcismi. Riguardo alla folla, poi, in 5,1 si dice addirittura che «la folla gli faceva ressa intorno per ascoltare la parola di Dio»; in 6,17-19 si parla di gente che veniva ad ascoltarlo e a essere guarita, o anche solo a toccarlo, proveniente non solo dalla Galilea e dalla Giudea, ma persino da Tiro e Sidone, città pagane della Fenicia; in 8,4, la parabola del seminatore viene raccontata «poiché una gran folla si radunava e accorreva a lui gente da ogni città»; in 8,40, infine, troviamo persino che «al suo ritorno, Gesù fu accolto dalla folla, poiché tutti erano in attesa di lui».

     Gesù quindi si mostrava molto disponibile nei confronti della folla, comprendendo benissimo il bisogno che essa aveva di parola di Dio e di sollievo dalla sofferenza. Ma tale disponibilità si dimostrò davvero eccezionale in questo caso della moltiplicazione dei pani e dei pesci. Al v. 12 comincia un dialogo: gli apostoli, poiché stava tramontando, invitarono Gesù a congedare gli astanti per permettere a ciascuno di loro di procurarsi del cibo, in quanto il luogo in cui si trovavano era solitario. Essi non si sarebbero mai aspettati la risposta di Gesù: «Voi stessi date loro da mangiare» (9,13). Erano cinquemila uomini e nel passo parallelo del Vangelo di Giovanni l’apostolo Filippo fa una stima approssimativa della cifra necessaria a comprare pane per tutti: «Duecento denari di pane non sono sufficienti neppure perché ognuno possa ricevere un pezzo» (Gv 6,7); a disposizione c’erano soltanto cinque pani e due pesci e l’eventuale spesa da affrontare era quindi insostenibile.

     Qui emerge un dato molto importante: gli apostoli, che erano stati protagonisti della missione con i compiti onorevoli di predicare, guarire e cacciare i demoni, vennero coinvolti nel servizio umile di dar da mangiare a quella folla. Gesù — dice il Vangelo — «prese i cinque pani e i due pesci, alzò gli occhi al cielo, recitò su di essi la benedizione, li spezzò e li dava ai discepoli perché li distribuissero alla folla» (9,16). Il nutrimento passa quindi attraverso le mani dei discepoli, che davvero offrono da mangiare a quella moltitudine, forse senza nemmeno rendersi conto del tutto della “straordinarietà” del fatto. Lungi dal pretendere di spiegare o razionalizzare il segno — ipotizzando che ognuno aveva delle provviste e che le condivide con gli altri, per cui il vero “miracolo” sarebbe la condivisione — occorre prendere sul serio il racconto evangelico e ammettere che Gesù abbia realmente potuto moltiplicare il poco cibo disponibile.

     Se conosciamo bene Gesù, non ci meraviglia che abbia avuto compassione di quella folla affamata, dopo che per un giorno intero aveva seguito i suoi insegnamenti e aveva assistito ai suoi segni. Infatti, l’evangelista Luca ci presenta un’immagine di Gesù sinceramente sollecito delle necessità della gente, fossero anche quelle corporali. Ma il testo ci suggerisce un’altra traccia ancora: le azioni descritte in 9,16 sono le stesse che Gesù compie in 22,19, nell’istituzione dell’Eucaristia, e in 24,30, durante la cena di Emmaus. Il Vangelo di Luca, però, ci stimola a non ritenere la moltiplicazione dei pani e dei pesci un miracolo che solo Gesù poteva realizzare. Il coinvolgimento degli apostoli è infatti senz’altro significativo, in relazione al fatto che il regno di Dio dev’essere servito con la predicazione, con i segni, ma anche con l’umile servizio del distribuire quel pane necessario a vivere e a rinvigorire le membra; il pane che può dare all’uomo l’opportunità di alzare i propri occhi al cielo e benedire il Padre; il pane che dev’essere gustato con gioia nella fraternità e semplicità; il pane, che crea compagnia e comunione in questo pellegrinaggio terrestre. Perciò in questa maniera il pane delle nostre tavole può acquistare un significato più pregnante che quello di semplice alimento e, di conseguenza, il pane eucaristico può essere considerato sempre più per quello che è: pane-corpo di Cristo, offerto per ringraziamento e benedizione.

 

L’immagine della domenica

 

Il Dio nell’ostensorio

Cantavano le donne lungo il muro inchiodato

quando ti vidi, Dio forte, vivo nel Sacramento,

palpitante e nudo come un bambino che corre

inseguito da sette torelli capitali.

Vivo eri, Dio mio, nell’ostensorio.

Trafitto dal tuo Padre con ago di fuoco.

O Forma consacrata, vertice dei fiori,

dove tutti gli angoli prendono luci fisse,

dove numero e bocca costruiscono un presente

corpo di luce umana con muscoli di farina!

O Forma limitata per esprimere concreta

moltitudine di luci e clamore ascoltato!

O neve circondata da timpani di musica!

O fiamma crepitante sopra tutte le vene!

(F. García Lorca)

 

 Meditazione 

     La festa del Corpus Domini, che la Chiesa colloca immediatamente dopo il tempo pasquale, ci fa riandare a quel mistero eucaristico la cui memoria è già stata celebrata con particolare solennità il giorno del Giovedì santo. La celebrazione odierna assume dunque i caratteri di una ulteriore ‘meditazione’, quasi una sosta contemplativa intorno al mistero centrale della fede cristiana, un mistero che è al cuore stesso della vita della Chiesa. È in questa direzione che sembra orientarci l’orazione iniziale: «Signore Gesù Cristo, che nel mirabile sacramento dell’Eucaristia ci hai lasciato il memoriale della tua Pasqua, fa’ che adoriamo con viva fede il santo mistero del tuo Corpo e del tuo Sangue…». Se il corpo e il sangue del Signore si offrono a noi anzitutto come cibo e bevanda di vita, essi sono anche un mistero da ‘adorare’; cioè da circondare di tutta la venerazione e la riconoscenza, lo stupore e l’amore che esso richiede. Nella consapevolezza che tale dono eccede sempre la nostra capacità di recezione e le nostre possibilità di comprensione.

     È significativo che al centro di questa festa troviamo una realtà così umana, così concreta, così ‘materiale’ oseremmo dire, come quella del «corpo e sangue». Corpo e sangue che dicono tutto il mistero dell’incarnazione, tutta l’umanità nostra, debole e fragile, assunta pienamente dal Signore Gesù. Corpo e sangue assunti e donati fino all’ultimo «per noi uomini e per la nostra salvezza», come recita il Credo. L’apostolo Paolo, raccontando l’istituzione dell’eucaristia nella notte della cena pasquale (seconda lettura), ce lo ricorda in modo esplicito: «Il Signore Gesù… prese del pane… e disse: “Questo è il mio corpo, che è per voi..”. Allo stesso modo… prese anche il calice…» (1Cor 11,23-25).

     La prima lettura pone l’accento sull’offerta del pane e del vino da parte di Melchìsedek, singolare figura di sacerdote che fa la sua improvvisa comparsa all’interno delle vicende del patriarca Abramo. Partendo dalla lettura che ne fa la Lettera agli Ebrei (soprattutto nel cap. 7), la Chiesa ha sempre considerato questo episodio una prefigurazione dell’eucaristia. «Pane e vino» sono doni che rimandano, in ultima istanza, a uno dei bisogni primari e vitali dell’uomo: il soddisfacimento della sua fame. Sappiamo che l’uomo è essenzialmente un essere che ha fame, e non solo di cibo. La sua fame va ben al di là del pezzo di pane che può momentaneamente e parzialmente colmarla. Essa abita nel profondo del suo cuore come desiderio, conscio o inconscio, di qualcosa che può venire da Dio solo. Come afferma Benedetto XVI nel suo Messaggio per la Quaresima 2010. «Come e più del pane, egli ha infatti bisogno di Dio». È Dio che nutre l’uomo, anzi è Dio stesso che si fa suo nutrimento in quel pane e in quel vino che riceviamo ogni giorno dalle sue mani come «cibo di vita eterna» e «bevanda di salvezza» (rito di offertorio della liturgia eucaristica).

     Il racconto della moltiplicazione dei pani nella versione dell’evangelista Luca (vangelo) ci parla del mirabile e inatteso nutrimento di una folla affamata che, desiderosa di ascoltare Gesù e farsi curare dalle proprie malattie (v. 11 ), lo segue fin nel bel mezzo di un deserto. Al di là del prodigio in sé, ciò che attira la nostra attenzione – soprattutto se leggiamo l’episodio nel contesto della festa liturgica odierna – è il modo con cui si conclude la narrazione: «Tutti mangiarono a sazietà…» (v. 17). È questa sensazione di sazietà che rimane nelle nostre orecchie (e un po’ anche nel nostro corpo) dopo aver ascoltato questa parola. Una fame saziata: ecco cosa ci vuol comunicare il racconto. Già dai tempi della Prima Alleanza il Signore aveva promesso di saziare la fame del suo popolo – unica condizione richiesta: spalancare la propria bocca! -: «Sono io il Signore, tuo Dio, che ti ha fatto salire dal paese d’Egitto: apri la tua bocca, la voglio riempire» (Sal 80/81,11). L’antifona d’ingresso della presente celebrazione riprende le parole conclusive dello stesso salmo: «Il Signore ha nutrito il suo popolo con fior di frumento, lo ha saziato con miele della roccia» (Sal 80/81,17). Dio non ha altra volontà che saziare la nostra fame. Possiamo dire che è il suo grande desiderio. A patto però di intendere bene cosa sono quel «fior di frumento» e quel «miele della roccia»…

     In un altro deserto (o forse lo stesso?) Gesù si era rifiutato di trarre pane dalla pietra, come subdolamente gli suggeriva il tentatore (cfr. Lc 4,3). Perché ora dunque compie (moltiplicando un pugno di pani e pesci là dove – essendo deserto – non poteva trovare che pietre) ciò che un tempo aveva categoricamente negato di fare? Al diavolo aveva risposto: «Non di solo pane vivrà l’uomo» (Lc 4,4), ora però non ricusa di donare – e in modo sovrabbondante – anche quell’umile pane a una moltitudine di gente stanca e affamata. Egli sa che l’uomo ha bisogno anche di pane per vivere, purché quel pane sia ricevuto come segno di un’accoglienza amorosa («Le folle lo seguirono. Egli le accolse…»: v. 11) e diventi capace di dire tutta la logica di una vita data in dono («Voi stessi date loro da mangiare»: v. 13), come è stata la vita stessa di Gesù. Per questo il racconto della moltiplicazione dei pani (così come il racconto dell’ultima cena e quello della cena di Emmaus, dove si narra di un pane ‘spezzato’) è una grande e profonda rivelazione della persona di Gesù. Erode, poco prima, si era chiesto: «Chi è dunque costui?» (Lc 9,9) e Gesù, quasi riprendendo la domanda, risponde donando del pane, simbolo e prefigurazione di quel pane che si farà lui stesso cuocendo nel forno della croce, per diventare nostro cibo in ogni eucaristia.

     «Dacci oggi il nostro pane quotidiano», domandiamo nella preghiera del Padre nostro. Ciò di cui abbiamo bisogno ogni giorno per vivere lo chiediamo a Dio, consapevoli che solo ricevendolo dalle sue mani come dono gratuito esso può soddisfare la nostra più autentica fame di vita. Solo là dove desiderio di Dio e bisogno dell’uomo (bisogno vero, nell’ordine di ciò che più vale nella vita) si incontrano, può nascere un orizzonte nuovo dove trovano casa l’accoglienza grata dei doni ricevuti e la premurosa condivisione che quei doni portano inscritto nella loro stessa natura.

 

Preghiere e racconti

La festa del Corpus Domini

Il Vangelo ci propone il racconto del miracolo dei pani (Lc 9,11-17); vorrei soffermarmi su un aspetto che sempre mi colpisce e mi fa riflettere. Siamo sulla riva del lago di Galilea, la sera si avvicina; Gesù si preoccupa per la gente che da tante ore sta con Lui: sono migliaia, e hanno fame. Che fare? Anche i discepoli si pongono il problema, e dicono a Gesù: «Congeda la folla» perché vada nei villaggi vicini per trovare da mangiare. Gesù invece dice: «Voi stessi date loro da mangiare» (v. 13). I discepoli rimangono sconcertati, e rispondono: «Non abbiamo che cinque pani e due pesci», come dire: appena il necessario per noi.

Gesù sa bene che cosa fare, ma vuole coinvolgere i suoi discepoli, vuole educarli. Quello dei discepoli è l’atteggiamento umano, che cerca la soluzione più realistica, che non crei troppi problemi: Congeda la folla – dicono -, ciascuno si arrangi come può, del resto hai fatto già tanto per loro: hai predicato, hai guarito i malati… Congeda la folla!

L’atteggiamento di Gesù è nettamente diverso, ed è dettato dalla sua unione con il Padre e dalla compassione per la gente, quella pietà di Gesù verso tutti noi: Gesù sente i nostri problemi, sente le nostre debolezze, sente i nostri bisogni. Di fronte a quei cinque pani, Gesù pensa: ecco la provvidenza! Da questo poco, Dio può tirar fuori il necessario per tutti. Gesù si fida totalmente del Padre celeste, sa che a Lui tutto è possibile. Perciò dice ai discepoli di far sedere la gente a gruppi di cinquanta – non è casuale questo, perché questo significa che non sono più una folla, ma diventano comunità, nutrite dal pane di Dio. Poi prende quei pani e i pesci, alza gli occhi al cielo, recita la benedizione – è chiaro il riferimento all’Eucaristia –, poi li spezza e comincia a darli ai discepoli, e i discepoli li distribuiscono… e i pani e i pesci non finiscono, non finiscono! Ecco il miracolo: più che una moltiplicazione è una condivisione, animata dalla fede e dalla preghiera. Mangiarono tutti e ne avanzò: è il segno di Gesù, pane di Dio per l’umanità.

I discepoli videro, ma non colsero bene il messaggio. Furono presi, come la folla, dall’entusiasmo del successo. Ancora una volta seguirono la logica umana e non quella di Dio, che è quella del servizio, dell’amore, della fede. La festa del Corpus Domini ci chiede di convertirci alla fede nella Provvidenza, di saper condividere il poco che siamo e che abbiamo, e non chiuderci mai in noi stessi. Chiediamo alla nostra Madre Maria di aiutarci in questa conversione, per seguire veramente di più quel Gesù che adoriamo nell’Eucaristia. Così sia.

(PAPA FRANCESCO, Angelus, Piazza San Pietro, Domenica, 2 giugno 2013).

Il miracolo della moltiplicazione dei pani

Il miracolo della moltiplicazione dei pani accade laddove nel popolo di Dio si da ascolto alla Scrittura della quale Gesù ha fornito l’esegesi messianica e, quindi, laddove si rispetta la Scrittura e si obbedisce alla sua parola che trova espressione attuale nell’assemblea della comunità. Ciò significa: laddove si vive tutta la vita quotidiana all’insegna della volontà di Dio […].

Il miracolo della moltiplicazione dei pani accade laddove si celebra il banchetto messianico, al quale Gesù ha voluto invitare proprio tutti, i giusti e i peccatori, i sani e i malati, gli invitati della prima ora e quelli che se ne stanno a guardare, cioè laddove sia resa possibile, in continuazione, l’integrazione e l’unanimità di coloro che vogliono mettersi al servizio della costruzione del popolo di Dio. Ciò significa: laddove al convivium, cioè al banchetto dell’eucaristia, corrisponde di nuovo il convivere, cioè la convivenza dei credenti che precede e segue l’eucaristia e trova la sua sintesi festosa nella celebrazione di settimana in settimana, da una festa all’altra.

Il miracolo della moltiplicazione dei pani si compie laddove è vitale la fede che l’uomo non vive di solo pane ma, in primo luogo, della parola di Dio, della sua promessa e della volontà di Colui che si è creato un popolo da portare in una terra dove scorrono latte e miele. Ciò significa che il miracolo accade anche laddove i credenti osano dar prova della propria fede e metterla alla prova.

(R. PESCH, Il miracolo della moltiplicazione dei pani. C’è una soluzione per la fame nel mondo?, Brescia, 1997, 182ss.).

La prima comunione

Benedetto XVI presiede nel pomeriggio di sabato 15 ottobre 2005, in piazza San Pietro, lo speciale incontro di catechesi con i bambini di prima comunione, al quale partecipano oltre 150.000 persone tra fanciulli, genitori, catechisti e sacerdoti. Dopo la proclamazione della Liturgia della Parola, il Santo Padre risponde alle domande rivoltegli da sette bambini. Questi sono alcuni brani del testo del “dialogo” tra il Papa e i piccoli. 

Andrea: «Caro Papa, quale ricordo hai del giorno della tua prima comunione?».

Innanzitutto vorrei dire grazie per questa festa della fede che mi offrite, per la vostra presenza e la vostra gioia. Ringrazio e saluto per l’abbraccio che ho avuto da alcuni di voi, un abbraccio che simbolicamente vale per voi tutti, naturalmente. Quanto alla domanda, mi ricordo bene del giorno della mia prima comunione. Era una bella domenica di marzo del 1936, quindi 69 anni fa.

Era un giorno di sole, la chiesa molto bella, la musica, erano tante le belle cose delle quali mi ricordo. Eravamo una trentina di ragazzi e di ragazze del nostro piccolo paese, di non più di 500 abitanti.

Ma nel centro dei miei ricordi gioiosi e belli sta questo pensiero – la stessa cosa è già stata detta dal vostro portavoce – che ho capito che Gesù è entrato nel mio cuore, ha fatto visita proprio a me. E con Gesù Dio stesso è con me. E che questo è un dono di amore che realmente vale più di tutto il resto che può essere dato dalla vita; e così sono stato realmente pieno di una grande gioia perché Gesù era venuto da me. E ho capito che adesso cominciava una nuova tappa della mia vita, avevo 9 anni, e che adesso era importante rimanere fedele a questo incontro, a questa Comunione. Ho promesso al Signore, per quanto potevo: «Io vorrei essere sempre con te» e l’ho pregato: «Ma sii soprattutto tu con me». E così sono andato avanti nella mia vita. Grazie a Dio, il Signore mi ha sempre preso per la mano, mi ha guidato anche in situazioni difficili. E così questa gioia della prima comunione era un inizio di un cammino fatto insieme. Spero che, anche per tutti voi, la prima comunione che avete ricevuto in quest’Anno dell’Eucaristia sia l’inizio di un’amicizia per tutta la vita con Gesù. Inizio di un cammino insieme perché andando con Gesù andiamo bene e la vita diventa buona. 

Andrea: «La mia catechista, preparandomi al giorno della mia prima comunione, mi ha detto che Gesù è presente nell’Eucaristia. Ma come? Io non lo vedo!».

Sì, non lo vediamo, ma ci sono tante cose che non vediamo e che esistono e sono essenziali. Per esempio, non vediamo la nostra ragione, tuttavia abbiamo la ragione. Non vediamo la nostra intelligenza e l’abbiamo. Non vediamo, in una parola, la nostra anima e tuttavia esiste e ne vediamo gli effetti, perché possiamo parlare, pensare, decidere, ecc… Così pure non vediamo, per esempio, la corrente elettrica, e tuttavia vediamo che esiste, vediamo questo microfono come funziona; vediamo le luci. In una parola, proprio le cose più profonde, che sostengono realmente la vita e il mondo, non le vediamo, ma possiamo vedere, sentire gli effetti. L’elettricità, la corrente non le vediamo, ma la luce la vediamo. E così via. E così anche il Signore risorto non lo vediamo con i nostri occhi, ma vediamo che dove è Gesù, gli uomini cambiano, diventano migliori. Si crea una maggiore capacità di pace, di riconciliazione, ecc… Quindi, non vediamo il Signore stesso, ma vediamo gli effetti: così possiamo capire che Gesù è presente. Come ho detto, proprio le cose invisibili sono le più profonde e importanti. Andiamo dunque incontro a questo Signore invisibile, ma forte, che ci aiuta a vivere bene. 

Alessandro: «A cosa serve andare alla santa Messa e ricevere la comunione per la vita di tutti i giorni?».                

Serve per trovare il centro della vita. Noi la viviamo in mezzo a tante cose. E le persone che non vanno in chiesa non sanno che a loro manca proprio Gesù. Sentono però che manca qualcosa nella loro vita. Se Dio resta assente nella mia vita, se Gesù è assente dalla mia vita, mi manca una guida, mi manca un’amicizia essenziale, mi manca anche una gioia che è importante per la vita. La forza anche di crescere come uomo, di superare i miei vizi e di maturare umanamente. Quindi, non vediamo subito l’effetto dell’essere con Gesù quando andiamo alla comunione; lo si vede col tempo. Come anche, nel corso delle settimane, degli anni, si sente sempre più l’assenza di Dio, l’assenza di Gesù. È una lacuna fondamentale e distruttiva. Potrei adesso facilmente parlare dei Paesi dove l’ateismo ha governato per anni; come ne sono risultate distrutte le anime, e anche la terra; e così possiamo vedere che è importante, anzi, direi, fondamentale, nutrirsi di Gesù nella comunione. È Lui che ci da la luce, ci offre la guida per la nostra vita, una guida della quale abbiamo bisogno.

 Anna: «Caro Papa, ci puoi spiegare cosa voleva dire Gesù quando ha detto alla gente che lo seguiva: “lo sono il pane della vita?».

Allora, dobbiamo forse innanzitutto chiarire che cos’è il pane. Noi abbiamo oggi una cucina raffinata e ricca di diversissimi cibi, ma nelle situazioni più semplici il pane è il fondamento della nutrizione e se Gesù si chiama il pane della vita, il pane è, diciamo, la sigla, un’abbreviazione per tutto il nutrimento. E come abbiamo bisogno di nutrirci corporalmente per vivere, così anche lo spirito, l’anima in noi, la volontà, ha bisogno di nutrirsi. Noi, come persone umane, non abbiamo solo un corpo, ma anche un’anima; siamo persone pensanti con una volontà, un’intelligenza, e dobbiamo nutrire anche lo spirito, l’anima, perché possa maturare, perché possa realmente arrivare alla sua pienezza. E, quindi, se Gesù dice: «Io sono il pane della vita», vuol dire che Gesù stesso è questo nutrimento della nostra anima, dell’uomo interiore del quale abbiamo bisogno, perché anche l’anima deve nutrirsi. E non bastano le cose tecniche, pur tanto importanti. Abbiamo bisogno proprio di questa amicizia di Dio, che ci aiuta a prendere le decisioni giuste. Abbiamo bisogno di maturare umanamente. Con altre parole. Gesù ci nutre così che diventiamo realmente persone mature e la nostra vita diventa buona. 

Adriano: «Santo Padre, ci hanno detto che oggi faremo l’adorazione eucaristica. Che cosa è? Come si fa? Ce lo puoi spiegare? Grazie».

Allora, che cos’è l’adorazione, come si fa, lo vedremo subito, perché tutto è ben preparato: faremo delle preghiere, dei canti, la genuflessione e siamo così davanti a Gesù. Ma, naturalmente, la tua domanda esige una risposta più profonda: non solo come fare, ma che cosa è l’adorazione. Io direi: adorazione è riconoscere che Gesù è mio Signore, che Gesù mi mostra la via da prendere, mi fa capire che vivo bene soltanto se conosco la strada indicata da Lui, solo se seguo la via che Lui mi mostra. Quindi, adorare è dire: «Gesù, io sono tuo e ti seguo nella mia vita, non vorrei mai perdere questa amicizia, questa comunione con te». Potrei anche dire che l’adorazione nella sua essenza è un abbraccio con Gesù, nel quale gli dico: «Io sono tuo e, ti prego, sii anche tu sempre con me».

(J. RATZINGER [Benedetto XVI], Imparare ad amare. Il cammino di una famiglia cristiana, Milano/Cinisello Balsamo/Città del Vaticano, San Paolo/Libreria Editrice Vaticana, 2007, 91-96).

Siate ciò che vedete e ricevete ciò che siete

Se vuoi comprendere il corpo di Cristo, ascolta l’Apostolo che dice ai credenti: «Voi siete il corpo di Cristo e sue membra» (1Cor 12,27). Se voi dunque siete il corpo e le membra di Cristo, sull’altare del Signore è posto il mistero delle vostre vite. Ricevete il vostro mistero. A ciò che siete, rispondete: «Amen» e, rispondendo lo sottoscrivete. Senti dire: «Corpo di Cristo» e rispondi: «Amen». Sii membro del corpo di Cristo perché il tuo Amen sia vero. Perché il corpo di Cristo nel pane? Non vogliamo dire niente di nostro, ascoltiamo sempre lo stesso Apostolo che, parlando di questo sacramento, dice: «Pur essendo molti, formiamo un solo pane e un solo corpo» (1Cor 10,17). Comprendete e gioite. Unità, verità, fede, carità. «Un solo pane»: chi è quest’unico pane? «Pur essendo molti formiamo un solo corpo». Ricordate che il pane non è formato da un solo chicco di grano, ma da molti […] Siate ciò che vedete e ricevete ciò che siete. Questo ha detto l’Apostolo a riguardo del pane. E ci ha fatto capire con sufficiente chiarezza ciò che dobbiamo intendere riguardo al calice, anche se non lo ha detto esplicitamente. Perché ci sia la forma visibile del pane vengono impastati molti chicchi di grano fino a formare una cosa sola ed è come se avvenisse quanto la santa Scrittura dice dei credenti: «Avevano un cuor solo e un’anima sola» (At 4,32); così avviene anche per il vino. Fratelli, pensate a come si fa il vino. Molti acini pendono dal grappolo, ma il succo degli acini si fonde in un tutto. Così Cristo Signore ci ha voluto dare un simbolo di noi tutti, ha voluto che facessimo parte di lui e ha consacrato sulla sua tavola il sacramento della nostra pace e unità. Chi riceve il sacramento dell’unità e non conserva il vincolo della pace, non riceve il sacramento a sua salvezza ma una testimonianza a suo danno.

(AGOSTINO, Discorsi 272,1, in Opere di sant’Agostino, Discorsi 2, pp. 1042-1044).

Il pane che ci unisce

Nello spezzare il pane insieme noi affermiamo la nostra condizione spezzata, anziché negare la sua realtà. Diventiamo più consapevoli che mai di essere presi, messi a parte come testimoni di Dio; di essere benedetti dalle parole e dagli atti della grazia; di essere spezzati, non per vendetta o per crudeltà, ma al fine di diventare un pane che può essere dato come cibo agli altri. Quando due, tre, dieci, cento o mille persone mangiano unite alla vita spezzata e versata di Cristo, esse scoprono che la loro stessa vita è parte di quell’unica vita e si riconoscono così a vicenda come fratelli e sorelle.

Vi sono pochi luoghi rimasti al mondo dove la nostra comune umanità può essere elevata e celebrata, ma ogni volta che ci riuniamo attorno ai semplici segni del pane e del vino noi abbattiamo molti muri e cogliamo un barlume delle intenzioni di Dio per la famiglia umana. E ogni volta che questo accade, siamo chiamati a preoccuparci maggiormente non soltanto del benessere dell’altro, ma anche del benessere di tutti nel mondo. Lo spezzare il pane dunque… ci mette in contatto con coloro il cui corpo e la cui mente è stata spezzata dall’oppressione e dalla tortura e la cui vita viene distrutta nelle prigioni di questo mondo. Ci mette in contatto con gli uomini, le donne e i bambini la cui bellezza fisica, mentale e spirituale rimane invisibile a causa della mancanza di cibo e di riparo…

Queste relazioni ci rendono davvero «uniti nel pane» e ci sfidano a operare con tutte le nostre energie per il pane quotidiano di tutti. In questo modo il nostro pregare insieme diventa un appello all’azione.

(Henri J.M. NOUWEN, Compassion, in ID., La sola cosa necessaria – Vivere una vita di preghiera, Brescia, Queriniana, 2002, 197-198).

Preghiera

Non ci sei. Non si vede il tuo Volto.

Ci sei. I tuoi raggi si spargono in mille direzioni.

Sei la Presenza nascosta.

Presenza sempre nascosta e sempre manifesta,

Mistero Affascinante

verso il quale convergono tutte le aspirazioni.

Sei il più lontano e il più vicino di tutto.

Sei sostanzialmente presente

nel mio essere intero.

Tu mi penetri, mi avvolgi, mi ami.

Sei intorno a me e dentro di me.

Con la tua Presenza attiva raggiungi

le zone più remote e più profonde

della mia intimità.

Con la tua forza vivificante

penetri tutto quanto sono e ho.

Prendimi tutto intero,

e fa’ di me una viva trasparenza

del tuo Essere e del tuo Amore,

o Signore amatissimo!

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

COMUNITÀ MONASTICA SS. TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade, Milano, Vita e Pensiero, 2008-2009.

M. FERRARI, monaco di Camaldoli, «Oggi di è adempiuta questa scrittura». Tempo di Quaresima e Tempo di Pasqua, Milano, Vita e Pensiero, 2013.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù, Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– C.M. MARTINI, Incontro al Signore risorto. Il cuore dello spirito cristiano, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009.

Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi.

CORPUS DOMINI