I DOMENICA DI QUARESIMA

Prima lettura: Deuteronomio 26,4-10

Mosè parlò al popolo e disse: «Il sacerdote prenderà la cesta dalle tue mani e la deporrà davanti all’altare del Signore, tuo Dio, e tu pronuncerai queste parole davanti al Signore, tuo Dio: “Mio padre era un Aramèo errante; scese in Egitto, vi stette come un forestiero con poca gente e vi diventò una nazione grande, forte e numerosa. Gli Egiziani ci maltrattarono, ci umiliarono e ci imposero una dura schiavitù. Allora gridammo al Signore, al Dio dei nostri padri, e il Signore ascoltò la nostra voce, vide la nostra umiliazione, la nostra miseria e la nostra oppressione; il Signore ci fece uscire dall’Egitto con mano potente e con braccio teso, spargendo terrore e operando segni e prodigi. Ci condusse in questo luogo e ci diede questa terra, dove scorrono latte e miele. Ora, ecco, io presento le primizie dei frutti del suolo che tu, Signore, mi hai dato”. Le deporrai davanti al Signore, tuo Dio, e ti prostrerai davanti al Signore, tuo Dio».

 

 

La bella professione di fede recitata dal singolo israelita, quando si presenta al sacerdote presso l’altare per offrire le primizie dei frutti della terra, rievoca sinteticamente la storia passata, scandita da quattro momenti fondamentali, nei quali si alterna per due volte il momento negativo con quello positivo (vv: 5-9): l) mancanza di una terra propria (neg.); 2) discesa in Egitto e crescita demografica (pos.); 3) oppressione da parte degli egiziani (neg.), liberazione con il conseguente dono della terra promessa (pos.). Così si passa dalla terra non ancora posseduta alla terra ora abitata e coltivata, per dare una motivazione all’offerta dei frutti che da essa si sono ricavati. 

     La tentazione poteva essere ora per Israele quella di dimenticare il Signore, che ha dato la terra e i frutti che essa produce; con l’offerta che se ne fa si riconosce questa dipendenza. «Guardati dunque dal pensare: la mia forza e la potenza della mia mano mi hanno acquistato queste ricchezze. Ricordati invece del Signore tuo Dio perché egli ti dà la forza per acquistare ricchezze, al fine di mantenere, come fa oggi, l’alleanza che ha giurato ai tuoi padri» (Dt 8,17-18).

 

 Seconda lettura: Romani 10,8-13

Fratelli, che cosa dice [Mosè]? «Vicino a te è la Parola, sulla tua bocca e nel tuo cuore», cioè la parola della fede che noi predichiamo. Perché se con la tua bocca proclamerai: «Gesù è il Signore!», e con il tuo cuore crederai che Dio lo ha risuscitato dai morti, sarai salvo. Con il cuore infatti si crede per ottenere la giustizia, e con la bocca si fa la professione di fede per avere la salvezza. Dice infatti la Scrittura: «Chiunque crede in lui non sarà deluso». Poiché non c’è distinzione fra Giudeo e Greco, dato che lui stesso è il Signore di tutti, ricco verso tutti quelli che lo invocano. Infatti: «Chiunque invocherà il nome del Signore sarà salvato».

 

 

Questo brano è stato scelto perché si parla della «professione di fede» (v. 10) cristiana, in analogia con la professione di fede israelita vista nella Prima lettura. Il contenuto ora cambia, perché essa si impernia sulla risurrezione di Gesù e sulla sua attuale e definitiva signoria, ma la sua struttura fondamentale è simile. Si tratta anche ora di un evento che accade nella storia, che è un’opera compiuta in essa da Dio («Dio lo ha risuscitato dai morti», v. 9; cfr. «il Signore ci fece uscireci condusseci diede», Dt 26,8-9).

     La professione di fede deve essere concepita nel cuore e proclamata con la bocca. Questo concetto viene scandito, ancora una volta, con la citazione di tre passi dell’AT: Dt 30,14, che parla insieme della «bocca» e del «cuore» (v. 8); Is 28,18, che accenna al «credere», che si concepisce nel cuore (v. 11); Gl 3,5, che menziona l’«invocare», che si esprime con la bocca (v. 13). È la totalità della persona che così si manifesta nell’atto di fede.

Vangelo: Luca 4,1-13

In quel tempo, Gesù, pieno di Spirito Santo, si allontanò dal Giordano ed era guidato dallo Spirito nel deserto, per quaranta giorni, tentato dal diavolo. Non mangiò nulla in quei giorni, ma quando furono terminati, ebbe fame. Allora il diavolo gli disse: «Se tu sei Figlio di Dio, di’ a questa pietra che diventi pane». Gesù gli rispose: «Sta scritto: “Non di solo pane vivrà l’uomo”». Il diavolo lo condusse in alto, gli mostrò in un istante tutti i regni della terra e gli disse: «Ti darò tutto questo potere e la loro gloria, perché a me è stata data e io la do a chi voglio. Perciò, se ti prostrerai in adorazione dinanzi a me, tutto sarà tuo». Gesù gli rispose: «Sta scritto: “Il Signore, Dio tuo, adorerai: a lui solo renderai culto”». Lo condusse a Gerusalemme, lo pose sul punto più alto del tempio e gli disse: «Se tu sei Figlio di Dio, gèttati giù di qui; sta scritto infatti: “Ai suoi angeli darà ordini a tuo riguardo affinché essi ti custodiscano”; e anche: “Essi ti porteranno sulle loro mani perché il tuo piede non inciampi in una pietra”». Gesù gli rispose: «È stato detto: “Non metterai alla prova il Signore Dio tuo”». Dopo aver esaurito ogni tentazione, il diavolo si allontanò da lui fino al momento fissato.

 

 

Esegesi 

     La tentazione di Gesù è situata unanimemente dai tre Sinottici subito dopo il battesimo, e tutti e tre mettono questa dimora di Gesù nel deserto in rapporto con il dono dello Spirito Santo, ricevuto da lui immediatamente prima nello stesso battesimo (v. 1). Ma nel modo di parlarne gli evangelisti presentano delle significative differenze. Mc riporta in due soli versetti la notizia del digiuno dei quaranta giorni che costituiscono pure, globalmente, tutto il tempo in cui Gesù è tentato (Mc 1,12- 13). Solo Mt (4,1-11) e Lc (4,1-13) parlano di tre speciali tentazioni che si verificano soltanto alla fine dei quaranta giorni di digiuno, ma rispetto a Mt solo Lc sottolinea che Gesù era tentato anche prima (v. 2), durante i quaranta giorni, come dice pure Mc. Ma la differenza più significativa tra Mt e Lc consiste nell’inversione che Lc presenta tra la seconda e la terza tentazione rispetto a Mt, la cui sequenza sembra la più logica e la più primitiva. Infatti, l’adorazione dell’unico Signore a cui si appella Gesù nel respingere l’offerta dei regni della terra si presta meglio a formare l’apice di tutto il racconto che non il rifiuto di tentare Dio, che Lc pone nella terza tentazione. Con questa inversione Lc conferisce più importanza alla città di Gerusalemme (v. 8), sede dell’ultima tentazione, indicando così in essa il preludio alla suprema tentazione di Gesù nella sua passione. Ma nello stesso tempo, con questa inversione Lc dà più importanza al tema della tentazione stessa, come si vede dalla sua conclusione dell’episodio (v. 13): «Dopo aver esaurito ogni tentazione, il diavolo si allontanò da lui fino al momento fissato».

     Al di là di questo episodio, il verbo «tentare» o «mettere alla prova» (peirazo) ricorre ancora in Mt 16,1; 19,3; 22,18.35, ma nel significato più scialbo della tentazione o prova a cui i farisei sottopongono Gesù rivolgendogli delle domande capziose; qui Lc riprende l’espressione soltanto nel primo e nell’ultimo caso (Lc 11,16; 10,25, con un ordine diverso rispetto a Mt). Invece l’importanza di questo tema in Lc la si vede meglio se consideriamo l’uso del sostantivo (peirasmos), che lui ha usato già in 4,13. In parallelo con Mt, il termine ricorre nel Padre nostro (Lc 11,4 = Mt 6,13) e nell’ammonizione di Gesù ai tre discepoli nel Getsemani (Lc 22,46; Mt 26,41; Mc 14,38). Al di là di questi casi in comune con Mt, Lc introduce il termine di sua iniziativa nella spiegazione della parabola del seminatore (Mt 13,21; Mc 4,17: «tribolazione o persecuzione»; Lc 8,13: «nel tempo della tentazione»). Ma l’uso forse più interessante del sostantivo in Lc, lo troviamo in queste parole di Gesù ai discepoli dopo l’istituzione dell’eucaristia nell’ultima cena: «Voi siete quelli che avete perseverato con me nelle mie tentazioni (BC: prove) e io preparo per voi un regno, come il Padre l’ha preparato per me, perché possiate mangiare e bere alla mia mensa nel mio regno» (Lc 22,28-30a). In questo detto, tutto il ministero pubblico di Gesù, passato in compagnia dei discepoli, è considerato come un continuo periodo di tentazione, nel quale lui ha avuto il confronto della loro compagnia e della loro condivisione; essa trova il suo culmine nella celebrazione dell’eucaristia, prefigurazione della sua mensa nella pasqua del cielo.

     Ma la suprema tentazione di Gesù doveva aver luogo nel tempo della sua passione. Nel Getsemani, dopo la preghiera rivolta al Padre perché allontanasse da lui il calice della sua dolorosa morte imminente, Gesù dice a quelli che sono venuti ad arrestarlo: «Ogni giorno ero con voi nel tempio e non avete steso le mani contro di me; ma questa è la vostra ora, è l’impero delle tenebre» (Lc 22,53).

     Nell’AT il tema della tentazione affiora nel definire lo stretto rapporto che intercorre tra Dio ed Israele, specialmente nel tempo del deserto. Dio «tenta» o «mette alla prova» (ebr. nissah) Israele, per far emergere quello che c’è nel cuore del suo popolo, come si può vedere da questi passi: «Io sto per far piovere pane dal cielo per voi: il popolo uscirà a raccoglierne ogni giorno la razione di un giorno, perché io lo metta alla prova, per vedere se cammina secondo la mia legge o no» (Es 16,4); «Ricordati di tutto il cammino che il Signore tuo Dio ti ha fatto percorrere in questi quarant’anni nel deserto, per umiliarti e metterti alla prova, per sapere quello che avevi nel cuore e se tu avresti osservato o no i suoi comandi» (Dt 8,2; cfr. anche il v. 16). Ma questa prova o tentazione continua anche dopo, nella terra promessa: «Tu non dovrai ascoltare le parole di quel profeta o di quel sognatore (che ti vogliono far rivolgere agli dèi stranieri); perché il Signore vostro Dio vi mette alla prova per sapere se amate il Signore vostro Dio con tutto il cuore e con tutta l’anima» (Dt 13,4).

     Come si vede, si aggiunge sempre, con una proposizione finale, il motivo positivo di questa prolungata tentazione a cui il Signore sottopone il suo popolo, che consiste nel desiderio di appurare la consistenza del suo rapporto con lui. È questo un tipico elemento della parenesi deuteronomica, per cui non ci stupisce che nelle risposte di Gesù a Satana vengano citati tre passi, ripresi tutti dal Deuteronomio. Vale la pena considerarli ora separatamente, inquadrandoli nel loro contesto originario.

     a) In Lc 4,4 si cita Dt 8,3: «Egli (il Signore) dunque ti ha umiliato, ti ha fatto provare la fame, poi ti ha nutrito di manna, che tu non conoscevi e che i tuoi padri non avevano mai conosciuto, per farti capire che l’uomo non vive soltanto di pane, ma che l’uomo vive di quanto esce dalla bocca del Signore». Il tempo del deserto consentiva ad Israele di sperimentare la sua dipendenza da Dio, che provvede il cibo della manna con il comando dato dalla sua bocca. Citato da Gesù, questo detto vuol dire che egli, anche se compirà la moltiplicazione dei pani, attirerà le folle non tanto con il cibo materiale, quanto piuttosto con l’annunzio del regno di Dio e con l’invito alla conversione.

     b) La corrispondenza di Lc 4,8 con il Dt non è evidente: «Guardati dal dimenticare il Signore, che ti ha fatto uscire dal paese d’Egitto, dalla condizione servile. Temerai il Signore Dio tuo, lo servirai e giurerai per il suo nome» (Dt 6,12-13); qui, «ti presterai» e «adorerai» corrispondono a «temerai» e «servirai» di Dt 6,13. Si noti come queste diverse ingiunzioni

sono precedute dalla raccomandazione a non dimenticare quanto il Signore ha già fatto: ciò che Israele deve fare, è una risposta a quanto Dio ha fatto prima.

     c) Nell’ultima citazione (v. 12) appare l’uso inverso del tema della tentazione, in quanto ora è Israele che tenta Dio, quando lo abbandona e così lo costringe a dargli una punizione: «Non seguirete altri dèi… L’ira del Signore tuo Dio si accenderebbe contro di te e ti distruggerebbe dalla terra. Non tenterete il Signore vostro Dio come lo tentaste a Massa. Os-serverete diligentemente i comandi del Signore vostro Dio…» (6,14-17). Rilette sullo sfondo dell’AT, le tentazioni di Gesù ci appaiono come la dimostrazione della sua totale adesione a Dio, in contrasto con la condotta indocile d’Israele, cosicché i suoi quaranta giorni di digiuno nel deserto corrispondono ai quaranta anni trascorsi da Israele nel deserto dopo l’uscita dall’Egitto. Ma in maniera più specifica, con queste tre tentazioni satana cerca di distogliere Gesù dalla sua missione messianica, che, rifuggendo dai facili e fallaci successi mondani di una popolarità ottenuta con miracoli molto spettacolari, consiste nell’adesione alla via della croce.

L’immagine della domenica

 

«AIUTO!»

«Nostro Signore mi fa fare questa domanda nel Pater

perché essa mi è necessaria in tutte le ore,

perché deve trovarsi come grido dell’anima

cento volte in ogni preghiera,

e per insegnarmi a lanciare incessantemente verso di Lui,

in tutte le ore, questo grido: “Aiuto”».

(CHARLES DE FOUCAULD, Opere spirituali, Roma, Pauline, 1984).

Sagrata Familia – Barcellona – 2006

 

 Meditazione

     Quaresima. Quaranta giorni per ricalibrare la nostra vita e le sue relazioni: con Dio, con gli altri, con il creato, con se stessi. L’esigenza di mettere ordine nella propria esistenza è diffusa, a molti livelli. I testi biblici che ci vengono oggi proposti offrono alcuni criteri per perseguire tale fine.

     Il celeberrimo e impressionante brano delle tentazioni di Gesù nel deserto si apre con una duplice significativa annotazione: Gesù entra in questa esperienza guidato dallo Spirito – non è altro che il nostro desiderio di ‘riprendere in mano’ la vita – e rifiutando di nutrirsi.

     Perché questo digiuno? Cosa c’entra l’alimentazione con i nostri problemi etici, politici, religiosi, di gestione del tempo e del denaro, degli affetti e delle relazioni? L’odierno imperativo sociale, che richiede un corpo palestrato a tutte le età, già può orientarci verso il ‘sospetto’ che forse uno stato complessivo di benessere della persona non è separabile dalle condizioni del corpo. Ma Gesù va ben oltre: un digiuno prolungato, di quaranta giorni, segnala l’intenzione di sondare la propria verità, la propria identità ben oltre la percezione superficiale e puntuale di un’esperienza ‘curiosa’. La testimonianza unanime della pratica ascetica del digiuno, comune a tutte le tradizioni religiose e filosofiche, conferma che la persona che si sottopone ad esso, si apre ad una conoscenza di sé nuova e sorprendente: provare per credere…! Rinunciare ad assumere cibo, quanto cioè ci è di più basilare e necessario per la stessa sussistenza, modifica inevitabilmente la percezione dei nostri valori di riferimento. E se primissima conseguenza potrebbe risultare la limpida precisazione – e distinzione! – dei termini appetito e fame, che noi, nel nostro opulento occidente, impieghiamo impropriamente come sinonimi, perseverare in un regime alimentare misurato, regolare e sobrio –  questo il contenuto autentico del digiuno – riattiva la sensibilità e la capacità di scelta e chiama in causa i valori più profondi. L’essenzialità  a cui si è indirizzati rende la persona più attenta e vigile. È pertanto nella condizione ideale per… riprendere in mano la propria vita e compiere delle scelte nuove! Giungendo così al fine che ci si era proposti e da cui eravamo partiti. L’«ebbe fame» (Lc 4,2) che Gesù stesso avverte dopo quaranta giorni di digiuno conferma questo stato psichico percettivo, dove si conosce, in modo sensibilmente nuovo, la dipendenza dall’esterno per la propria sopravvivenza: nessuno di noi basta a se stesso! La mia vita dipende da qualcosa al di fuori di me. Sorgono allora domande nuove: di cosa ho veramente bisogno? Cosa desidero veramente?

     Gesù, che nel battesimo (cfr. Lc 3,21-22) è appena stato riconosciuto come Figlio di Dio, è spinto ora dal diavolo a indagare su come ‘giocare’ la sua identità. Vuole custodire l’oggettività della gratuità e del dono, che lo lega al Padre e alla storia degli uomini, oppure preferisce rifiutare questa dipendenza e utilizzare le proprie energie per imporsi sulla natura e sugli altri? Significativamente, tra il battesimo e il nostro brano, l’evangelista Luca inserisce una sorprendente genealogia risalente fino ad «Adamo, figlio di Dio» (cfr. 3,23-38), che evidenzia e imprime all’identità di Gesù anche la qualifica di fratello dell’uomo. Il suo essere figlio di Dio non cancella né ‘divora’ l’essere fratello dell’uomo ma, con genialità compassionevole, si coniuga in una sintesi esigente ma feconda, fonte di vita e di libertà infinita per sé e per tutti. Gesù non utilizza la propria divinità per opportunità per opprimere gli uomini né si piega ad un umanesimo gaudente che si riconosce come assoluto e svincolato da ogni solidità. Egli è invece il Figlio di Dio che resta consapevolmente nella dipendenza e nel legame per rinnovare dal di dentro ogni figlio dell’uomo. Con amore.

     Per resistere alla tentazione dell’individualismo egoistico Gesù si nutre – qualcosa si deve pur mangiare! – della parola di Dio, sapientemente interpretata. La prima lettura ci  ricorda di richiamare alla nostra mente tutto quanto si è già ricevuto nel passato per continuare a sostenere la lotta verso una libertà sempre più profonda. Le nostre forze sono, infatti, sempre fragili e quando si è nel digiuno si è ancor più bisognosi di sostegno. Quale dunque il nostro cibo per orientare e compiere le nostre scelte. 

Preghiere e racconti

Prima domenica di Quaresima

In Terra Santa, ad ovest del fiume Giordano e dell’oasi di Gerico, si trova il deserto di Giuda, che per valli pietrose, superando un dislivello di circa mille metri, sale fino a Gerusalemme. Dopo aver ricevuto il battesimo da Giovanni, Gesù si addentrò in quella solitudine condotto dallo stesso Spirito Santo, che si era posato su di Lui consacrandolo e rivelandolo quale Figlio di Dio.

Nel deserto, luogo della prova, come mostra l’esperienza del popolo d’Israele, appare con viva drammaticità la realtà della kenosi, dello svuotamento di Cristo, che si è spogliato della forma di Dio (cfr. Fil 2,6-7).

Lui, che non ha peccato e non può peccare, si sottomette alla prova e perciò può compatire la nostra infermità (cfr. Eb 4,15). Si lascia tentare da Satana, l’avversario, che fin dal principio si è opposto al disegno salvifico di Dio in favore degli uomini.

(BENEDETTO XVI, nell’introdurre la preghiera mariana dell’Angelus: 01.03.2009).

Due re aspirano a regnare

Tanto il Figlio di Dio quanto l’Anticristo aspirano a regnare, ma l’Anticristo desidera regnare per uccidere quelli che avrà sottomesso, Cristo regna per salvare. E su ognuno di noi, se è fedele, regna Cristo, che è la Parola, la Sapienza, la Giustizia, la Verità. Se invece amiamo i desideri disordinati più di quanto amiamo Dio, su noi regna il peccato di cui l’Apostolo dice: II peccato non regni sul vostro corpo mortale (Rm 6,12). Due re dunque si affrontano per regnare: il re del peccato, il diavolo sui peccatori; il re della giustizia, Cristo, sui giusti.

Il diavolo sapeva che Cristo sarebbe venuto per sottrargli il suo regno e per cominciare a sottomettere al suo potere quelli che erano sottomessi al potere del diavolo. Così gli mostra tutti i regni del mondo e degli uomini di questo mondo, gli mostra come su alcuni regna la lussuria, su altri l’avarizia e come alcuni sono trascinati dal soffio della celebrità, altri sono prigionieri delle seduzioni della bellezza. Non dobbiamo pensare che mostrandogli i regni del mondo gli abbia mostrato il regno della Persia o quello delle Indie; ma gli mostra tutti i regni del mondo, cioè il suo regno, il suo modo di dominare il mondo per invitarlo a fare la sua volontà e cominciare così ad assoggettare Cristo […].

Allora il diavolo disse al Signore: «Sei venuto per lottare contro di me e per strappare al mio potere tutti quelli che io ho soggiogato? Non voglio contendere con te, non voglio che tu ti affatichi, che ti sottoponga alle difficoltà della lotta. Chiedo una cosa sola: prosternati ai miei piedi e adorami, ricevo l’intero mio regno». Senza dubbio il nostro Signore e Salvatore desidera regnare e desidera che tutti i popoli gli siano sottomessi perché servano la giustizia, la verità e le altre virtù, ma vuole regnare in quanto è la Giustizia, senza peccato e senza malizia […] Ecco perché risponde: Sta scritto: adorerai il Signore tuo Dio e lui solo servirai (Lc 4,8). Voglio che tutti costoro mi siano sottomessi perché adorino il Signore Dio e servano lui solo. Così desidero regnare. Tu vorresti che il peccato cominciasse da me, quel peccato che sono venuto a distruggere, da cui desidero liberare anche gli altri. Sappi e riconosci che rimango fedele a ciò che ho detto: che sia adorato solo il Signore Dio e che tutti questi uomini siano sottomessi al mio potere nel mio regno». Quanto a noi rallegriamoci di essere sottomessi a lui e preghiamo Dio che faccia morire il peccato che regna nel nostro corpo (Rm 6,12) e che solo Cristo Gesù regni in noi. A lui la gloria e la potenza nei secoli dei secoli ( I Pt 4,11).

(ORIGENE, Omelie sul vangelo di Luca 30,1.3-4, SC 37, pp. 370-374).

Autenticità e verità

Per essere autentici occorre essere fedeli a se stessi ma, nello stesso tempo, diffidare di sé. C’è un necessario legame con se stessi, ma un’altrettanta necessaria esigenza di superarsi. Il cammino versa la vita autentica consiste quindi nel procedere su una specie di crinale, nel suscitare la libertà ma anche nel disciplinarla, nel voler essere pienamente liberi perché solo così si è uomini e non servi, ma nel voler altresì che la prima vera libertà sia di tipo interiore e corrisponda al dominio sulle menzogne di cui ognuno si sa capace “in pensieri, parole, opere e omissioni”. […] La libertà si compie solo nella misura in cui ci si dedica a qualcosa di più grande di sé o, meglio, del sé: una grandezza che il pensiero umano nomina in vari modi, di cui i principali sono giustizia, bene, verità. Io sostengo che l’uomo autentico è l’uomo giusto, è l’uomo che vive per attuare il bene dentro e fuori di sé, è l’uomo che ama sopra ogni cosa la verità.

(Vito MANCUSO, La vita autentica, Raffaello Cortina Editore, 2009, Milano, 15-16).

Non ci indurre in tentazione

«Nostro Signore mi fa fare questa domanda nel Pater perché essa mi è necessaria in tutte le ore, perché deve trovarsi come grido dell’anima cento volte in ogni preghiera, e per insegnarmi a lanciare incessantemente verso di Lui, in tutte le ore, questo grido: “Aiuto”».

(CHARLES DE FOUCAULD, Opere spirituali, Roma, Pauline, 1984).

Non è strano che Antonio e i monaci suoi compagni considerassero un disastro spirituale l’accettare passivamente i principi e i valori della loro società. Essi erano riusciti a capire quanto fosse difficile non solo per il singolo cristiano, ma anche per la chiesa stessa, resistere alle seducenti imposizioni del mondo. Quale fu la loro reazione? Fuggirono dalla nave che stava per affondare e nuotarono verso la vita. E il luogo della salvezza è chiamato deserto, il luogo della solitudine…

La solitudine è la fornace della trasformazione. Senza solitudine, rimaniamo vittime della nostra società e continuiamo a restare impigliati nelle illusioni del falso io. Anche Gesù è entrato in questa fornace. Fu tentato con le tre seduzioni del mondo: essere importante («trasforma le pietre in pane»), essere spettacolare («gettati dalla torre»), essere potente («ti darò tutti questi regni»). Gesù ha affermato Dio come unica sorgente della sua identità («Adora il Signore Dio tuo e a lui solo rendi culto»). La solitudine è il luogo della grande lotta e del grande incontro – lotta contro le imposizioni del falso io e incontro con il Dio dell’amore che offre se stesso come sostanza del nuovo io.

(J.M. Nouwen, La via del cuore, in ID., Mostrami il cammino. Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003, 94).

Deserto

«L’esperienza del deserto è stata per me dominante. Tra cielo e sabbia, fra il Tutto e il Nulla, la domanda diventa bruciante. Come il roveto ardente, essa brucia e non si consuma. Brucia per se stessa, nel vuoto. L’esperienza del deserto è anche l’ascolto, l’estremo ascolto» (Edmond Jabès). Forse è questo legame con l’ascolto che fa sì che nella Bibbia il deserto, presenza sempre pregna di significato spirituale, sia così importante. Certo, esso è anzitutto un luogo, e un luogo che nell’ebraico biblico ha diversi nomi: aravah, luogo arido e incolto, che designa la zona che si estende dal Mar Morto fino al Golfo di Aqaba; chorbah, designazione più psicologica che geografica che indica il luogo desolato, devastato, abitato da rovine dimenticate; jeshimon, luogo selvaggio e di solitudine, senza piste, senz’acqua; ma soprattutto midbar, luogo disabitato, landa inospitale abitata da animali selvaggi, dove non crescono se non arbusti, rovi e cardi. Il deserto biblico non è quasi mai il deserto di sabbia, ma è frutto dell’erosione del vento, dell’azione dell’acqua dovuta alle piogge rare ma violente, ed è caratterizzato da brusche escursioni termiche fra il giorno e la notte.

Refrattario alla presenza umana e ostile alla vita (Numeri 20,5), il deserto, questo luogo di morte, rappresenta nella Bibbia la necessaria pedagogia del credente, l’iniziazione attraverso cui la massa di schiavi usciti dall’Egitto diviene il popolo di Dio. È in sostanza luogo di rinascita. E, del resto, la nascita del mondo come cosmo ordinato non avviene forse a partire dal caos informe del deserto degli inizi? La terra segnata da mancanza e negatività («Quando il Signore Dio fece la terra e il cielo, nessun cespuglio campestre era sulla terra, nessuna erba campestre era spuntata, perché il Signore Dio non aveva fatto piovere sulla terra»: Genesi 2,4b5) diviene il giardino apprestato per l’uomo nell’opera creazionale (Genesi 2,815). E la nuova creazione, l’era messianica, non sarà forse un far fiorire il deserto? «Si rallegreranno il deserto e la terra arida, esulterà e fiorirà la steppa, fiorirà come fiore di narciso» (Isaia 35,12). Ma tra prima creazione e nuova creazione si stende l’opera di creatio continua, l’intervento salvifico di Dio nella storia. Ed è in quella storia che il deserto appare come luogo delle grandi rivelazioni di Dio: nel midbar (deserto), dice il Talmud, Dio si fa sentire come medabber (colui che parla). È nel deserto che Mosè vede il roveto ardente e riceve la rivelazione del Nome (Esodo 3,114); è nel deserto che Dio dona la Legge al suo popolo, lo incontra e si lega a lui in alleanza (Esodo 1924); è nel deserto che colma di doni il suo popolo (la manna, le quaglie, l’acqua dalla roccia); è nel deserto che si fa presente a Elia nella «voce di un silenzio sottile» (I Re 19,12); è nel deserto che attirerà nuovamente a sé la sua sposa Israele dopo il tradimento di quest’ultima (Osea 2,16) per rinnovare l’alleanza nuziale…

Ecco dunque abbozzata, tra negatività e positività, la fondamentale bipolarità semantica del deserto nella Bibbia che abbraccia i tre grandi ambiti simbolici a cui il deserto stesso rinvia: lo spazio, il tempo, il cammino. Spazio ostile da attraversare per giungere alla terra promessa; tempo lungo ma a termine, con una fine, tempo intermedio di un’attesa, di una speranza; cammino faticoso, duro, tra un’uscita da un grembo di schiavitù e l’ingresso in una terra accogliente, «che stilla latte e miele»: ecco il deserto dell’esodo! La spazialità arida, monotona, fatta silenzio, del deserto si riverbera nel paesaggio interiore del credente come prova, come tentazione. Valeva la pena l’esodo? Non era meglio rimanere in Egitto? Che salvezza è mai quella in cui si patiscono la fame e la sete, in cui ogni giorno porta in dote agli umani la visione del medesimo orizzonte? Non è facile accettare che il deserto sia parte integrante della salvezza! Nel deserto allora Israele tenta Dio, e il luogo desertico si mostra essere un terribile vaglio, un rivelatore di ciò che abita il cuore umano. «Ricordati di tutto il cammino che il Signore tuo Dio ti ha fatto percorrere in questi quarant’anni nel deserto, per umiliarti e metterti alla prova, per sapere quello che avevi nel cuore» (Deuteronomio 8,2). Il deserto è un’educazione alla conoscenza di sé, e forse il viaggio intrapreso dal padre dei credenti, Abramo, in risposta all’invito di Dio «Va’ verso te stesso!» (Genesi 12,1), coglie il senso spirituale del viaggio nel deserto. Il deserto è il luogo delle ribellioni a Dio, delle mormorazioni, delle contestazioni (Esodo 14,1112; 15,24; 16,2-3.20.27; 17,2-3.7; Numeri 12,1-2; 14,2-4; 16,3-4; 20,2-5; 21,4-5). Anche Gesù vivrà il deserto come noviziato essenziale al suo ministero: il faccia a faccia con il potere dell’illusione satanica e con il fascino della tentazione svelerà in Gesù un cuore attaccato alla nuda Parola di Dio (Matteo 4,1-11). Fortificato dalla lotta nel deserto, Gesù può intraprendere il suo ministero pubblico!

Il deserto appare anche come tempo intermedio: non ci si installa nel deserto, lo si traversa. Quaranta anni; quaranta giorni: è il tempo del deserto per tutto Israele, ma anche per Mosè, per Elia, per Gesù. Tempo che può essere vissuto solo imparando la pazienza, l’attesa, la perseveranza, accettando il caro prezzo della speranza. E, forse, l’immensità del tempo del deserto è già esperienza e pregustazione di eternità! Ma il deserto è anche cammino: nel deserto occorre avanzare, non è consentito «disertare», ma la tentazione è la regressione, la paura che spinge a tornare indietro, a preferire la sicurezza della schiavitù egiziana al rischio dell’avventura della libertà. Una libertà che non è situata al termine del cammino, ma che si vive nel cammino. Però per compiere questo cammino occorre essere leggeri, con pochi bagagli: il deserto insegna l’essenzialità, è apprendistato di sottrazione e di spoliazione. Il deserto è magistero di fede: esso aguzza lo sguardo interiore e fa dell’uomo un vigilante, un uomo dall’occhio penetrante. L’uomo del deserto può così riconoscere la presenza di Dio e denunciare l’idolatria. Giovanni Battista, uomo del deserto per eccellenza, mostra che in lui tutto è essenziale: egli è voce che grida chiedendo conversione, è mano che indica il Messia, è occhio che scruta e discerne il peccato, è corpo scolpito dal deserto, è esistenza che si fa cammino per il Signore («nel deserto preparate la via del Signore!», Isaia 40,3). Il suo cibo è parco, il suo abito lo dichiara profeta, egli stesso diminuisce di fronte a colui che viene dopo di lui: ha imparato fino in fondo l’economia di diminuzione del deserto. Ma ha vissuto anche il deserto come luogo di incontro, di amicizia, di amore: egli è l’amico dello sposo che sta accanto allo sposo e gioisce quando ne sente la voce.

Sì, è a questa ambivalenza che ci pone di fronte il deserto biblico, e, così esso diviene cifra dell’ambivalenza della vita umana, dell’esperienza quotidiana del credente, della stessa contraddittoria esperienza di Dio. Forse ha ragione Henri le Saux quando scrive che «Dio non è nel deserto. È il deserto che è il mistero stesso di Dio».

(Enzo BIANCHI, Le parole di spiritualità. Per un lessico della vita interiore, Milano, Rizzoli, 21999, 47-51).

Solitudine

La solitudine è un elemento antropologico costitutivo: l’uomo nasce solo e muore solo. Egli è certamente un «essere sociale», fatto «per la relazione», ma l’esperienza mostra che soltanto chi sa vivere solo sa anche vivere pienamente le relazioni. Di più: la relazione, per essere tale e non cadere nella fusione o nell’assorbimento, implica la solitudine. Solo chi non teme di scendere nella propria interiorità sa anche affrontare l’incontro con 1’alterità. Ed è significativo che molti dei disagi e delle malattie «moderne», che riguardano la soggettività, arrivino anche a inficiare la qualità della vita relazionale: per esempio, l’incapacità di interiorizzazione, di abitare la propria vita interiore, diviene anche incapacità di creare e vivere relazioni solide, profonde e durature con gli altri. Certo, non ogni solitudine è positiva: vi sono forme di fuga dagli altri che sono patologiche, vi è soprattutto quella «cattiva solitudine» che è l’isolamento, il quale implica la chiusura agli altri, il rigetto del desiderio degli altri, la paura dell’alterità. Ma tra isolamento, chiusura, mutismo, da un lato, e bisogno della presenza fisica degli altri, dissipazione nel continuo parlare, attivismo smodato, dall’altro, la solitudine è equilibrio e armonia, forza e saldezza.

Chi assume la solitudine è colui che mostra il coraggio di guardare in faccia se stesso, di riconoscere e accettare come proprio compito quello di «divenire se stesso»; è l’uomo umile che vede nella propria unicità il compito che lui e solo lui può realizzare. E non si sottrae a tale compito rifugiandosi nel «branco», nell’anonimato della folla, e neppure nella deriva solipsistica della chiusura in sé. Sì, la solitudine guida l’uomo alla conoscenza di sé, e gli richiede molto coraggio.

La solitudine allora è essenziale alla relazione, consente la verità della relazione e si comprende proprio all’interno della relazione. Capacità di solitudine e capacità di amore sono proporzionali. Forse, la solitudine è uno dei grandi segni dell’autenticità dell’amore. Scrive Simone Weil: «Preserva la tua solitudine. Se mai verrà il giorno in cui ti sarà dato un vero affetto, non ci sarà contrasto fra la solitudine interiore e l’amicizia; anzi, proprio da questo segno infallibile la riconoscerai».La solitudine è il crogiuolo dell’amore: le grandi realizzazioni umane e spirituali non possono non attraversare la solitudine. Anzi, proprio la solitudine diviene la beatitudine di chi la sa abitare. Facendo eco al medievale «beata solitudo, sola beatitudo», scrive MarieMadeleine Davy: «La solitudine è faticosa solo per coloro che non han sete della loro intimità e che, di conseguenza, l’ignorano; ma essa costituisce la felicità suprema per coloro che ne hanno gustato il sapore».

In verità, la solitudine, certamente temibile perché ci ricorda la solitudine radicale della morte, è sempre solitudo pluralis, è spazio di unificazione del proprio cuore e di comunione con gli altri, è assunzione dell’altro nella sua assenza, è purificazione delle relazioni che nel continuo commercio con la gente rischiano di divenire insignificanti. E per il cristiano è luogo di comunione con il Signore che gli ha chiesto di seguirlo là dove lui si è trovato: quanta parte della vita di Gesù si è svolta nella solitudine! Gesù che si ritira nel deserto dove conosce il combattimento con il Tentatore, Gesù che se ne va in luoghi in disparte a pregare, che cerca la solitudine per vivere l’intimità con 1’abba e per discernere la sua volontà. Certo, come Gesù, il cristiano deve riempire la sua solitudine con la preghiera, con la lotta spirituale, con il discernimento della volontà di Dio, con la ricerca del suo volto.

Commentando Giovanni 5,13 che dice: «L’uomo che era stato guarito non sapeva chi fosse [colui che l’aveva guarito]; Gesù infatti era scomparso tra la folla», Agostino scrive: «È difficile vedere Cristo in mezzo alla folla; ci è necessaria la solitudine. Nella solitudine, infatti, se l’anima è attenta, Dio si lascia vedere. La folla è chiassosa; per vedere Dio ti è necessario il silenzio». II Cristo in cui diciamo di credere e che diciamo di amare si fa presente a noi nello Spirito santo per inabitare in noi e per fare di noi la sua dimora. La solitudine è lo spazio che apprestiamo al discernimento di questa presenza in noi e alla celebrazione della liturgia del cuore.

Il Cristo poi, che ha vissuto la solitudine del tradimento dei discepoli, dell’allontanamento degli amici, del rigetto della sua gente, e perfino dell’abbandono di Dio, ci indica la via dell’assunzione anche delle solitudini subite, delle solitudini imposte, delle solitudini «negative». Colui che sulla croce ha vissuto la piena intimità con Dio conoscendo l’abbandono di Dio, ricorda al cristiano che la croce è mistero di solitudine e di comunione. Essa, infatti, è mistero di amore!

(Enzo BIANCHI, Le parole di spiritualità. Per un lessico della vita interiore, Milano, Rizzoli, 21999).

Preghiera

Signore Gesù, domani inizia il tempo di quaresima. È un periodo per stare con te in modo speciale, per pregare, per digiunare, seguendoti così nel tuo cammino verso Gerusalemme, verso il Golgota e verso la vittoria finale sulla morte.

Sono ancora così diviso! Voglio veramente seguirti, ma nel contempo voglio anche seguire i miei desideri e prestare orecchio alle voci che parlano di prestigio, di successo, di rispetto umano, di piacere, di potere e d’influenza. Aiutami a diventare sordo a queste voci e più attento alla tua voce, che mi chiama a scegliere la via stretta verso la vita.

So che la Quaresima sarà un periodo difficile per me. La scelta della tua via dev’essere fatta in ogni momento della mia vita. Devo scegliere pensieri che siano i tuoi pensieri, parole che siano le tue parole, azioni che siano le tue azioni. Non vi sono tempi o luoghi senza scelte. E io so quanto profondamente resisto a scegliere te.

Ti prego, Signore: sii con me in ogni momento e in ogni luogo. Dammi la forza e il coraggio di vivere questo periodo con fedeltà, affinché, quando verrà la Pasqua, io possa gustare con gioia la vita nuova che tu hai preparato per me. Amen.

(J.M. NOUWEN, In cammino verso l’alba, in ID., La sola cosa necessaria  Vivere una vita di preghiera, Brescia, Queriniana, 2002, 237-238).

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

 

COMUNITÀ MONASTICA SS. TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade, Milano, Vita e Pensiero, 2008-2009.

M. FERRARI, monaco di Camaldoli, «Oggi di è adempiuta questa scrittura». Tempo di Quaresima e Tempo di Pasqua, Milano, Vita e Pensiero, 2013.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù, Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– C.M. MARTINI, Incontro al Signore risorto. Il cuore dello spirito cristiano, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009.

– J.M. NOUWEN, Un ricordo che guida, in ID., Mostrami il cammino. Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003.

 

Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi.

PER L’APPROFONDIMENTO:

QUARESIMA I QUARESIMA (C)