SS CORPO E SANGUE DI CRISTO

Prima lettura: Deuteronomio 8,2-3.14-16

Mosè parlò al popolo dicendo: «Ricordati di tutto il cammino che il Signore, tuo Dio, ti ha fatto percorrere in questi quarant’anni nel deserto, per umiliarti e metterti alla prova, per sapere quello che avevi nel cuore, se tu avresti osservato o no i suoi comandi. Egli dunque ti ha umiliato, ti ha fatto provare la fame, poi ti ha nutrito di manna, che tu non conoscevi e che i tuoi padri non avevano mai conosciuto, per farti capire che l’uomo non vive soltanto di pane, ma che l’uomo vive di quanto esce dalla bocca del Signore. Non dimenticare il Signore, tuo Dio, che ti ha fatto uscire dalla terra d’Egitto, dalla condizione servile; che ti ha condotto per questo deserto grande e spaventoso, luogo di serpenti velenosi e di scorpioni, terra assetata, senz’acqua; che ha fatto sgorgare per te l’acqua dalla roccia durissima; che nel deserto ti ha nutrito di manna sconosciuta ai tuoi padri».    

 

Come si vede, siamo davanti al «mistero», che la nostra ragione può solo adorare, se accetta di essere illuminata dalla fede. Per chi crede, poi, la cosa non è per niente impossibile, perché la «parola» di Dio non solo è verace, ma onnipotente, cioè capace di creare eventi o situazioni imprevedibili, o addirittura umanamente impossibili.

     È a questa onnipotenza della «parola» che rimanda il testo del Deuteronomio, il quale ricorda l’episodio della manna (cf. Es 16), per ammonire gli Israeliti ed esortarli ad avere fiducia in Dio. Infatti, nonostante le loro «mormorazioni» durante l’aspro pellegrinaggio nel deserto, egli li ha provveduti di quel cibo misterioso che è appunto la «manna».

     Se ha fatto questo, può fare tante altre cose, anche più grandiose e mirabili, come è l’Eucaristia, in qualche maniera comparabile con la manna, in quanto Gesù la presenta proprio come «cibo» per alimentare la vita spirituale del nuovo popolo di Dio, peregrinante anch’esso nell’aspro deserto della storia, e talvolta tentato di non dar credito al suo Signore. Proprio in certe situazioni di difficoltà e di angustia, sia fisica che spirituale, conviene ricordarsi di quanto ci dice il deuteronomista: Dio «ti ha fatto provare la fame, poi ti ha nutrito di manna, che tu non conoscevi e che i tuoi padri non avevano mai conosciuto, per farti capire che l’uomo non vive soltanto di pane, ma che l’uomo vive di quanto esce dalla bocca del Signore» (Dt 8,3).

     E proprio «dalla bocca» di Gesù sono uscite quelle parole che ci hanno detto l’incredibile: e cioè che proprio lui, nel suo corpo e nel suo sangue, è il «cibo» di cui soprattutto abbiamo estremo bisogno. Il pane quotidiano è importante, e dobbiamo ogni giorno chiederlo al Signore; molto più importante, però, è nutrirsi del corpo di Cristo, che si è definito come il «pane vivo, disceso dal cielo» (Gv 6,51).

 

Seconda lettura: 1 Corinzi 10,16-17

Fratelli, il calice della benedizione che noi benediciamo, non è forse comunione con il sangue di Cristo? E il pane che noi spezziamo, non è forse comunione con il corpo di Cristo?  Poiché vi è un solo pane, noi siamo, benché molti, un solo corpo: tutti infatti partecipiamo all’unico pane.

 

L’idea del «pane» rimanda anche alla «convivialità», in cui gli uomini nutrendosi si scoprono amici, uniti gli uni agli altri, assisi come sono alla stessa mensa. Orbene, nella comunità di Corinto, proprio in occasione della celebrazione eucaristica, riaffioravano divisioni e rivalità che turbavano la pacifica convivenza di quei cristiani (cf. 1Cor 1,11-17; 10,17-2 2).

     È proprio per contrastare tali atteggiamenti divisionistici che Paolo insegna invece, che l’Eucaristia è segno e strumento nello stesso tempo di «comunione» e di coesione fra tutti i membri della comunità. Ecco il testo brevissimo, ma teologicamente altrettanto ricchissimo: «Fratelli, il calice della benedizione che noi benediciamo, non è forse comunione con il sangue di Cristo? E il pane che noi spezziamo, non è forse comunione con il corpo di Cristo?  Poiché vi è un solo pane, noi siamo, benché molti, un solo corpo: tutti infatti partecipiamo all’unico pane» (1Cor 10,16-17).

     È evidente che qui Paolo fa riferimento agli elementi che costituiscono l’Eucaristia, cioè il pane e il vino («calice»), che Gesù con la sua «benedizione» ha trasformato nel suo corpo e nel suo sangue, come l’Apostolo riferirà poco dopo nella stessa lettera (11,23-31).

     Orbene, proprio perché i cristiani di Corinto si nutrono del corpo e del sangue del Signore, sono tutti compaginati in singolare «comunione» con lui. Ed è proprio partendo dal Cristo, «condiviso» nell’Eucaristia, più che dalla buona volontà degli uomini, che questi possono diventare un «corpo solo» anche fra di loro.

     Bellissimo il commento di S. Giovanni Crisostomo a questo brano: «L’Eucaristia si chiama ed è veramente comunione (Koinónia) perché per essa noi veniamo uniti a Cristo e partecipiamo alla sua carne e alla sua divinità; essa è comunione anche perché, per suo mezzo, siamo uniti gli uni agli altri. Appunto perché partecipiamo a un solo pane, diventiamo tutti un solo corpo di Cristo, un solo sangue e membri gli uni degli altri, essendo stati fatti concorporei di Cristo».

 

Vangelo: Giovanni 6,51-58

In quel tempo, Gesù disse alla folla: «Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo». Allora i Giudei si misero a discutere aspramente fra loro: «Come può costui darci la sua carne da mangiare?». Gesù disse loro: «In verità, in verità io vi dico: se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avete in voi la vita. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno. Perché la mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io in lui. Come il Padre, che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia me vivrà per me. Questo è il pane disceso dal cielo; non è come quello che mangiarono i padri e morirono. Chi mangia questo pane vivrà in eterno». 

 

Esegesi

   È l’ultima parte del così detto «discorso eucaristico», che Gesù pronunciò, dopo la moltiplicazione dei pani, «nella sinagoga di Cafarnao» (Gv 6,59). Ed è anche la parte conclusiva in cui in maniera svelata, non più simbolica ed enigmatica come avviene nei versetti precedenti, Gesù dichiara non solo di essere «il pane della vita», presignificato dalla «manna» mangiata dai padri nel deserto (Gv 6,48-50), da accettare mediante la fede, ma addirittura, «realisticamente» da essere mangiato e triturato per la nostra «sussistenza» spirituale. È quanto leggiamo proprio all’inizio del brano evangelico odierno: «Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo» (6.51).

     Sono soprattutto le ultime parole a suscitare scandalo, perché sembrano assurde e impossibili: «il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo». A questo punto la metafora del «pane» non è più tale; essa diventa crudo e scandalizzante realismo, come dimostra la immediata reazione dei Giudei: «Come può costui darci la sua carne da mangiare?» (v. 52).

     Ma Gesù non è che ammorbidisca la espressione, anzi la esaspera aggiungendo un ulteriore motivo di scandalo, e cioè il fatto di «bere» il suo sangue, cosa rigorosamente proibita per degli Ebrei: «In verità, in verità io vi dico: se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avete in voi la vita. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno. Perché la mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda» (vv. 53-55). Non è simbolico il parlare di Gesù: la sua «carne» donata è «vero cibo»; il suo «sangue» versato è «vera bevanda».

     Ciò che rende grandi e strabilianti queste parole non è solo il realismo a cui esse rimandano, ma soprattutto il risultato che esse producono. Anzi i risultati sono almeno due: «Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno» (v. 54). Mangiando e bevendo il corpo e il sangue del Signore si ha: 1) «la vita eterna», che in Giovanni significa l’assunzione a partecipare della «vita» stessa di Dio; 2) a tale «vita eterna» partecipa il nostro stesso corpo con la «risurrezione» finale: «Ed io lo risusciterò nell’ultimo giorno».

     È chiaro che, parlando in tal modo, Gesù non può voler dire che nell’Eucaristia abbiamo a che fare con il suo corpo morto per noi sulla Croce: adesso però egli, che fu morto, è tornato alla vita mediante la risurrezione. Perciò partecipando all’Eucaristia, noi partecipiamo alla totalità del suo «mistero» salvifico, proprio come diciamo nella celebrazione eucaristica dopo la consacrazione: «Annunciamo la tua morte, o Signore; proclamiamo la tua risurrezione, nell’attesa della tua venuta».

     Tutto questo presuppone però che l’Eucaristia diventi «vita», non solo «eterna», futura cioè, ma anche vita «presente»: vale a dire che dia senso e dimensione sacrale al nostro vivere quotidiano. È quanto afferma Gesù quando dichiara: «Come il Padre, che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia me vivrà per me» (v. 57). È estremamente interessante questo paragone: come Cristo è intimamente legato con il Padre e «vive» di questa strettissima relazione con lui, così il credente che mangia del corpo di Cristo, vive già, nel presente, della vita stessa di Dio mediante questa fusione, vorrei dire quasi fisica, con il Figlio. «È questo il vertice del discorso sul pane di vita: l’alleanza che Dio ha promesso è realizzata in Gesù Cristo» (J. DUPONT).

Meditazione

     Dio nutre il suo popolo; Dio dona il cibo alle sue creature. Questa l’affermazione che attraversa le tre letture. Nel deserto Dio ha nutrito il suo popolo con la manna (prima lettura); Gesù è il pane donato da Dio per la vita del mondo (vangelo); l’unico pane che significa Cristo nutre la comunità cristiana e la fa partecipare all’unica vita del suo Signore (seconda lettura).

     Il cibo che viene da Dio e che consente al popolo di sostenersi nel pellegrinaggio nel deserto, nel faticoso esodo verso la terra promessa (prima lettura), è il pane del popolo pellegrinante verso il Regno, è il pane che ha una valenza escatologica; è il pane che dona unità alla comunità costituendola come unico corpo (seconda lettura), radicandola nel dono di Dio e nel suo amore, e dunque ha una valenza ecclesiologica; è il pane vivo che assume il volto e il corpo di Cristo, che riveste le fattezze della sua vita e della sua umanità, della sua carne e del suo sangue (vangelo), e in quanto tale, esso ha una valenza cristologica.

     Le parole di Gesù: «Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno» ( Gv 6,51 ) non vanno immediatamente intese in senso eucaristico e in riferimento al pane eucaristico. Queste parole indicano Gesù come colui che rivela il Padre e che può dare la vita al mondo con la sua stessa vita, con l’interpretazione della vita umana che egli ha mostrato all’umanità nella sua concreta esistenza. Il «mangiare me» (Gv 6,57), il «mangiare la mia carne e bere il mio sangue» (Gv 6,53.54.56) rinviano il discepolo all’operazione spirituale di assimilare nella propria vita la vita di Cristo. Di questa operazione fa parte la fede, il credere, fa parte l’ascolto della parola delle Scritture, fa parte la prassi, il fare concretamente la volontà del Padre. Non vi fa parte solo la manducazione eucaristica.

     La vita umana di Gesù (la sua carne e il suo sangue), come testimoniata nei vangeli, è il cibo di cui ogni credente è chiamato a nutrirsi affinché la vita di Gesù viva concretamente in lui. La chiesa è il luogo in cui la concreta umanità di ogni credente (la sua carne e il suo sangue) è chiamata a conformarsi all’umanità di Gesù, alla sua vita. Affinché sia vero che una sola vita, un’unica vita lega il Signore e il suo discepolo. Lì la chiesa si ma-nifesta come luogo dell’alleanza tra il Signore e il credente.

     La vita eterna promessa a chi assimila la sua vita (Gv 6,51.54.58), in realtà inizia già qui e ora per il credente. Si tratta di integrare la morte nella vita facendo della vita un atto di

donazione di sé, un atto di amore sulle tracce di Gesù (Gv 13,34). Come atto di amore è quello per cui Gesù si dona come cibo e bevanda agli uomini. Come atto di amore è la morte di Gesù, amore che è all’origine della resurrezione e della promessa della vita per sempre con il Signore nel Regno.

     Nell’affermazione che Gesù è il pane che non proviene dalla terra ma discende dal cielo e che è destinato ad essere mangiato per dare vita agli uomini, si cela il mistero e lo scandalo dello scambio e della comunicazione: per dare vita occorre perdere vita. Ma la vita che perdo in me, la vedo fiorire nell’altro. Per donare agli uomini la vita di Dio, il Figlio di Dio entra nella vita umana, diviene partecipe della carne e del sangue (cfr. Eb 2,14) e invita l’uomo allo scambio, alla relazione, alla partecipazione, alla comunione. Invita l’uomo a mangiare la sua carne e il suo sangue, cioè lo invita e lo abilita a partecipare alla sua vita.

     Vita di Dio e vita dell’uomo si incontrano nell’amore, nell’agape, cibo che veramente nutre l’uomo e realtà che costituisce la vita di Dio: «Dio è amore» (1Gv 4,8.16). L’eucaristia è il sacramento della carità, dell’agape, in cui il dono di Dio agli uomini è la piena narrazione del suo amore per loro e la fonte del loro amarsi come Cristo li ha amati. La comunità che nasce dall’eucaristia è costituita dall’insieme dei «donanti», dei «capaci di dono» perché essi stessi «destinatari di dono», in un circuito di donazione che ha la sua origine nell’alto, da Dio; è formata da «coloro che amano» («Amatevi gli uni gli altri»: Gv 13,34) in quanto essi stessi «amati» («come io ho amato voi»: Gv 13,34).

Preghiere e racconti 

«Amen»

«Se voi siete il corpo e le membra di Cristo, il vostro mistero è deposto sulla tavola del Signore: voi ricevete il vostro proprio mistero!

Voi rispondete “Amen” a ciò che voi siete, e con la vostra risposta sottoscrivete. Sentite dire: “Corpus Christi ” e rispondete: “Amen!”.

Siate dunque membra del corpo di Cristo, affinché il vostro “Amen” sia vero».

(AGOSTINO, Sermo 272, in PL 38, 1247).

«La messa è finita, andate in pace!»

Al termine della Messa il prete ci congeda con la formula: “La Messa è finita, andate in pace!”. Sono sempre tentato di correggere: andate, perché la Messa non è finita, non finisce mai. Questo infatti è un inizio, non una conclusione. Il sacerdote non vuol dire:   “Bravi, avete fatto il vostro dovere, potete andare tranquilli”; al contrario, è come se dicesse: “Adesso tocca a voi, è il vostro momento”. Dunque non un segnale di “riposo”, ma di “partenza” per una missione. Significa “agganciarsi” alla vita quotidiana. Ci si alza dalla mensa eucaristica e si attacca a lavorare, a costruire il Regno.

(Alessandro Pronzato).

“Signor parroco, signor parroco…”

Un parroco aveva preparato con tanta cura la festa del Corpus Domini. Pienamente soddisfatto, iniziò con grande solennità e raccoglimento la processione. Durante il tragitto, però, ripetutamente il chierichetto a fianco a lui gli tirò la veste: “Signor parroco, Signor parroco…”. Parole che il parroco ogni volta mise subito a tacere. Arrivato in chiesa, pose l’ostensorio sull’altare e solo lì si accorse… che mancava l’ostia.

Il Dio nell’ostensorio

Cantavano le donne lungo il muro inchiodato

quando ti vidi, Dio forte, vivo nel Sacramento,

palpitante e nudo come un bambino che corre

inseguito da sette torelli capitali.

Vivo eri, Dio mio, nell’ostensorio.

Trafitto dal tuo Padre con ago di fuoco.

O Forma consacrata, vertice dei fiori,

dove tutti gli angoli prendono luci fisse,

dove numero e bocca costruiscono un presente

corpo di luce umana con muscoli di farina!

O Forma limitata per esprimere concreta

moltitudine di luci e clamore ascoltato!

O neve circondata da timpani di musica !

O fiamma crepitante sopra tutte le vene!

(F. García Lorca)

La contemplazione eucaristica

La forma per eccellenza di contemplazione eucaristica si ha nell’adorazione silenziosa davanti al Santissimo.

Si può, certo, contemplare Gesù Eucaristia anche da lontano, nel tabernacolo della propria mente (San Francesco era solito dire: “Quando non ascolto la Messa, adoro il corpo di Cristo nella preghiera, allo stesso modo con cui lo adoro durante la celebrazione eucaristica”). Tuttavia, la contemplazione fatta alla presenza reale di Cristo… Stando calmi e silenziosi, e possibilmente a lungo, davanti a Gesù Eucaristia, si percepiscono i suoi desideri su di noi, si depongono i nostri progetti per far posto a quelli di Cristo. La luce di Dio penetra a poco a poco nel cuore. E lo risana.

(Padre Raniero Cantalamessa).

Il giorno della carità

«Se l’Eucaristia è e deve essere il cuore della domenica, quest’ultima non può non essere il “giorno della carità”. Non può non esserlo, perché l’Eucaristia, nella sua più profonda verità, è il “sacramento della carità” […].

In quanto “giorno della carità”, la domenica deve potersi presentare nel segno della “unione fraterna” e della “comunione” nella Chiesa. È questo un aspetto essenziale di quell’amore che l’Eucaristia genera, promuove e alimenta»

(Mi sarete testimoni, 50-52).

In Te e per Te non saremo che una cosa sola.

Signore, non vengo a riceverti,

ma a chiederti di accogliermi in Te.

Non sei Tu che ti nascondi in me:

sono io che voglio scomparire in Te.

Ti ho portato il mio cuore

per poter amare nel tuo amore.

Ti ho portato il mio spirito,

per poter pensare alla tua luce.

I miei occhi…. per poter vedere come vedi Tu.

Le mie labbra…. per parlare e sorridere nel nome tuo.

Le mie mani…. perché in me tu possa soccorrere tutti.

Ti dono il mio essere perché continui la tua Incarnazione.

Noi non veniamo a riceverti per portarti via separatamente:

veniamo insieme per consegnarci a Te insieme.

Veniamo diversi: ripartiremo uniti nel tuo amore.

Veniamo a te con le nostre discordie e divisioni:

e saremo uniti nella tua Carità.

Veniamo a Te da tutti i punti dell’orizzonte sociale:

ripartiremo per costruire lo stesso Regno.

Veniamo molteplici:

in Te e per Te non saremo che una cosa sola.

(Anonimo).

L’Eucaristia meta di un lungo cammino

Non è facile mettere l’Eucaristia al centro! Non è facile accogliere il messaggio del sacramento dell’Eucaristia nella sua forza.

I testi del Nuovo Testamento alludono spesso all’incomprensione che essa incontra in coloro cui essa è destinata. Il primo documento neotestamentario sull’Eucaristia denuncia la maniera scorretta con cui essa veniva celebrata dai cristiani di Corinto. Luca racconta come durante l’Ultima Cena i discepoli discutessero chi fosse tra loro il più grande. Nel capitolo 6 di Giovanni si incontra l’incomprensione da parte degli ascoltatori di Gesù: “Questo linguaggio è duro, chi può intenderlo?”.

Nell’Eucaristia l’amore di Dio si manifesta nelle sue forme più pure e sconvolgenti ed incontra un uomo che è spaesato dinanzi a cose immensamente più grandi di lui.

L’Eucaristia è la meta di un lungo cammino. Confessare umilmente le nostre lacune o anche semplicemente le nostre incertezze e difficoltà, è il primo passo da compiere per riscoprire l’inesauribile ricchezza di questo mistero. 

(Card. Carlo Maria Martini).

«Il Corpus Domini»

Perché c’è tanta fame nel mondo? Perché tantissimi bambini devono morire di fame, mentre altri sono soffocati dall’abbondanza? Perché il povero Lazzaro deve continuare ad aspettarsi invano le briciole del ricco gaudente, senza poter varcare la soglia della sua casa? Certamente non perché la terra non sia in grado di produrre pane per tutti. Nei Paesi dell’Occidente si offrono indennizzi per la distruzione dei frutti della terra, allo scopo di sostenere il livello dei prezzi, mentre altrove c’è chi patisce la fame. La mente umana sembra più abile nell’escogitare sempre nuovi mezzi di distruzione, invece che nuove strade per la vita. È più ingegnosa nel far arrivare in ogni angolo del mondo le armi per la guerra, piuttosto che portarvi il pane. Perché accade tutto questo? Perché le nostre anime sono malnutrite, i nostri cuori sono accecati e induriti. Il mondo è nel disordine perché il nostro cuore è nel disordine, perché gli manca l’amore, perciò non sa indicare alla ragione le vie della giustizia.

Riflettendo su tutto questo, comprendiamo le parole con cui Gesù obietta a Satana, che lo invita a trasformare le pietre in pane: «Non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio» (Mt 4,4). Perché ci sia pane per tutti, deve prima essere nutrito il cuore dell’uomo.

Perché ci sia giustizia tra gli uomini, deve prima germogliare la giustizia nei cuori, ma essa non si sviluppa senza Dio e senza il nutrimento vitale della sua Parola. Questa Parola si è fatta carne, è diventata persona umana, affinché noi potessimo accoglierla e farla nostro nutrimento. Poiché l’uomo è troppo piccolo, incapace di raggiungere Dio, Dio stesso si è fatto piccolo per noi, così che possiamo ricevere amore dal suo amore e il mondo diventi il suo regno. Questo significa la festa del Corpus Domini. Il Signore che si è fatto carne, il Signore che è diventato pane, noi lo portiamo per le vie delle nostre città e dei nostri paesi. Lo immergiamo nella quotidianità della nostra vita, le nostre strade diventano le sue strade. Egli non deve restare rinchiuso nei tabernacoli discosto da noi, ma in mezzo a noi, nella vita d’ogni giorno. Deve camminare dove noi camminiamo, deve vivere dove noi viviamo. Il nostro mondo, le nostre esistenze devono diventare il suo tempio. Il Corpus Domini ci fa capire cosa significa fare la comunione: ospitarlo, riceverlo con tutto il nostro essere. Non si può mangiare il corpo del Signore come un qualsiasi pezzo di pane. Occorre aprirsi a lui con tutta la propria vita, con tutto il cuore: «Ecco, io sto alla porta e busso», dice il Signore nell’Apocalisse. «Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io entrerò da lui, cenerò con lui e lui con me» (3,20).

Il Corpus Domini vuole rendere percepibile questo bussare del Signore anche alla nostra sordità inferiore. Egli bussa forte alla porta della nostra vita d’ogni giorno e dice: «Aprimi! Fammi entrare! Comincia a vivere di me!». Questo non può valere soltanto un attimo, come di sfuggita, durante la santa Messa, e poi di nuovo come prima. È un’esperienza che attraversa tutti i tempi e tutti i luoghi. «Aprimi!», dice il Signore. «Come io mi sono aperto per te. Aprimi il mondo, perché io possa entrarvi, e possa così rischiarare la tua mente intorpidita, vincere la durezza del tuo cuore. Fammi entrare! Io per te mi sono lasciato squarciare il cuore». Il Signore dice questo a ciascuno di noi, lo dice alla nostra comunità nel suo insieme: fatemi entrare nella vostra vita, nel vostro mondo. Vivete di me, per essere veramente vivi. Ma vivere significa anche e sempre: donare ad altri. II Corpus Domini è un invito rivolto a noi dal Signore, ma è anche un grido che noi indirizziamo a lui. Tutta la festa è una grande preghiera: facci dono di Te! Da a noi il vero pane! Arriviamo così a comprendere meglio il Padre nostro, la preghiera per eccellenza. La quarta invocazione, quella per il pane, funge come da collegamento fra le tre invocazioni che riguardano il regno di Dio e le ultime tre che riguardano le nostre necessità. Che cosa chiediamo? Naturalmente il pane per oggi. È la preghiera dei discepoli, che non hanno capitali da parte, ma vivono della quotidiana bontà del Signore: perciò si mantengono in dialogo costante con lui, volgono a lui il loro sguardo, confidano soltanto in lui. E la preghiera di chi non vuole accumulare ricchezze, di chi non cerca una sicurezza mondana, ma si accontenta del necessario per avere tempo da dedicare alle cose veramente importanti. È la preghiera dei semplici, degli umili, di coloro che amano e vivono la povertà nello Spirito Santo.

Ma nella domanda del pane c’è un’altra profondità, il termine greco epioúsios, che noi traduciamo con “quotidiano”, non compare da nessun’altra parte, ma è tipico ed esclusivo del Padre nostro. Per quanto gli esperti discutano ancora sul suo significato, molto probabilmente vuole anche dire: dacci il pane di domani, cioè il pane del mondo a venire. In realtà, soltanto l’Eucaristia può essere la risposta a ciò che questa misteriosa parola, epioúsios, vuole indicare: il pane del mondo futuro, che già oggi ci è dato, affinché già oggi il mondo futuro abbia inizio in mezzo a noi.

Alla luce di quest’invocazione, la preghiera perché venga il regno di Dio e perché la terra diventi come il cielo assume grande concretezza: con l’Eucaristia il cielo viene sulla terra, il domani di Dio si compie già oggi e introduce nel mondo di oggi il mondo di domani.

Ma qui è come sintetizzata anche la richiesta di essere liberati da tutti i mali, dai nostri debiti, dal pericolo della tentazione: dammi questo pane, perché il mio cuore si mantenga vigile, perché possa resistere al male, perché sappia distinguere il bene e il male, perché impari a perdonare e sia forte nella tentazione. Soltanto allora il nostro mondo comincerà a essere veramente umano: se il mondo futuro diventa già in qualche misura l’oggi, se il mondo comincia già oggi a diventare divino. Con la richiesta del pane andiamo incontro al domani di Dio, alla trasformazione del mondo. Nell’Eucaristia ci viene incontro il domani di Dio, il suo Regno già oggi comincia tra di noi. E non dimentichiamo, infine, che tutte le invocazioni del Padre nostro sono espresse col “noi”: nessuno può dire “Padre mio” se non Cristo, il Figlio. Perciò noi, se davvero vogliamo pregare nel modo giusto, dobbiamo farlo con gli altri e per gli altri, uscendo da noi stessi, aprendoci.

Tutto questo è significato da quel “camminare insieme col Signore” che è, per così dire il segno distintivo della festa del Corpus Domini.

Dopo che Gesù ebbe terminato il suo discorso eucaristico nella sinagoga di Cafarnao, molti discepoli lo abbandonarono: era qualcosa di troppo impegnativo, di troppo misterioso. Le loro attese erano più che altro rivolte a una liberazione politica, tutto il resto sapeva ben poco di concretezza. Non è forse così anche oggi? Quante persone, nel corso degli ultimi cent’anni, se ne sono andate perché a loro avviso Gesù non era abbastanza “pratico”. Quello che poi, da parte loro, sono riusciti a realizzare è sotto gli occhi di tutti. E se il Signore oggi ci domandasse: «Volete andarvene anche voi?». In questa festa del Corpus Domini, insieme con Simon Pietro, noi con tutto il cuore vogliamo rispondergli: «Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna, e noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Santo di Dio» (Gv 6,68ss.).

(J. RATZINGER [Benedetto XVI], Imparare ad amare. Il cammino di una famiglia cristiana, Milano/Cinisello Balsamo/Città del Vaticano, San Paolo/Libreria Editrice Vaticana, 2007, 106-109).

Preghiera a Gesù nel Tabernacolo

O Dio nascosto nella prigione del tabernacolo! con gioia vengo accanto a voi ogni sera per ringraziarvi dei favori che mi avete concesso e per implorare perdono delle mancanze commesse durante questo giorno che si è dileguato come un sogno.

Gesù, come sarei felice se fossi stata interamente fedele! Ma spesso la sera sono triste perché sento che avrei potuto corrispondere meglio alle vostre grazie. Se fossi stata più unita a voi, più caritatevole con le consorelle, più umile e più mortificata, avrei meno pena ad intrattenermi con voi nell’orazione. Tuttavia, o mio Dio, ben lungi dallo scoraggiarmi alla vista delle mie miserie, vengo a voi con fiducia, ricordando che “Non quelli che stanno bene hanno bisogno del medico, ma i malati”. Vi supplico perciò di guarirmi, di perdonarmi, ed io, Signore, mi ricorderò che l’anima alla quale più avete perdonato, deve amarvi più delle altre. Vi offro tutti i battiti del cuore come altrettanti atti d’amore e di riparazione e li unisco ai vostri meriti infiniti. Vi scongiuro, sposo mio divino, di essere voi stesso il riparatore della mia anima, di agire in me senza tener conto delle mie resistenze; in una parola: non voglio più avere altra volontà che la vostra. E domani, con il soccorso della vostra grazia, ricomincerò una vita nuova.

Dopo essere venuta così ogni sera ai piedi del vostro altare, arriverò infine all’ultima sera della mia vita; allora comincerà per me il giorno senza tramonto dell’eternità, in cui mi riposerò sul vostro Cuore divino dalle lotte dell’esilio. Così sia!

(Preghiera composta da S. Teresa di Lisieux, il 16 luglio 1895, per Sr. Marta di Gesù).

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

 

Temi di predicazione. Omelie. Ciclo A, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2004;2007-.

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

– Comunità domenicana di Santa Maria delle Grazie, La grazia della predicazione. Tempo di Quaresima e Tempo di Pasqua, in «Allegato redazionale alla Rivista del Clero Italiano»  95 (2014) 2, pp.67.

– C.M. MARTINI, Incontro al Signore risorto. Il cuore dello spirito cristiano, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009.

– E. BIANCHI et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Tempo ordinario anno A, Milano, vita e Pensiero, 2010.

– J.M. NOUWEN, Un ricordo che guida, in ID., Mostrami il cammino. Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003.

– F. ARMELLI, Ascoltarti è una festa. Le letture domenicali spiegate alla comunità. Anno A, Padova, Messaggero, 2001.  

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù,  Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 

PER L’APPROFONDIMENTO:

SS. CORPO E SANGUE DI CRISTO (A)