SANTISSIMA TRINITA’

Prima lettura: Esodo 34,4-6.8-9

In quei giorni, Mosè si alzò di buon mattino e salì sul monte Sinai, come il Signore gli aveva comandato, con le due tavole di pietra in mano. Allora il Signore scese nella nube, si fermò là presso di lui e proclamò il nome del Signore. Il Signore passò davanti a lui, proclamando: «Il Signore, il Signore, Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di amore e di fedeltà».  Mosè si curvò in fretta fino a terra e si prostrò. Disse: «Se ho trovato grazia ai tuoi occhi, Signore, che il Signore cammini in mezzo a noi. Sì, è un popolo di dura cervìce, ma tu perdona la nostra colpa e il nostro peccato: fa’ di noi la tua eredità».    

 

Dio è il mistero che gli uomini non sono riusciti a dipanare; nemmeno i profeti. L’autore dell’Esodo vi si prova una prima volta narrando l’esperienza di Mosè sul Sinai, ma la risposta è enigmatica. La frase: «Sono colui che sono» per quanto espressiva («Sono colui che esiste, che fa esistere», spiegano gli esperti), da l’impressione che l’interpellato voglia nascondersi dietro un gioco di parole, rifiuti di rivelare il suo nome, far conoscere la sua identità.

     Ma il libro dell’Esodo è la raccolta di differenti tradizioni. Se la prima (3,4-13) è chiamata elohistica, la successiva si può definire sacerdotale (6,1-8; 19,5-6). Qui il nome di Dio è quello ormai abituale: «Il Signore». Esso sta a indicare la supremazia, sovranità assoluta sugli uomini e sulle cose.

     Al termine del libro è narrata un’altra teofania in cui il «volto» (panim) di Dio rimane ancora nascosto dalla «nube», ma egli fa’ trapelare o meglio svela apertamente il suo animo, le disposizioni che sono alla base dei suoi comportamenti. L’autore, questa volta il jahvista, registra anche i movimenti che il Signore compie: «scese», «si fermò là presso di lui», gli parla. Nonostante che sia il Signore non parla dall’alto, ma si abbassa fino al livello dell’uomo e gli apre il suo cuore con una sbalorditiva confessione. Egli non è il terribile JHWH che non fa accostare il suo servo e chiede di togliersi i calzari ai piedi prima di avanzare verso di lui (3,5), ma un Signore benevolo, pronto a capire e a perdonare le debolezze dell’uomo.

     La coreografia, l’accompagnamento della nube luminosa, la ripetizione del nome poteva far pensare a manifestazione di un potente dignitario, ma le parole rivelano tutto il contrario. «Dio (è) misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di amore e di fedeltà». Una designazione insolita della divinità, fatta su misura d’uomo si potrebbe aggiungere, quella che lo aiuta a vivere, a realizzarsi nonostante le sue incapacità, i suoi limiti, i suoi difetti, le sue imperfezioni. L’uomo rischia sempre di essere schiacciato dalle sue inadempienze, dalle colpe che accumula quotidianamente, dai debiti con se stesso e con gli altri.

     La precisazione «lento all’ira» sembra far supporre che nonostante tutto Dio qualche volta potrebbe sentirsi spinto a usare il rigore (la «giustizia») verso i trasgressori della sua legge, ma sa contenersi. Il redattore finale del testo però ritiene opportuno correggere con una nota aggiuntiva questa versione che Dio sta dando di sé, ricordando appunto che «castiga la colpa dei padri nei figli e nei figli dei figli fino alla terza e alla quarta generazione» (v. 7), ma è una distorsione del messaggio originario e centrale del passo, quello che Mosé stesso ribadisce (vv. 8-9). Egli sa che Israele è un popolo di peccatori, meriterebbe di essere cancellato dalla storia (Es 32,19), ma ciò nonostante crede di poter fare appello alla misericordia di Dio per ottenere comprensione e perdono. Però invece di ergersi davanti al Signore con protervia o arroganza occorre riconoscere umilmente, con la testa a terra, le proprie colpe e ritrovare così la sua amicizia, sentirsi ancora sua eredità, ovvero la particolare «proprietà» tra tutti i popoli della terra (19,5).

Seconda lettura: 2 Corinzi 13,11-13

Fratelli, siate gioiosi, tendete alla perfezione, fatevi coraggio a vicenda, abbiate gli stessi sentimenti, vivete in pace e il Dio dell’amore e della pace sarà con voi. Salutatevi a vicenda con il bacio santo. Tutti i santi vi salutano. La grazia del Signore Gesù Cristo, l’amore di Dio e la comunione dello Spirito Santo siano con tutti voi.

 

La 2Cor è lo scritto di Paolo che sembra aver subito delle vicissitudini letterarie. Potrebbe essere una raccolta di differenti missive dell’apostolo alla comunità egea, che ha inglobato anche qualche riflessione del redattore o compilatore del testo finale. Tale è forse il brano 13,11-13. Ad ogni modo il v. 13 non racchiude una delle abituali formule di congedo ricorrente nelle lettere paoline (cf. Gv 6,18; Rom 15,33; Fil 4,23).

     Il passo 13,11-13 è un’esortazione a vivere in armonia e in pace, si intende con Dio e con i propri simili. Per una comunità così animata e si può aggiungere litigiosa com’era quella di Corinto il richiamo alla concordia era sempre il più opportuno. Anche il tono perentorio ne sottolinea l’urgenza.

     I cristiani di Corinto non sono ancora «perfetti» perché secondo Paolo la misura da raggiungere è quella di Cristo (cf. Ef 4,13) e Gesù ha additato come meta il comportamento del padre che riesce a trattare bene tutti, anche quelli che non lo meritano (Mt 5,48). Il modello a cui occorre guardare e avvicinarsi è troppo alto per poter pensare di averlo una volta raggiunto.

     L’uomo è sempre un essere imperfetto, ma il suo agire può migliorare costantemente, salire verso un grado sempre più elevato del precedente. Il giovane aspirante aveva «osservato tutti i comandamenti», ma Gesù gli fa comprendere che tutti si potevano osservare in un modo più completo (Mt 19,16-21).

     C’è un unico modo di vivere la propria fede, amando l’uomo nel modo che sa fare Dio e che Gesù ha segnalato e realizzato fino al prezzo della vita.

     La piccola esortazione si chiude con un grande augurio. L’apostolo invoca sulla comunità i riflessi dell’agape (amore) di Dio e della grazia (charis) di Cristo unitamente, alla comunione (koinonia) dello Spirito Santo. Un saluto che la nuova liturgia ha recuperato e riproposto solennemente all’inizio della celebrazione eucaristica.   

     Ai tessalonicesi Paolo augura «la grazia del Signore Gesù Cristo» (1Ts 5,28; 2Ts 3,18), ma, in quest’epilogo della 2Cor si fa riferimento anche all’amore di Dio che in Gesù Cristo ha avuto la sua piena attuazione e continua a espandersi sugli uomini tramite l’azione santificatrice dello Spirito. Dio non è qui chiamato «padre» e nemmeno Gesù è definito «figlio», ma si parla egualmente come di «tre» punti di riferimento a cui il credente è invitato a tenersi in contatto. Dati insufficienti per proporre tout court la dottrina trinitaria, ma possono essere e sono stati di fatto una base valida per arrivarvi.

 

Vangelo: Giovanni 3,16-18

In quel tempo, disse Gesù a Nicodèmo: «Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio, unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna.

Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui. Chi crede in lui non è condannato; ma chi non crede è già stato condannato, perché non ha creduto nel nome dell’unigenito Figlio di Dio».

 

Esegesi 

   Il vangelo di Giovanni come si sa, è una composizione teologica; cerca di illustrare la persona e la missione di Gesù più che richiamare episodi concreti della sua vita.

     Gesù, che i giudei conoscevano come «il figlio di Giuseppe» (Gv 1,45), è invece la Parola di Dio incarnata nella storia (Gv 1,13), l’Agnello che toglie i peccati del mondo (1,29),  il Cristo (1,42), ma sotto questa veste non era stato accettato dai suoi familiari, dai concittadini e dai connazionali (1,5;2,12;2,24;7,5).

     Nicodemo apre una serie di interlocutori evangelici; lo segue la donna di Samaria e l’ufficiale regio (4,1-54). Egli avrebbe dovuto comprendere subito le parole di Gesù e accettarle, invece si perde in banali obiezioni e alla fine scompare come in incognito, senza aver fatto comprendere la sua risposta. I giudei non hanno accolto il loro messia e anche i migliori spiriti sono rimasti perplessi alla predicazione di Gesù come ora della Chiesa. Le proposte di Gesù erano innovatrici; toccavano l’alleanza (2,1-11), il culto (2,13-23), soprattutto il modo di vivere (conversione), lasciandosi investire interiormente dalla forza rigeneratrice dello Spirito di Dio (3,1-8). Il credente infatti non è chi pensa o parla come Cristo o come Dio, ma chi agisce nel modo in cui essi operano, cercando innanzitutto il bene dell’altro.

     Lo Spirito è la carità di Dio, la sua Volontà di aiutare e beneficare il mondo («cosmo»), in particolare l’uomo. Questa è la buona notizia che i profeti, la Bibbia rivolgono agli uditori e lettori, e Gesù e il vangelo ripetono ai propri ascoltatori. Bisogna mettere in partenza un punto fermo per spiegare ciò che accade nel tempo e ad esso far riferimento con la mente e il cuore, il pensiero e le azioni, per sentirsi tranquilli.

     Il vangelo odierno riparte da questa certezza basilare: la carità o agape di Dio verso il mondo, la creazione e le creature. La missione profetica di Gesù, quella che l’evangelista sta ricordando ai suoi lettori, a Nicodemo, ossia ai giudei, è far conoscere la maniera concreta con cui Dio ha «ultimamente» manifesto il suo amore verso il mondo e gli uomini. Tramite un «dono» senza eguali, quale è la dignità del Figlio unico loro inviato.

     La storia di Gesù è quella di un martire che accetta di morire più che rinunciare al mandato ricevuto; che accetta l’impopolarità, il rigetto, la condanna per liberare i propri simili dall’illegalità e dall’oppressione, dal fanatismo e dalla superstizione. La sua sorte appare contraddittoria: apparentemente è un vinto in realtà è un vincitore. È stato «elevato» su un patibolo, ma da qui è salito al cielo, nella gloria del Padre; ha perso la vita terrena ma ha acquisto quella «eterna» (3,14-15).

     Il testo 3,16-18 è strettamente collegato con i due versetti che precedono e con i due che seguono. Parte dalla vicenda di Gesù di Nazaret (1,42-47) termina nel Cristo della gloria, esaltato cioè alla destra di Dio. La fede del cristiano è dar credito all’esperienza di Gesù, riconoscerla come venuta e voluta da Dio e conformarvi la propria. Anche per il cristiano la vita si consegue attraverso la morte, che è il presupposto non della fine ma della risurrezione o del passaggio nel mondo di Dio. Il seguace di Cristo è colui che si è lasciato prendere dalla carità di Dio, investire cioè dalle radiazioni del suo Spirito; in altre parole si lascia guidare dalla legge dell’amore e non dai sentimenti opposti che vengono dal Maligno (cf. 1 Gv 3,13). Per queste ragioni non è più nella morte e non va soggetto ad alcuna condanna.

     Dio è solo amore e può compiere solo operazioni benefiche verso l’uomo e il mondo; tale è il figlio che è della stessa identità del padre e che nella sua esistenza è passato facendo del bene a tutti e guarendo gli uomini dalle loro infermità (cf. At 10,38). Il «giudizio» cioè la discriminazione tra chi crede e si salva chi non crede e si danna non è compiuta da Dio, né dal Cristo, ma dall’uomo stesso che accetta o rifiuta la proposta di Dio (la Parola) realizzatasi nella testimonianza di Gesù, l’unica «strada» che bisogna percorrere per arrivare al padre (Gv 14,6). «Come ho fatto io dovete fare anche voi», raccomanda Gesù ai suoi nel corso dell’ultima cena (13,15).

     L’uomo per salvarsi deve uscire dalle «tenebre» e passare nella zona della luce cioè della verità e del bene. Il giudizio di approvazione e di condanna non è il pronunciamento, la sentenza di un tribunale eretto davanti all’uomo, ma proviene dal suo intimo; dalla sintonia o dal disaccordo con il suo «io» migliore.

     Il Cristo risorto (3,14-15) vive in un mondo nuovo di cui nessuno, che è ancora sulla terra, può conoscere, ma vi si avvicina, e un giorno vi entrerà a far parte solo chi si lascia irradiare dalla carità di Dio che ha avuto la sua più alta illustrazione nella testimonianza di Gesù, il suo unigenito. 

Meditazione 

     Le tre letture bibliche orientano l’odierna celebrazione della Trinità divina verso la contemplazione del Dio estroverso, del Dio che si comunica all’uomo, del Dio il cui amore è per il mondo, insomma del Deus pro nobis. Del resto, il dogma trinitario non è altro che «lo sforzo ostinato di andare sino in fondo all’affermazione giovannea per cui “Dio è amore” (1Gv 4,8)» (Rémi Brague).

     Dopo il peccato del vitello d’oro, Dio si manifesta una seconda volta ai figli d’Israele scendendo sul Sinai per comunicare loro il suo Nome che lo rivela quale compassionevole e misericordioso, capace di grazia e di perdono. È il Dio condiscendente, che scende per raggiungere l’uomo nel suo peccato (prima lettura). Il vangelo presenta il Dio che ama a tal punto il mondo, l’umanità, da donare il suo Figlio per la salvezza del mondo. Il figlio unico è tutta la vita di un padre, è ciò che egli più ama di tutto ciò che ama: il Dio che dona il Figlio è il Dio mosso da amore folle. Vi è un eccesso nell’amare di Dio e questo eccesso è il Figlio Gesù Cristo. La benedizione presente nella seconda lettura vuole stabilire la presenza di Dio nella comunità dei cristiani di Corinto. Questi sono pertanto esortati ad accogliere e a lasciar operare tra di loro la grazia del Signore Gesù Cristo, l’amore di Dio e la comunione dello Spirito santo.

     Sempre la presenza di Dio necessita di una mediazione umana per essere colta come presenza di benedizione e di amore. Mosè, innocente del peccato commesso dai figli d’Israele si mette liberamente nel novero dei peccatori («perdona la nostra colpa e il nostro peccato»: Es 34,9) per intercedere presso Dio a favore del popolo. Gesù narra con la prassi della sua vita e con la sua auto-donazione l’amore folle di Dio per gli uomini. Pao-lo, con il suo ministero e la sua paternità apostolica, cerca di fare della comunità di Corinto una dimora del «Dio dell’amore e della pace» (2Cor 13,11).

     L’azione del Dio trinitario è perdono (prima lettura), amore (vangelo), comunione (seconda lettura) e può essere esperita grazie alla fede (vangelo).

     «Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio, unigenito» (Gv 3,16). Letteralmente, questo è l’inizio del nostro testo evangelico. Che sottolinea la modalità dell’amore di Dio, modalità che rinvia a quanto detto nei versetti precedenti che parlano della necessità dell’innalzamento del Figlio dell’uomo (Gv 3,14-15) fondandola sulla continuità con il gesto di Mosè che innalzò il serpente nel deserto affinché chiunque lo guardasse, avesse vita. C’è dunque un così, una modalità, una forma dell’amore di Dio che è anzitutto fedeltà. Fedeltà di Dio al popolo con cui si è legato in alleanza, alla storia condotta con il popolo, al suo Nome in cui la misura della misericordia sovrasta di gran lunga la misura del giudizio (Es 34,6-7). Si tratta di fedeltà a colui che è infedele e di amore per colui che non vi corrisponde: la fedeltà e l’amore di Dio diventano la sua responsabilità nei confronti degli uomini peccatori. Solo così l’amore di Dio è davvero per il mondo, per l’umanità tutta, per ogni uomo. E solo così il suo amore, unilaterale e incondizionato, non condanna, ma salva.

     Così Dio amò. La forma verbale del verbo amare rinvia a un evento storico preciso: la morte in croce di Gesù (cfr. Rm 5,8). L’amore di Dio manifestato sulla croce assume la forma dello scandalo, dell’eccesso che, nella sua unilateralità e smisuratezza, sconvolge i parametri umani di reciprocità, corrispondenza e contraccambio dell’amore. Il dono sovrabbondante insito nell’evento della croce è il perdono di Dio, l’amore che Dio già pre-dispone per colui che pecca e che peccherà.

     Così Dio amò. Il Dio che ama è anche il Dio che soffre. Donare il Figlio è mettere a rischio la propria paternità pur di non rinunciare a cercare comunione con gli uomini. Il Dio trinitario è il Dio che non sta senza l’uomo. E l’uomo, situandosi per fede in Cristo e lasciandosi guidare dallo Spirito abita l’agape, l’amore, e così conosce la comunione con Dio. Con il Dio che è amore. L’agape, infatti, è il cuore della vita trinitaria.

Preghiere e racconti

Si racconta che un giorno S. Agostino, grandissimo sapiente della Chiesa era molto rammaricato per non essere riuscito a capire gran che del mistero della Trinità. Mentre pensava a queste cose e camminava lungo la spiaggia vide un bambino che faceva una cosa molto strana aveva scavato una buca nella sabbia e con un cucchiaino andava al mare prendeva l acqua e la versava nel fosso. E così di seguito. E il santo si avvicina con molta delicatezza e gli chiede Che cos è che stai facendo E il ragazzo Voglio mettere tutta l acqua del mare in questo fosso S. Agostino sentendo ciò rispose Ammiro il desiderio che hai di raccogliere tutto il mare. Ma come puoi pensare di riuscirci Il mare è immenso e il fosso è piccolo. E poi con questo cucchiaino non basta la tua vita E il ragazzo che era un angelo mandato da Dio gli rispose E tu come puoi pretendere di contenere nella tua testolina l infinito mistero di Dio Agostino capì che Dio è un grande mistero. E capì che il Padre il Figlio e lo Spirito Santo erano così pieni di amore che insieme dovevano divertirsi proprio un mondo.

La famiglia, icona della Trinità

Il Signore benedica tutti i vostri progetti, miei cari fratelli. Il Signore vi dia la gioia di vivere anche l’esperienza parrocchiale in termini di famiglia. Prendiamo come modello la Santissima Trinità: Padre, Figlio e Spirito che si amano, in cui la luce gira dall’uno all’altro, l’amore, la vita, il sangue è sempre lo stesso rigeneratore dal Padre al Figlio allo Spirito, e si vogliono bene.

Il Padre il Figlio e lo Spirito hanno spezzato questo circuito un giorno e hanno voluto inserire pure noi, fratelli di Gesù. Tutti quanti noi.

Quindi invece che tre lampade, ci siamo tutti quanti noi in questo circuito per cui e la parrocchia e le vostre famiglie prendano a modello la Santissima Trinità.

Difatti la vostra famiglia dovrebbe essere l’icona della Trinità. La parrocchia, la chiesa dovrebbe essere l’icona della Trinità.

Signore, fammi finire di parlare, ma soprattutto configgi nella mente di tutti questi miei fratelli il bisogno di vivere questa esperienza grande, unica che adesso stiamo sperimentando in modo frammentario, diviso, doloroso, quello della comunione, perché la comunione reca dolore anche, tant’è che quando si spezza, tu ne soffri.

Quando si rompe un’amicizia, si piange. Quando si rompe una famiglia, ci sono i segni della distruzione.

La comunione adesso è dolorosa, è costosa, è faticosa anche quella più bella, anche quella fra madre e figlio; è contaminata dalla sofferenza. Un giorno, Signore, questa comunione la vivremo in pienezza. Saremo tutt’uno con te.

Ti preghiamo, Signore, su questa terra così arida, fa’ che tutti noi possiamo già spargere la semente di quella comunione irreversibile, che un giorno vivremo con te.

(Don Tonino Bello)

O mio Dio, Trinità che adoro

Aiutami a dimenticarmi interamente, per stabilirmi in te, immobile e tranquilla come se l’anima mia già fosse nell’eternità. Nulla possa turbare la mia pace ne farmi uscire da te, o mio Immutabile; ma ogni istante mi immerga sempre più nelle profondità del tuo mistero! Pacifica l’anima mia; fanne il tuo cielo, la tua dimora prediletta e luogo del tuo riposo. Che, qui, io non ti lasci mai solo; ma tutta io vi sia,  ben desta nella mia fede, immersa nell’adorazione, pienamente abbandonata alla tua azione creatrice.          

O amato mio Cristo, crocifisso per amore, vorrei essere una sposa per il tuo cuore, vorrei coprirti di gloria, vorrei amarti… fino a morirne! […]. Ma sento tutta la mia impotenza; e ti prego di rivestirmi di te, di immedesimare la mia anima a tutti i movimenti dell’anima tua, di sommergermi, di invadermi, di sostituirti a me, affinché la mia vita non sia che una irradiazione della tua Vita vieni in me come Adoratore, come Riparatore e come Salvatore. O Verbo eterno, Parola del mio Dio, voglio passar la mia vita ad ascoltarti, voglio rendermi docilissima a ogni tuo insegnamento, per imparare tutto da te; e poi, nelle notti dello spirito, nel vuoto, nell’impotenza, voglio fissarti sempre e starmene sotto il tuo grande splendore. O mio Astro adorato, affascinami, perché io non possa più sottrarmi alla tua irradiazione.

O Fuoco consumatore, Spirito d’amore, discendi in me, perché faccia dell’anima mia quasi una incarnazione del Verbo! Che io gli sia prolungamento di umanità in cui egli possa rinnovare tutto il suo mistero. E tu, o Padre, chinati verso la tua povera, piccola creatura, coprila della tua ombra, non vedere in essa che il Diletto nel quale hai posto le tue compiacenze.

O miei ‘Tre’, mio Tutto, Beatitudine mia, Solitudine infinita, Immensità nella quale mi perdo, io mi abbandono a voi come una preda. Seppellitevi in me perché io mi seppellisca in voi, in attesa di venire a contemplare nella vostra Luce l’abisso delle vostre grandezze.

(ELISABETTA DELLA TRINITÀ, Scritti spirituali di Elisabetta della Trinità, Brescia 1961, 73s.).

Dio è amore

Al nonno, professore universitario, che cercava di trasmettergli il concetto che “Dio è onnisciente, onnipotente, non ha bisogno di nulla, basta a se stesso, insomma è tutto!” il nipotino di cinque anni rivolge a bruciapelo questa domanda inaspettata: “ma senti un po’ nonno, se Dio è tutto perché ha fatto il mondo?

Quando mi raccontarono il fatto rimasi sbalordito, ero appena uscito dalla lettura di due testi, il primo di un fisico, premio Nobel, Steve Weinberg che chiudeva il suo libro sull’origine dell’universo con una frase più o meno simile: quanto più l’universo ci diventa noto, tanto più non riusciamo a spiegarcene il perché, ci resta incomprensibile. Il secondo libro era di un teologo, Hans Urs von Balthasar, il quale affermava che: il mondo rimane per noi incomprensibile non soltanto se Dio non c’è, ma anche se Dio c’è e non è Amore.

La domanda “se Dio è tutto perché ha creato il mondo?” può avere una sola risposta: perché Dio è Amore.

Sopra tutti è il Padre, con tutti il Verbo, in tutti lo Spirito

La fede ci fa innanzitutto ricordare che abbiamo ricevuto il battesimo per il perdono dei peccati nel nome di Dio Padre, nel nome di Gesù Cristo, il Figlio di Dio fatto carne, morto e risorto, e nello Spirito santo di Dio; ci ricorda ancora che il battesimo è il sigillo della vita eterna e la nuova nascita in Dio, di modo che d’ora in avanti non siamo più figli di uomini mortali ma figli del Dio eterno; ci ricorda ancora che Dio che è da sempre, è al di sopra di tutte le cose venute all’esistenza, che tutto è a lui sottomesso e che tutto ciò che è a lui sottomesso da lui è stato creato.

Dio perciò esercita la sua autorità non su ciò che appartiene a un altro, ma su ciò che è suo e tutto è suo, perché Dio è onnipotente e tutto proviene da lui […] C’è un solo Dio, Padre, increato, invisibile, creatore di tutte le cose, al di sopra del quale non c’è altro Dio come non esiste dopo di lui. Dio possiede il Verbo e tramite il suo Verbo ha fatto tutte le cose. Dio è ugualmente Spirito ed è per questo che ha ordinato tutte le cose attraverso il suo Spirito. Come dice il profeta: «Con la parola del Signore sono stati stabiliti i cieli e per opera dello Spirito tutta la loro potenza» [Sal 32 (33) ,6]. Ora, poiché il Verbo stabilisce, cioè crea e consolida tutto ciò che esiste, mentre lo Spirito ordina e da forma alle diverse potenze, giustamente e correttamente il Figlio è chiamato Verbo e lo Spirito Sapienza di Dio. A ragione dunque anche l’apostolo Paolo dice: «Un solo Dio, Padre, che è al di sopra di tutto, con tutto e in tutti noi» (Ef 4,6). Perciò sopra tutte le cose è il Padre, ma con tutte è il Verbo, perché attraverso di lui il Padre ha creato l’universo; e in tutti noi è lo Spirito che grida «Abba, Padre» (Gal 4,6) e ha plasmato l’uomo a somiglianza di Dio.

(IRENEO, Dimostrazione della fede apostolica 3-5, SC 406, pp. 88-90).

Oggi è la Domenica della Santissima Trinità

La luce del tempo pasquale e della Pentecoste rinnova ogni anno in noi la gioia e lo stupore della fede: riconosciamo che Dio non è qualcosa di vago, il nostro Dio non è un Dio “spray”, è concreto, non è un astratto, ma ha un nome: «Dio è amore». Non è un amore sentimentale, emotivo, ma l’amore del Padre che è all’origine di ogni vita, l’amore del Figlio che muore sulla croce e risorge, l’amore dello Spirito che rinnova l’uomo e il mondo. Pensare che Dio è amore ci fa tanto bene, perché ci insegna ad amare, a donarci agli altri come Gesù si è donato a noi, e cammina con noi. Gesù cammina con noi nella strada della vita.

La Santissima Trinità non è il prodotto di ragionamenti umani; è il volto con cui Dio stesso si è rivelato, non dall’alto di una cattedra, ma camminando con l’umanità. E’ proprio Gesù che ci ha rivelato il Padre e che ci ha promesso lo Spirito Santo. Dio ha camminato con il suo popolo nella storia del popolo d’Israele e Gesù ha camminato sempre con noi e ci ha promesso lo Spirito Santo che è fuoco, che ci insegna tutto quello che noi non sappiamo, che dentro di noi ci guida, ci dà delle buone idee e delle buone ispirazioni.

Oggi lodiamo Dio non per un particolare mistero, ma per Lui stesso, «per la sua gloria immensa», come dice l’inno liturgico. Lo lodiamo e lo ringraziamo perché è Amore, e perché ci chiama ad entrare nell’abbraccio della sua comunione, che è la vita eterna.

Affidiamo la nostra lode alle mani della Vergine Maria. Lei, la più umile tra le creature, grazie a Cristo è già arrivata alla meta del pellegrinaggio terreno: è già nella gloria della Trinità. Per questo Maria nostra Madre, la Madonna, risplende per noi come segno di sicura speranza. E’ la Madre della speranza; nel nostro cammino, nella nostra strada, Lei è la Madre della speranza. E’ la Madre anche che ci consola, la Madre della consolazione e la Madre che ci accompagna nel cammino. Adesso preghiamo la Madonna tutti insieme, a nostra Madre che ci accompagna nel cammino.

(PAPA FRANCESCO, Angelus, Piazza San Pietro, Solennità della Santissima Trinità, Domenica, 26 maggio 2013).

Preghiera

Ancora e sempre sul monte di luce                                   

Cristo ci guidi perché comprendiamo                                

il suo mistero di Dio e di uomo,

umanità che si apre al divino.

Ora sappiamo che è il figlio diletto

in cui Dio Padre si è compiaciuto;

ancor risuona la voce: «Ascoltatelo»,

perché egli solo ha parole di vita.

In lui soltanto l’umana natura

trasfigurata è in presenza divina,

in lui già ora son giunti a pienezza

giorni e millenni, e legge e profeti.

Andiamo dunque al monte di luce,

liberi andiamo da ogni possesso;

solo dal monte possiamo diffondere

luce e speranza per ogni fratello. 

Al Padre, al Figlio, allo Spirito santo

gloria cantiamo esultanti per sempre:

cantiamo lode perché questo è il tempo

in cui fiorisce la luce del mondo.

(D.M. Turoldo).

  

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

 

Temi di predicazione. Omelie. Ciclo A, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2004;2007-.

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

– Comunità domenicana di Santa Maria delle Grazie, La grazia della predicazione. Tempo di Quaresima e Tempo di Pasqua, in «Allegato redazionale alla Rivista del Clero Italiano»  95 (2014) 2, pp.67.

– C.M. MARTINI, Incontro al Signore risorto. Il cuore dello spirito cristiano, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009.

– E. BIANCHI et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Tempo ordinario anno A, Milano, vita e Pensiero, 2010.

– J.M. NOUWEN, Un ricordo che guida, in ID., Mostrami il cammino. Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003.

– F. ARMELLI, Ascoltarti è una festa. Le letture domenicali spiegate alla comunità. Anno A, Padova, Messaggero, 2001.  

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù,  Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.    

PER L’APPROFONDIMENTO PERSONALE:

SANTISSIMA TRINITÀ