IV DOMENICA DI PASQUA

Prima lettura: Atti 2,14.36-41

[Nel giorno di Pentecoste,] Pietro con gli Undici si alzò in piedi e a voce alta parlò così: «Sappia con certezza tutta la casa d’Israele che Dio ha costituito Signore e Cristo quel Gesù che voi avete crocifisso». All’udire queste cose si sentirono trafiggere il cuore e dissero a Pietro e agli altri apostoli: «Che cosa dobbiamo fare, fratelli?». E Pietro disse loro: «Convertitevi e ciascuno di voi si faccia battezzare nel nome di Gesù Cristo, per il perdono dei vostri peccati, e riceverete il dono dello Spirito Santo. Per voi infatti è la promessa e per i vostri figli e per tutti quelli che sono lontani, quanti ne chiamerà il Signore Dio nostro». Con molte altre parole rendeva testimonianza e li esortava: «Salvatevi da questa generazione perversa!». Allora coloro che accolsero la sua parola furono battezzati e quel giorno furono aggiunte circa tremila persone. 

 

Questo è un brano del discorso che Pietro ha fatto il giorno di Pentecoste. Egli parlando agli Ebrei usa alcuni testi importanti dell’Antico Testamento per interpretarli alla luce di Gesù Cristo. Davanti alla folla Pietro annuncia il Vangelo, la Buona Notizia che può cambiare la loro vita: «Sappia con certezza tutta la casa d’Israele che Dio ha costituito Signore e Cristo quel Gesù che voi avete crocifisso» (v. 36). L’annuncio di Pietro non era facile da accogliere dal popolo ebraico: il Messia promesso dai profeti e da loro atteso come un liberatore era in realtà un uomo crocifisso come un malfattore. Non solo: è lui il Signore, l’Adonai, il Dio del Sinai. Ma Pietro ha ricevuto in quel giorno lo stesso spirito di Cristo risorto e può annunciare con sicurezza, che Gesù è il Signore, e ora ha potere su qualsiasi debolezza dell’uomo.

     La Parola è ascoltata dalla folla, e dall’ascolto sboccia la fede che porta a domandare: «Che cosa dobbiamo fare, fratelli?». La risposta è: «Convertitevi». Convertirsi significa cambiare mentalità, abbandonare le proprie sicurezze derivate dalla legge e rivolgersi a Cristo, l’autore della vita: «ciascuno di voi si faccia battezzare nel nome di Gesù Cristo, per il perdono dei vostri peccati» (v. 38). Essere battezzati significa essere immersi in Cristo, essere uniti strettamente a lui, partecipando alla sua sorte: alla sua morte e alla sua risurrezione.                                  

     Questo però avviene mediante il perdono dei peccati, i quali tengono l’uomo schiavo della propria autosufficienza, e con il dono dello Spirito Santo, che distingue il battesimo di Gesù da quello di Giovanni.

 

Seconda lettura: 1 Pietro 2,20b-25

Carissimi, se, facendo il bene, sopporterete con pazienza la sofferenza, ciò sarà gradito davanti a Dio. A questo infatti siete stati chiamati, perché anche Cristo patì per voi, lasciandovi un esempio,  perché ne seguiate le orme: egli non commise peccato e non si trovò inganno sulla sua bocca; insultato, non rispondeva con insulti, maltrattato, non minacciava vendetta, ma si affidava a colui che giudica con giustizia.

     Egli portò i nostri peccati nel suo corpo sul legno della croce, perché, non vivendo più per il peccato, vivessimo per la giustizia; dalle sue piaghe siete stati guariti. Eravate erranti come pecore, ma ora siete stati ricondotti al pastore e custode delle vostre anime.      

 

Anche in questa lettura risuona la Buona Notizia, il Vangelo di Pietro.

Qui egli presenta il cristiano, che ha ascoltato la parola, vi ha creduto, si è convertito al Signore, è stato battezzato, ma ora vive in una società che non sopporta la sua presenza. Il cristiano con il battesimo ha ricevuto la natura stessa di Cristo, e ora ne può seguire le orme (v. 2). La strada è già stata tracciata: è quella della croce, dell’amore al nemico, come quella di Gesù che «oltraggiato non rispondeva con oltraggi» (v. 23). È lo spirito del

Servo sofferente profetizzato da Is 53, che «portò i nostri peccati nel suo corpo sul legno della croce perché non vivendo più per il peccato vivessimo per la giustizia» (v. 24).

     Versando il sangue sull’altare della croce, Cristo ha espiato i nostri peccati e li ha demoliti. Ora è possibile quindi vivere con rettitudine morale come è stabilito da Dio. Se prima gli uomini erano un gregge senza pastore, ora si realizza quanto anticipato profetizzato da Ez 34,16: «Io stesso, dice il Signore, andrò in cerca della pecora perduta e ricondurrò all’ovile quella smarrita; fascerò quella ferita e curerò quella malata; avrò cura della grassa e della forte; le pascerò con giustizia». La Chiesa perseguitata è invitata da Pietro a guardare con fiducia a Gesù Cristo come al vero pastore e al guardiano fedele (v. 25).

 

Vangelo: Giovanni 10,1-10

In quel tempo, Gesù disse: «In verità, in verità io vi dico: chi non entra nel recinto delle pecore dalla porta, ma vi sale da un’altra parte, è un ladro e un brigante. Chi invece entra dalla porta, è pastore delle pecore. Il guardiano gli apre e le pecore ascoltano la sua voce: egli chiama le sue pecore, ciascuna per nome, e le conduce fuori. E quando ha spinto fuori tutte le sue pecore, cammina davanti a esse, e le pecore lo seguono perché conoscono la sua voce. Un estraneo invece non lo seguiranno, ma fuggiranno via da lui, perché non conoscono la voce degli estranei». Gesù disse loro questa similitudine, ma essi non capirono di che cosa parlava loro. Allora Gesù disse loro di nuovo: «In verità, in verità io vi dico: io sono la porta delle pecore. Tutti coloro che sono venuti prima di me, sono ladri e briganti; ma le pecore non li hanno ascoltati. Io sono la porta: se uno entra attraverso di me, sarà salvato; entrerà e uscirà e troverà pascolo. Il ladro non viene se non per rubare, uccidere e distruggere; io sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza».    

 

Esegesi 

   Gesù si trova ancora a Gerusalemme per la festa delle Capanne.

Nell’ultimo giorno della festa aveva svelato la sua identità nel luogo sacro, il tempio: «Prima che Abramo fosse Io sono» (8,58). Aveva poi guarito il cieco nato per manifestare le opere di Dio (c. 9). Ora si dichiara il «Buon Pastore», che accoglie nella sua Chiesa i vari ciechi che hanno ricuperato la vista credendo in lui e facendosi battezzare, e che per questo sono scacciati dalla sinagoga.

     Le due parole fondamentali di questa parabola sono «recinto» e «porta». I recinti delle pecore erano fatti di un muricciolo dotato di una porta stretta, che dava la possibilità ai pastori di contare le pecore, che di notte venivano da loro affidate al custode. Al mattino seguente il custode apriva loro la porta del recinto ed essi chiamavano le loro pecore. Queste conoscevano solo la voce del loro pastore e seguivano solo lui, non gli estranei. Mentre uscivano il pastore le contava perché poteva accadere che durante la notte i banditi avessero scavalcato il recinto facendo razzia delle pecore.

     Nella Bibbia, però, la parola «recinto» non viene usata mai per indicare un luogo destinato agli animali, ma lo spazio dove, durante l’Esodo, si trovava la Tenda del Convegno. Più tardi il termine indicava i cortili del tempio. Gesù quindi si sta riferendo alle istituzioni di Israele, che nella Legge hanno la loro massima espressione.

     Per i farisei la legge era un luogo dove si poteva entrare e basta: era un luogo chiuso. Le pecore, l’intero popolo d’Israele, dovevano entrare solo in questo recinto, sottostando alle loro interpretazioni della legge, che generalmente erano molto gravose. Questo recinto per Gesù ha una «porta», dalla quale egli chiama le sue pecore una per una facendole uscire. Altre pecore che si trovano in quel recinto non conoscono la sua voce o non la vogliono ascoltare. Le sue pecore invece lo seguono, Gesù rivela inoltre di essere la «porta» non del recinto, ma del tempio di Dio. Nessuno può entrare nella casa di Dio senza passare per Gesù. Lui è l’unico che può condurre alla salvezza le pecore. Chi sta in lui sperimenta la libertà: «entrerà e uscirà e troverà pascolo» (v. 9). Solo lui è in grado di donare la vita eterna. Nessun altro invece ha il potere di donare la vita.

 

Meditazione

     La quarta domenica di Pasqua contempla il Risorto quale pastore della chiesa. Il pastore indica al gregge la via da percorrere e il Cristo-Pastore indica alla chiesa la via che essa deve seguire. Via che, secondo la prima lettura, si chiama conversione.«Convertitevi» (Metanoésate: At 2,38), risponde Pietro alle folle di Gerusalemme che gli chiedevano: «Che cosa dobbiamo fare, fratelli?» (At 2,37). L’attività pastorale degli apostoli suscita un itinerario che, a partire dall’ascolto della parola predicata e dalla fede, si dipana in alcune tappe: conversione; battesimo; remissione dei peccati; effusione dello Spirito. Tutto questo conduce all’aggregazione alla comunità cristiana (At 2,41). La seconda lettura mostra il modello di questo cammino di salvezza: Cristo. Il Cristo che ha sofferto la passione e la morte lascia ai suoi seguaci un tracciato affinché seguano le sue orme (1 Pt 2,21). Così essi, come pecore prima smarrite, possono tornare al loro pastore e custode (1 Pt 2,25). Il vangelo ribadisce che Cristo è la porta attraverso cui deve passare il cammino del discepolo: si tratta di un cammino spirituale di ascolto, sequela e conoscenza del Signore.

    La rivelazione di Gesù quale pastore diviene anche giudizio di chi è ladro, brigante, estraneo. Se il pastore Gesù è venuto per dare la vita e perché gli uomini abbiano la vita in abbondanza, ladri e briganti invece vengono per «rubare, sacrificare (CEI: uccidere) e far perire» (Gv 10,10). Di costoro Gesù dice che «sono venuti prima di me», ma questo non va inteso in senso cronologico, quasi che si riferisse ai personaggi della prima alleanza. Ignazio di Antiochia ha compreso bene: «Cristo è la porta del Padre, attraverso la quale entrano Abramo, Isacco e Giacobbe, i profeti, gli apostoli e la chiesa» (Ai Filadelfiesi IX, 1). Si tratta invece dei falsi messia che si presentano agli uomini avanzando la pretesa di essere dei salvatori: quand’anche venissero dopo (cronologicamente) rispetto a Gesù, essi rientrerebbero nel novero degli usurpatori qui intravisti. Il criterio discriminante che dice l’autenticità della missione è nel sottrarre per sé o nel donare, nel portare morte o nel portare vita. In particolare viene condannato il sacrificare: ovvero, il togliere vita in nome di Dio, il servirsi delle persone per fini religiosi fino ad annientarle, l’usare il nome di Dio e la religione per fare violenza, il togliere la libertà alle persone dando forma nuova agli antichi sacrifici umani.

Ladro e brigante è chi si erge a padrone del gregge considerando «sue» le persone che appartengono a Cristo. Il Sal 100 recita: «Riconoscete che il Signore è Dio, è lui che ci ha fatto e non noi, noi siamo suo popolo e gregge del suo pascolo» (Sal 100,3). Non noi, ma tu, Signore; non io, ma tu, Signore. Questa confessione della nostra radicale povertà – non io, ma tu -, è anche la condizione della preghiera, il movimento della fede e dell’amore che nasce dalla rivelazione che Gesù, il Cristo crocifisso e risorto, è il pastore delle pecore.          Gesù si autodefinisce porta delle pecore, cioè per le pecore, non porta del recinto. Il termine «recinto» è espresso in greco dal vocabolo aule che si riferisce normalmente non a un ovile, ma al vestibolo davanti al tabernacolo o al Tempio (Es 27,9; 2Cr 6,13; 11,16; Ap 11,12). Ovvero, la porta che immette nella comunione con Dio non è il tempio di Gerusalemme, ma il Cristo morto e risorto. Se Cristo è la porta che conduce alla salvezza (Gv 10,9) e se la porta fa parte dell’edificio a cui permette l’accesso, Gesù è al tempo stesso il mediatore della salvezza e la salvezza stessa. Gesù è la Via verso il Padre, ma è anche la Vita (Gv 14,6): in Gesù troviamo la vita del Padre. Il pastore «fa uscire» le sue pecore (10,3: Vulgata: educit). 

Il pastore immette in un cammino di esodo, dunque di liberazione. Compito del pastore è educare alla libertà. Egli chiama per nome ciascuna delle sue pecore e le educa conducendole a vivere in nome proprio. L’educazione è il luogo dell’assunzione della responsabilità nei confronti di chi viene dopo di noi; è uno degli aspetti del ministero.

 

Preghiere e racconti

L’arte paleocristiana che fiorisce nelle catacombe si radica nel mondo ebraico che rifiuta l’immagine, ma si sviluppa nell’ambiente romano fortemente figurativo. In questo clima l’esigenza espressiva del cristianesimo si risolve nell’uso dei simboli, immagini che esprimono le realtà spirituali, tratte sovente del mondo ellenistico romano, ma interpretate in senso cristiano. Tra questi il BUON PASTORE, immagine frequente nel repertorio mitologico artistico romano, auspicio di pace per i defunti. Entrato nel simbolismo cristiano venne molto utilizzato nella pittura dei cubicoli, nei sarcofagi e anche nelle epigrafi, segno dell’anima portata nella pace, da Cristo pastore puro. Divenne presto l’immagine del Buon Pastore (o “Bel Pastore” secondo l’originale greco) che va in cerca della pecorella smarrita, usata da Gesù stesso nella parabola (Lc 15,3-7; Gv 10,11-16) per esprimere il suo amore di Salvatore.

 (Catacomba di Priscilla – Buon Pastore sec.II-in.III).

Giornata mondiale di preghiera per le vocazioni

Cari fratelli e sorelle,in questa quarta Domenica di Pasqua, detta “del Buon Pastore”, si celebra la Giornata mondiale di preghiera per le vocazioni, che quest’anno ha per tema: “La testimonianza suscita vocazioni”, tema “strettamente legato alla vita e alla missione dei sacerdoti e dei consacrati” (Messaggio per la XLVII G. M. di preghiera per le vocazioni, 13 novembre 2009). La prima forma di testimonianza che suscita vocazioni è la preghiera (cfr ibid.), come ci mostra l’esempio di santa Monica che, supplicando Dio con umiltà ed insistenza, ottenne la grazia di veder diventare cristiano suo figlio Agostino, il quale scrive: “Senza incertezze credo e affermo che per le sue preghiere Dio mi ha concesso l’intenzione di non preporre, non volere, non pensare, non amare altro che il raggiungimento della verità” (De Ordine II, 20, 52, CCL 29, 136). Invito, pertanto, i genitori a pregare, perché il cuore dei figli si apra all’ascolto del Buon Pastore, e “ogni più piccolo germe di vocazione … diventi albero rigoglioso, carico di frutti per il bene della Chiesa e dell’intera umanità” (Messaggio cit.). Come possiamo ascoltare la voce del Signore e riconoscerlo? Nella predicazione degli Apostoli e dei loro successori: in essa risuona la voce di Cristo, che chiama alla comunione con Dio e alla pienezza della vita, come leggiamo oggi nel Vangelo di san Giovanni: “Le mie pecore ascoltano la mia voce ed esse mi seguono. Io do loro la vita eterna e non andranno perdute in eterno e nessuno le strapperà dalla mia mano” (Gv 10,27-28).

(Benedetto XVI, Le parole del Papa nell’introdurre la preghiera mariana del tempo pasquale, REGINA CÆLI, 25-04-2010).

 

Preghiera per le vocazioni sacerdotali

Signore Gesù, guida e pastore del tuo popolo,

tu hai chiamato nella Chiesa

San Giovanni Maria Vianney,

curato d’Ars, come tuo servo.

Sii benedetto per la santità della sua vita

e l’ammirabile fecondità del suo ministero.

Con la sua perseveranza

egli ha superato tutti gli ostacoli

nel cammino del sacerdozio.

Prete autentico,

attingeva dalla Celebrazione Eucaristica

e dall’adorazione silenziosa

l’ardore della sua carità pastorale

e la vitalità del suo zelo apostolico.

Per sua intercessione:

Tocca il cuore dei giovani

perché trovino nel suo esempio di vita

lo slancio per seguirti con lo stesso coraggio,

senza guardare indietro.

Rinnova il cuore dei preti

perché si donino con fervore e profondità

e sappiano fondare l’unità delle loro comunità

sull’Eucaristia, il perdono e l’amore reciproco.

Fortifica le famiglie cristiane

perché sostengano quei figli che tu hai chiamato.

Anche oggi, Signore, manda operai alla tua messe,

perché sia accolta la sfida evangelica del nostro tempo.

Siano numerosi i giovani che sanno fare

della loro vita un «ti amo» a servizio dei fratelli,

proprio come San Giovanni Maria Vianney.

Ascoltaci, o Signore, Pastore per l’eternità. Amen.

(Mons. Guy Bagnard, vescovo di Belley-Ars).

La nostra incapacità di ascoltare la buona novella di Dio

Ritengo che uno dei motivi per cui molti di noi non assimilano realmente questo messaggio di incondizionato amore divino, sia che ci soffermiamo eccessivamente su noi e sui nostri errori. Ci domandiamo senza sosta: chi sono perché il Signore mi ami? E invece dovremmo chiederci: chi sei mio Dio, per amarmi così tanto? Il Signore sa ed accetta il fatto che gli uomini sbaglino, perché tale è la condizione umana, ma dentro di noi c’è qualcosa che, come Simon Pietro, continua a protestare: “Signore, allontanati da me che sono un peccatore. Sono certo che non mi vuoi Vicino” (cfr. Lc 5,8).

La Parola di Dio ci ricorda che Dio ha inviato suo Figlio nel mondo non per condannare ma per amarci sottraendoci all’egoismo e dandoci la pienezza della vita (cfr. Gv 3,16-17). La Parola di Dio ci assicura che Gesù viene come ambasciatore del Padre, come Medico Divino, proprio perché siamo distrutti, contorti e malati. Gesù viene come Buon Pastore proprio perché gli esseri umani si perdono; viene a cercarci perché ci vuole con lui, perché vuole stringerci fra le sue braccia e festeggiare la gioia di averci trovato e di averci nuovamente accanto a lui.

(J. POWELL, Perché ho paura di essere pienamente me stesso, Milano, Gribaudi, 2002, 52-53).

Solo in Dio e solo a partire da Dio si conosce veramente l’uomo

«Ascoltiamo ancora una volta la frase decisiva: «Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, come il Padre conosce me e io conosco il Padre; e offro la vita per le pecore» (10,14s). In questa frase c’è ancora una seconda interrelazione di cui dobbiamo tenere conto. La conoscenza reciproca tra il Padre e il Figlio si intreccia con la conoscenza reciproca tra il pastore e le pecore. La conoscenza che lega Gesù ai suoi si trova all’interno della sua unione conoscitiva con il Padre. I suoi sono intessuti nel dialogo trinitario; lo vedremo di nuovo riflettendo sulla preghiera sacerdotale di Gesù. Allora potremo capire che la Chiesa e la Trinità sono intrecciate tra loro. Questa compenetrazione di due livelli del conoscere è molto importante per capire la natura della «conoscenza» di cui parla il Vangelo di Giovanni.

Applicando tutto al nostro orizzonte di vita, possiamo dire: solo in Dio e solo a partire da Dio si conosce veramente l’uomo. Un conoscersi che limita l’uomo alla dimensione empirica e afferrabile non raggiunge affatto la vera profondità dell’uomo. L’uomo conosce se stesso soltanto se impara a capirsi partendo da Dio, e conosce l’altro soltanto se scorge in lui il mistero di Dio. Per il pastore al servizio di Gesù ciò significa che egli non deve legare gli uomini a sé, al suo piccolo io.

La conoscenza reciproca che lo lega alle «pecore» a lui affidate deve mirare a introdursi a vicenda in Dio, a dirigersi verso di Lui; deve pertanto essere un ritrovarsi nella comunione della conoscenza e dell’amore di Dio. Il pastore al servizio di Gesù deve sempre condurre al di là di se stesso affinché l’altro trovi tutta la sua libertà; per questo anche egli stesso deve sempre andare al di là di se stesso verso l’unione con Gesù e con il Dio trinitario.

L’Io proprio di Gesù è sempre aperto al Padre, in intima comunione con Lui; Egli non è mai solo, ma esiste nel riceversi e ridonarsi al Padre. «La mia dottrina non è mia», il suo Io è l’Io aperto verso la Trinità.

Chi lo conosce «vede» il Padre, entra in questa sua comunione con il Padre. Proprio questo superamento dialogico presente nell’incontro con Gesù ci mostra di nuovo il vero pastore, che non si impossessa di noi, bensì ci conduce verso la libertà del nostro essere portandoci dentro la comunione con Dio e dando Egli stesso la sua vita».

(Joseph RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Città del Vaticano/Milano, Libreria Editrice Vaticana/Rizzoli, 2007, 326-328).

Il Signore è il mio pastore

     La Chiesa parla a Cristo: «II Signore mi conduce al pascolo e nulla mi mancherà» [Sal 22 (23), 1 ss.], il Signore Gesù Cristo è il mio pastore e nulla mi mancherà. «Mi ha posto nel luogo del pascolo», nel luogo dove inizia il pascolo mi ha condotto alla fede, qui mi ha posto per darmi nutrimento. «Presso acque di refrigerio mi ha allevato». Mi ha allevato con l’acqua del battesimo, in cui sono ristorati quanti hanno perduto l’integrità e le forze. Ha convertito la mia anima. Mi ha guidato su sentieri di giustizia a motivo del suo nome». Mi ha guidato negli stretti sentieri della sua giustizia che pochi percorrono e non a motivo dei miei meriti, ma a motivo del suo nome. «Infatti anche se camminassi in mezzo all’ombra della morte», cioè anche quando cammino in mezzo a questa vita, che è ombra di morte, «non temerò il male, perché tu sei con me», non temerò il male perché tu, grazie alla fede, abiti nel mio cuore, e ora sei con me affinché, dopo l’ombra della morte, io sia con te. «La tua verga e il tuo bastone, proprio loro mi hanno consolato». I tuoi insegnamenti sono come verga per il gregge delle pecore e come bastone per i figli ormai grandi che da una vita animale crescono fino a quella spirituale; non mi hanno rattristato, anzi da essi sono stato consolato perché tu ti ricordi di me. «Hai preparato una tavola dinanzi a me, di fronte a coloro che mi perseguitano». Dopo la verga con la quale io, piccolo e ancora animale ero condotto ai pascoli con il gregge, dopo quella verga, quando ho cominciato ad essere sotto il bastone, hai preparato una tavola davanti a me affinché io non sia più nutrito come un bambino con il latte, ma prenda il cibo come un adulto, reso saldo dinanzi a quelli che mi fanno soffrire. «Hai effuso olio sul mio capo», hai allietato la mia mente con la gioia spirituale. «E il tuo calice inebriante quanto è eccellente!», e il tuo calice che da l’oblio delle vanità passate, quanto è eccellente! «E la tua misericordia mi accompagnerà tutti i giorni della mia vita», cioè per quanto a lungo vivrò in questa vita mortale non tua, ma mia. «E affinché abiti nella casa del Signore per la lunghezza dei giorni», mi accompagnerà non soltanto qui, ma fino a quando abiterò nella casa del Signore in eterno.

(AGOSTINO DI IPPONA, Esposizione sul salmo 22, Opere di sant’Agostino XXV, pp. 312-314).

Il prete piccolo e grande

Un prete dev’essere contemporaneamente piccolo e grande,

nobile di spirito come di sangue reale,

semplice e naturale come di ceppo contadino,

una sorgente di santificazione,

un peccatore che Dio ha perdonato,

un servitore per i timidi e i deboli,

che non s’abbassa davanti ai potenti ma si curva davanti ai poveri,

discepolo del suo Signore,

capo del suo gregge,

un mendicante dalle mani largamente aperte,

una madre per confortare i malati,

con la saggezza dell’età e la fiducia d’un bambino,

teso verso l’alto,

i piedi sulla terra,

fatto per la gioia,

esperto del soffrire,

lontano da ogni invidia,

lungimirante,

che parla con franchezza,

un amico della pace,

un nemico dell’inerzia,

fedele per sempre…

Così differente da me!

     (Anonimo).

Solo Gesù può liberarmi totalmente

Nel Nuovo Testamento

la presenza di Gesù

con le sue parole e i suoi gesti

diviene una fonte inesauribile

d’ispirazione per la preghiera:

è Gesù che mi si accosta e m’interpella.

Gesù è il Buon Pastore

alla ricerca della pecora smarrita,

e io lo seguo.

Gesù è la vigna;

Dio, il vignaiolo, mi monda dei rami malati

perché io possa dare buoni frutti.

Alla moltiplicazione dei pani,

è Gesù che m’invita

a offrirgli la mia povertà

– cinque pani e due pesci –

perché egli se ne serva

per compiere meraviglie.

Alla pesca miracolosa,

è Gesù che mi chiede

una fiducia assoluta nella sua parola

più che nei miei mezzi umani.

In occasione di numerose guarigioni,

Gesù mi rammenta                                            

che lui solo può liberarmi totalmente.

(Jean -Jacques Gareau),

Preghiera

Gesù, pastore e pascolo dei tuoi fedeli,

guida sicura e sentiero di vita,

tu che conosci tutti per nome e ci chiami ogni giorno a uno a uno,

rendici capaci di riconoscere la tua voce,

di sentire il calore della tua presenza che ci avvolge,

anche quando la strada è angusta, impraticabile,

e la notte profonda, interminabile.

Seguendoti senza resistenze e senza paure,

giungeremo ai prati verdeggianti,

alle fresche sorgenti della tua dimora,

dove tu ci farai bere e riposare.

 

  

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Temi di predicazione. Omelie. Ciclo A, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2004;2007-.

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

– Comunità domenicana di Santa Maria delle Grazie, La grazia della predicazione. Tempo di Quaresima e Tempo di Pasqua, in «Allegato redazionale alla Rivista del Clero Italiano»  95 (2014) 2, pp.67.

– C.M. MARTINI, Incontro al Signore risorto. Il cuore dello spirito cristiano, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009.

– E. BIANCHI et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Tempo ordinario anno A, Milano, vita e Pensiero, 2010.

– J.M. NOUWEN, Un ricordo che guida, in ID., Mostrami il cammino. Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003.

– F. ARMELLI, Ascoltarti è una festa. Le letture domenicali spiegate alla comunità. Anno A, Padova, Messaggero, 2001.  

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù,  Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– UFFICIO LITURGICO NAZIONALE (CEI), Svuotò se stesso… Da ricco che era si è fatto povero per voi. Sussidio CEI quaresima-pasqua 2014.

   PER L’APPROFONDIMENTO:

PASQUA IV DOMENICA DI PASQUA (A)