PENTECOSTE

Prima lettura: Atti 2,1-11

Mentre stava compiendosi il giorno della Pentecoste, si trovavano tutti insieme nello stesso luogo. Venne all’improvviso dal cielo un fragore, quasi un vento che si abbatte impetuoso, e riempì tutta la casa dove stavano. Apparvero loro lingue come di fuoco, che si dividevano, e si posarono su ciascuno di loro, e tutti furono colmati di Spirito Santo e cominciarono a parlare in altre lingue, nel modo in cui lo Spirito dava loro il potere di esprimersi. Abitavano allora a Gerusalemme Giudei osservanti, di ogni nazione che è sotto il cielo. A quel rumore, la folla si radunò e rimase turbata, perché ciascuno li udiva parlare nella propria lingua. Erano stupiti e, fuori di sé per la meraviglia, dicevano: «Tutti costoro che parlano non sono forse Galilei? E come mai ciascuno di noi sente parlare nella propria lingua nativa? Siamo Parti, Medi, Elamìti; abitanti della Mesopotamia, della Giudea e della Cappadòcia, del Ponto e dell’Asia, della Frigia e della Panfìlia, dell’Egitto e delle parti della Libia vicino a Cirene, Romani qui residenti, Giudei e proséliti, Cretesi e Arabi, e li udiamo parlare nelle nostre lingue delle grandi opere di Dio».

 

L’azione formativa di Gesù sulla comunità apostolica era sostanzialmente completata. Mancava però un elemento, certo non trascurabile, per conferire organicità, profondità, pienezza di vedute e forza di azione. Gesù stesso lo aveva richiamato, esigendo dagli apostoli di non muoversi da Gerusalemme prima del compimento della promessa (cf. At 1,4). In modo esplicito, poi, aveva parlato della forza dello Spirito Santo che li avrebbe resi testimoni a Gerusalemme e nel mondo intero (cf. v. 8).

     Luca ci regala nel secondo capitolo degli Atti due splendide icone, quella dello Spirito (2,1-13) e quella della Parola (2,14-41). La seconda dipende in modo determinante dalla prima: lo Spirito è la forza aggregante che fa di vari gruppi una comunità; la Parola è il dono che la comunità ha il compito di vivere e di comunicare agli altri. La lettura odierna si interessa della prima parte del capitolo, composta da una introduzione, con soggetto e luogo (v. 1), dalla rappresentazione del fatto e delle sue conseguenze sugli interessati (vv. 2-4), e, infine, dall’effetto su scala mondiale (vv. 5-11).

     Il giorno di pentecoste segna il compimento della formazione data da Gesù. La piccola e timorosa comunità ecclesiale sta riunita insieme. Possiamo ritenere che sia la stessa, vista precedentemente raccolta in preghiera e formata da apostoli e laici, da uomini e donne (cf. At 1,14). «Mentre stava compiendosi il giorno…» indica, più che una conclusione (sono appena le ore 9 del mattino), un compimento, come ben suggerisce il verbo greco, symplêroô, allusione al compimento di una storia di promesse e di attese (cf. Lc 9,51).

     L’esperienza dello Spirito avviene mediante i segni teofanici del vento e del fuoco che vengono dal cielo; non si tratta di suggestione umana, bensì di dono dall’alto. L’esperienza è soprattutto interiore, ma c’è bisogno di un riscontro esteriore che documenti la nuova realtà (cf. il caso del paralitico di Mt 9,l-8). Ecco allora il «parlare in altre lingue». Forse per questo nuovo parlare in lingue si propone l’immagine di «lingue come di fuoco». A detta di Fabris, questa immagine è suggerita dalla tradizione giudaica circa il dono della legge o della parola al Sinai. Secondo una tradizione testimoniata da Filone e dai Targumim, la voce di Dio si divise in più lingue (Tg Dt 32,2), addirittura in 70 lingue perché tutte le nazioni potessero comprendere. Luca vuole dire che TUTTI sono ora abilitati dal dono dello Spirito ad essere profeti. La vera identità della comunità non si fonda sulla legge, ma sul comune dono ricevuto E sarà questo dono che permetterà di penetrare la legge e di viverla dall’interno realizzando la profezia di Ger 31,31-34 e di Ez 36,25-28.

     Che sia finito il tempo di gruppi elitari, lo si capisce dal concetto di totalità, ben espresso mediante un elenco di diversi gruppi di giudei che provenendo da varie parti, sentono un solo linguaggio. Si incontra infatti una lista di 13 popoli e paesi che Luca riporta per sottolineare, secondo la geografia imperiale dell’epoca, il senso di universalità. La lista è divisa in tre parti. Dapprima compare un gruppo di tre popoli che si trovano oltre il confine orientale dell’impero: «Siamo parti, medi ed elamiti» segue un secondo gruppo con nove regioni: «abitanti della Mesopotamia…»; un terzo gruppo si differenzia dai precedenti presentandosi così: «Romani qui residenti». Si distingue poi tra «Giudei e proséliti» (differenze etnico-religiose) e «cretesi e arabi», equivalente alla distinzione tra «abitanti delle isole e della terra ferma» (differenza culturale). Come si può osservare, la linea geografica si è mossa dall’area mediorientale per arrestarsi a Roma, dopo essere passata per le zone intermedie che collegano idealmente Gerusalemme con Roma. In quel giorno a Gerusalemme sono convocati i rappresentanti dei futuri cristiani. Insomma, il dono dello Spirito arriva a tutti.

     Lo Spinto non restituisce agli uomini un identico linguaggio ma permette agli apostoli di parlare a individui di ogni lingua e di essere da loro compresi. Si scorge l’intento universalistico della Chiesa che hanno dalla sua origine. Sa missione di portare a tutti i popoli il messaggio del suo Signore.

     Lo Spirito dono del Padre richiesto da Gesù, ha pure una sua ‘sacramentalità’ che la prima lettura si impegna a registrare. Non si tratta di una ‘fotografia’, ma neppure di un vago simbolo. Il testo registra dei fatti arricchiti da quella comprensione piena che permette di cogliere la sostanzialità degli eventi. Una fotografia mostra senza spiegare un simbolo spiega senza mostrare. Dalla combinazione nascono le pagine evangeliche e di tutto il N.T.: felice connubio tra storia e teologia (cf. Dei Verbum, 19).

  

Seconda lettura: Romani 8,8-17 

Fratelli, quelli che si lasciano dominare dalla carne non possono piacere a Dio. Voi però non siete sotto il dominio della carne, ma dello Spirito, dal momento che lo Spirito di Dio abita in voi. Se qualcuno non ha lo Spirito di Cristo, non gli appartiene. 

Ora, se Cristo è in voi, il vostro corpo è morto per il peccato, ma lo Spirito è vita per la giustizia. E se lo Spirito di Dio, che ha risuscitato Gesù dai morti, abita in voi, colui che ha risuscitato Cristo dai morti darà la vita anche ai vostri corpi mortali per mezzo del suo Spirito che abita in voi. Così dunque, fratelli, noi siamo debitori non verso la carne, per vivere secondo i desideri carnali, perché, se vivete secondo la carne, morirete. Se, invece, mediante lo Spirito fate morire le opere del corpo, vivrete. Infatti tutti quelli che sono guidati dallo Spirito di Dio, questi sono figli di Dio. E voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto lo Spirito che rende figli adottivi, per mezzo del quale gridiamo: «Abbà! Padre!». Lo Spirito stesso, insieme al nostro spirito, attesta che siamo figli di Dio. E se siamo figli, siamo anche eredi: eredi di Dio, coeredi di Cristo, se davvero prendiamo parte alle sue sofferenze per partecipare anche alla sua gloria.

 

Il cap. 7 si chiudeva con una angosciosa domanda alla ricerca di un liberatore e contemporaneamente con la serena speranza di poterlo trovare in Cristo: a lui veniva indirizzata una preghiera di ringraziamento. Il cap. 8 dà spessore storico-teologico a tale speranza ed ha come tema la nuova condizione esistenziale del credente, ormai liberato dalla potenza del peccato, dalla morte e della legge e in tensione, sotto la guida e la mozione dello Spirito, verso la pienezza della redenzione.

     Lo Spirito è il centro focale del cap. 8: lo si nota anche statisticamente perché ritorna 20 volte in questo capitolo su un totale di 32 in tutta la lettera. Qui, tra l’altro, è posto in antitesi con la carne. L’antitesi Spirito-carne contiene diverse varianti (cf. vv. 4.5.6.8-9.12.13) le quali indicano che la contrapposizione abbraccia l’essere, l’agire, il vivere, l’orientamento, il pensare dell’uomo. Siamo quindi in presenza di determinazioni centrali, essenziali, tanto importanti da determinare il presente e anche il futuro (cf. v. 13).

     L’antitesi paolina non deve essere confusa o assimilata con altre che potrebbero sembrare simili, mentre sono in realtà profondamente diverse. Il mondo greco, per esempio, conosceva l’antitesi tra anima e corpo, la prima spirituale e immateriale, il secondo concreto e materiale. Paolo si orienta molto diversamente: per lui l’antitesi ha carattere dinamico, esistenziale e coglie l’uomo come unità psicofisica e non come composto, alla maniera greca. Per Paolo lo Spirito e la carne sono due opposti dinamismi che orientano radicalmente tutta la vita. Inoltre lo Spirito non rappresenta una possibilità autonoma dell’uomo, un pos-sesso che si ritrova fin dalla nascita solo perché si è uomini, ma è un dono di Dio.

     È di questo dono che bisogna vivere, per non essere debitori alla carne, principio della prassi egocentrica. Paolo ricorda la scelta fatta dai cristiani di Roma e illustra, in modo chiaro, la dimensione trinitaria della vita: «Voi però non siete sotto il dominio della carne, ma dello Spirito, dal momento che lo Spirito di Dio abita in voi. Se qualcuno non ha lo Spirito di Cristo, non gli appartiene» (v. 9). Non avere lo Spirito equivale a privarsi del dono di Dio, della sua stessa vita, che al v. 10 riprende il nome di ‘giustificazione’, tema ampiamente trattato nei capitoli precedenti. Ora lo stesso tema si arricchisce, sia contenutisticamente perché, si comprende l’azione dello Spirito, sia linguisticamente, perché si introduce il concetto di ‘vita’ (cf. v. 11). Quello di vita è un termine facilmente comprensibile che illustra ulteriormente quello meno comune di giustificazione.

     Dopo aver trattato dell’antitesi Spirito-carne, prende avvio il tema della figliolanza divina che si spinge fino al v. 30 (ben oltre il brano liturgico). L’esperienza dello Spirito è tematizzata come esistenza da figli di Dio. È la vita dinamica, ancora in fase di sviluppo come si vede dal tema dell’attesa, ma già orientata verso la meta. Il v. 14 e la tesi teologica che regge tutto il brano, fondata su due poli, la guida dello Spirito e la figliolanza divina: la seconda dipende dalla prima.

     Lo Spirito, principio di vita nuova in quanto abilita ad essere figli di Dio, è anche principio di preghiera nuova. Tale novità non si limita al solo insegnamento, ma egli stesso prega in noi. Non dice quello che dobbiamo fare, ma lo fa con noi. Egli ci fa dire Abbà. Formula sconosciuta al giudaismo, è invece caratteristica del Figlio di Dio, Gesù Cristo. Lui solo poteva dire in tutta libertà tale titolo (cf. Mc 14,36), e lui solo poteva autorizzare i credenti a ripeterlo (cf. Gal 4,6). Giunge così a conclusione il cammino dell’Antica Alleanza: si era partiti da una paternità rispettosa ma lontana, e si arriva ad una paternità, sempre rispettosa ma confidenziale. Gesù ha insegnato a colloquiare con Dio con il linguaggio semplice, spontaneo e fiducioso del bambino che si rivolse a suo padre chiamandolo teneramente ‘papà’, ‘babbo’. È lo Spirito che fa ripetere questa dolce parola, che infonde il sentimento della figliolanza divina che ci fa sentire figli di Dio (cf. v. 16). Anche da questa prospettiva si coglie la dimensione trinitaria della vita cristiana.

 

Vangelo: Giovanni 14,15-16.23-26

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Se mi amate, osserverete i miei comandamenti; e io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Paràclito perché rimanga con voi per sempre. Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui. Chi non mi ama, non osserva le mie parole; e la parola che voi ascoltate non è mia, ma del Padre che mi ha mandato. Vi ho detto queste cose mentre sono ancora presso di voi. Ma il Paràclito, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, lui vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto».

 

Esegesi 

     Si comprende la scelta del brano evangelico nel contesto della solennità odierna. Il testo tratta ovviamente dello Spirito Santo, presentando alcuni aspetti della sua molteplice attività. Da quello che Egli fa, veniamo a sapere qualcosa di quello che Egli è. Egli agisce in stretta relazione sia con Gesù e il Padre, sia con la comunità ecclesiale, rappresentata dai discepoli.       

     All’interno dei discorsi di addio Giovanni inserisce cinque affermazioni tipiche e originali sullo Spirito Santo, chiamate spesso dagli studiosi ‘le cinque promesse’. Diamo una essenziale mappa di orientamento. La prima e seconda promessa sono all’interno del primo discorso (14,16-17 e, 14,26), la terza nel secondo discorso (15,26-27), la quarta e la quinta nel terzo discorso (16,5-11 e 16,12-15). Il nostro brano contiene le prime due.

     Vi troviamo, per lo Spirito, il particolare titolo «Paraclito». Esso compare in tutto il NT cinque volte e ricorre solo nei discorsi di addio (Gv 14,16.26; 15,26; 16,7) e nella prima lettera di Giovanni (1Gv 2,1). Doveva essere un termine noto ai primi destinatari, perché provvisto di articolo determinativo; lo è meno per noi. Il significato base è quello di ‘chiamato presso’ (dal greco kaléo ‘chiamare’ e pará ‘presso’, cf. latino advocatus, italiano ‘avvocato’). Non sembra avesse un significato tecnico, indicando piuttosto un amico o una persona di fiducia ‘chiamata in aiuto’ in occasione di crisi o difficoltà. La radice greca indica anche il conforto, la consolazione che, sappiamo da altri scritti (cf. 1Cor 14,1-3; At 9,31) apparteneva all’attività dello Spirito. Da qui i tentativi di traduzione italiana che propongono «Avvocato» o «Consolatore» (testo ufficiale), cogliendo aspetti veri ma, tutto sommato, sempre parziali. Nell’impossibilità di trovare un equivalente esatto, molti preferiscono usare anche in italiano il termine greco «Paraclito».

     Un’abbagliante luce pasquale si stende sul presente brano e su tutti i discorsi di addio. La dipartita di Gesù non è una partenza senza ritorno, né una partenza infruttuosa. Con la sua morte e risurrezione egli «prepara un posto», cioè rende possibile ai discepoli la comunione con il Padre. Non si tratta, ovviamente di un posto in senso spaziale o geografico, ma di un ‘luogo teologico’ nel senso di immettere i discepoli nel circuito della relazione trinitaria. Il posto potrebbe essere meglio definito come ‘incontro’ con la persona del Padre. Cristo è colui che è via, o mezzo, che rende possibile tale incontro. Quello che è stato Gesù durante la sua presenza fisica, lo sarà lo Spirito nel ‘tempo della Chiesa’. Gesù aiuta i suoi a sbirciare un poco nella vita eterna. Egli diventa la via che conduce al Padre al quale lo lega una relazione unica, espressa precedentemente con una frase lapidaria che vale un trattato di teologia: «Io e il Padre siamo una cosa sola» (Gv 10,30). Grazie a questa comunione di vita, aggira il problema della inaccessibilità del Padre e ne diventa il rivelatore per eccellenza: «Filippo, chi ha visto me ha visto il Padre» (Gv 14,9).

     Nonostante queste fulminanti rivelazioni, i discepoli si trovano nella zona d’ombra di smarrimento interiore perché Gesù ha annunciato la sua dipartita. Egli allora enuncia la prima delle cinque promesse dello Spirito (vv. 16-17). Notiamo che Gesù parla di «un altro Paraclito», ovviamente perché ritiene se stesso il primo Paraclito; egli ha assicurato ai discepoli la sua presenza e ha svolto la funzione di guida, compiti che ora trasmette allo Spirito.

     Il v. 26 concentra l’attenzione sulla natura del rapporto misterioso che unisce l’insegnamento dello Spirito e quello di Gesù. Nel «mio nome» indica la perfetta comunione con il Padre e il Figlio nella missione dello Spirito. Se lo Spirito è inviato nel nome di Gesù, allora suo compito sarà quello di rivelare il Cristo, di fare conoscere il suo vero nome di Figlio di

Dio che esprime sotto il mistero della sua persona. L’insegnamento dello Spinto e la sua azione di ricordare hanno un unico e medesimo oggetto: l’insegnamento di Gesù nel suo insieme. Di conseguenza non esiste un insegnamento dello Spirito indipendente da quello di Gesù. Il fatto è di grande importanza teologica perché si dice che lo Spirito non apporta

nulla alla rivelazione di Gesù, il solo che sia LA PAROLA (Logos). L’attività dello Spirito sarà eminentemente attività di interiorizzazione di quello che Gesù ha detto e fatto.

     Esiste quindi una continuità tra l’opera di Gesù e quella dello Spirito, pur nel diverso tipo di presenza. Tale continuità viene evidenziata dall’attività dello Spirito che riprende, per una interiorizzazione e comprensione più matura, l’insegnamento di Gesù (vv. 25-26). Il ‘nuovo Paraclito’ avrà la funzione di continuare, quasi di prolungare, l’attività di Gesù. Vediamo alcuni paralleli: Gesù pregherà il Padre perché lo Spirito rimanga con i credenti per sempre (14,16); attraverso tutto il IV Vangelo si dice che Gesù è stato con i suoi (3,22; 6,3); soprattutto durante l’ultima Cena Gesù richiamerà questi rapporti familiari. In 14,26 si dice che lo Spirito dovrà insegnare; Gesù è sempre stato maestro (6,59; 7,14). Più avanti, fuori dal testo proposto dalla liturgia odierna, in 16,8 lo Spirito mette in luce il peccato del mondo; Gesù non solo è la luce che fuga le tenebre del mondo, ma pure denuncia ripetutamente il peccato dei suoi avversari (8,21).

     Inoltre Gesù rimprovera al mondo di non essersi accorto della presenza dello Spirito nella sua missione terrena: ecco il significato del ‘non vedere’ e quindi del ‘non conoscere’ (cf. v. 17). Il rifiuto di Gesù da parte del mondo, cioè i Giudei, è il rifiuto dello Spirito. In ben altra situazione si trovano i discepoli che hanno accolto Gesù.

     Quello dello Spirito è un dono che Gesù chiede al Padre. Ne viene un bel quadro che raffigura i discepoli in intima relazione con la Trinità. La comunità non è qui sola, né abbandonata alla furia devastatrice del mondo, perché la presenza dello Spirito la conforta rassicurandola che Gesù è sempre con lei, vivo e operante: è un perenne annuncio pasquale. Nasce una nuova famiglia, amata dal Padre, fondata da Gesù, animata dallo Spirito.

Meditazione 

     «Mentre stava compiendosi il giorno della Pentecoste» (At 2,l): Luca introduce il racconto della discesa dello Spirito sugli apostoli radunati a Gerusalemme sottolineando che ciò che accade è un evento di compimento. Si compie la Pentecoste, si compiono i cinquanta giorni della Pasqua. Nella discesa dello Spirito Santo giunge a compimento il mistero pasquale, proprio perché lo Spirito ci viene donato per renderci pienamente partecipi della morte e risurrezione del Signore Gesù; del suo amore e dell’amore del Padre che in modo insuperabile la Croce rivela; della vita nuova e risorta che dalla Croce scaturisce.

     San Paolo lo ricorda con vigore nel brano della lettera ai Romani che ascoltiamo come seconda lettura nell’eucaristia di questo giorno. «E se lo Spirito di Dio, che ha risuscitato Gesù dai morti, abita in voi, colui che ha risuscitato Cristo dai morti darà la vita anche ai vostri corpi mortali per mezzo del suo Spirito che abita in voi» (v. 11). Poco dopo aggiunge: «tutti quelli che sono guidati dallo Spirito di Dio, questi sono figli di Dio. E voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto lo Spirito che rende figli adottivi, per mezzo del quale gridiamo: “Abbà! Padre!”» (vv. 14-15).

     Nello Spirito diveniamo eredi di Dio e coeredi di Cristo: quello che lui vive e che costituisce la sua più intima identità – la comunione d’amore con il Padre – ci viene comunicato. Per questo motivo, in un altro passo delle sue lettere, Paolo può affermare che «il Signore è lo Spirito e, dove c’è lo Spirito del Signore, c’è libertà» (2Cor 3,l7). Infatti, solamente nello Spirito possiamo gridare «Abbà, Padre»; è lo Spirito a donarci la libertà dei figli, unificando la nostra vita e trasformandola in un’esistenza filiale, in un vivere da figli e non più da schiavi. Il che implica riconoscersi figli dello stesso Padre e fratelli tra di noi, chiamati ad accoglierci e a comprenderci nonostante la diversità delle lingue parlate da ciascuno. Il segno della Pentecoste fa di Gerusalemme il compimento di quel desiderio che gli uomini avevano cercato di appagare in modo confuso progettando Babele, come città agognata «per non disperderci su tutta la terra» (cfr. Gen 11,4). Non si può edificare la città di una pacifica convivenza tra gli uomini imponendo a tutti di parlare la medesima lingua. È, al contrario, necessario accogliere il dono dello Spirito che consente di comprendersi continuando ciascuno a parlare la «propria lingua nativa» (cfr. At 2,6.8). Lo Spirito dona la pos-sibilità di questa reciproca comprensione proprio perché insegna a ogni lingua che è sulla terra a gridare – anche in questo caso nella ‘lingua nativa’ della propria cultura e della propria tradizione religiosa – «Abbà, Padre». La dimensione orizzontale della comunione tra gli uomini può fondarsi unicamente sulla dimensione verticale della loro comunione con Dio, riconosciuto Padre di tutti. Quello che avviene nella Gerusalemme descritta dagli Atti prefigura la Gerusalemme profetizzata dall’Apocalisse, costruita non con mattoni tutti uguali come Babele, ma con pietre preziose, ciascuna diversa dall’altra e rilucente della propria bellezza. La Gerusalemme dell’Apocalisse è insieme città e sposa. L’immagine della sposa allude all’unicità della relazione con il Signore; quella della città alla pluralità di relazioni che gli uomini vivono tra loro. Non si può diventare città senza essere sposa, così come l’essere sposa fa di Gerusalemme una vera città. La relazione con Dio nella quale lo Spirito ci conduce, rendendoci suoi figli ed eredi, fonda un diverso modo di essere in relazione tra noi, non più segnato dalla diffidenza e dall’ostilità, o più semplicemente dall’indifferenza, ma aperto all’accoglienza vicendevole, nella tensione incessante a superare gli steccati dell’incomunicabilità e dell’incomprensione.

     Tutto questo non viene semplicemente dallo sforzo umano, ma dall’agire dello Spirito in noi, come frutto maturo della Pasqua di Gesù e dell’amore trinitario che in essa si è manifestato. L’amore fino al compimento (cfr. Gv 13,1) non si arresta prima di giungere a questa soglia, a divenire cioè amore che si compie in noi, consentendoci di amare come siamo stati amati. Anche questo è il dono dello Spirito Santo nella nostra vita: l’amore con il quale il Padre e il Figlio si amano fino a essere una sola cosa, ci viene donato affinché anche noi possiamo divenire uno (cfr. Gv 17,22-23), dimorando stabilmente in questo stesso amore che, direbbe san Paolo, lo Spirito riversa nei nostri cuori (cfr. Rom 5,5).

     Questo è anche l’annuncio fondamentale che ci raggiunge oggi attraverso il brano evangelico di san Giovanni. Anzi, l’evangelista giunge ad affermare qualcosa di ancora più audace e insperato: «Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui» (v. 23). Occorre rimanere nell’amore custodendo la parola di Gesù. Non si tratta tanto della necessità di osservare un comando estrinseco, proposto o imposto all’obbedienza della nostra libertà; piuttosto è necessario accogliere nella parola di Gesù un principio vitale, che manifesta la sua efficacia proprio comunicandoci l’amore stesso di Dio che, mediante la parola ascoltata e accolta, viene ad abitare in noi e ci trasforma, rendendoci capaci di amare come lui ci ama. Il ‘come’ va inteso non in senso imitativo, ma fondativo. Non significa tentare come possiamo, confidando in noi stessi e nelle nostre deboli forze, di imitare l’amore di Dio che Gesù ci rivela; significa piuttosto che sul fondamento di quell’amore, che la parola ci testimonia e ci comunica, ancorandoci a esso e non a noi stessi, diveniamo capaci di una misura di amore che altrimenti non sarebbe nelle nostre possibilità. Se custodiamo la parola in noi, la parola stessa ci condurrà a dimorare stabilmente nell’amore. Riprendendo le immagini dei vangeli Sinottici (cfr. soprattutto il discorso parabolico di Mc 4), possiamo dire che la parola è un seme che porta il frutto abbondante dell’amore. Anche se è indispensabile l’accoglienza del terreno buono, il frutto non dipende dalla qualità del terreno, ma dalla potenza racchiusa nel

seme stesso. Giovanni tuttavia non si accontenta di questa affermazione, si spinge oltre: non solo l’amore di Dio rimane in noi come fondamento delle nostre relazioni; il Padre e il Figlio stessi verranno a prendere dimora presso di noi! Non solo l’amore come dono di Dio, ma la sorgente dell’amore, il Donatore stesso – il Dio-Trinità – viene a dimorare in noi per fare della nostra esistenza il tempio della sua Gloria.

     L’alleanza ora davvero si compie. Tra l’uomo e Dio non c’è più solamente un patto stipulato tra due soggetti, come tale sempre esposto all’infedeltà da parte di uno dei due contraenti (in questo caso l’uomo), e non c’è neppure semplicemente una Legge da osservare come condizione del patto stesso. Ora c’è una reciproca appartenenza nella comunione, addirittura un dimorare l’uno nell’altro. L’uomo dimora in Dio che è amore, il Dio-amore dimora nell’uomo. A sigillare il patto non è più l’osservanza della Legge, il cui dono veniva celebrato nella Pentecoste ebraica; ora è lo Spirito stesso che rimane con noi per sempre. È il respiro di Dio che diviene il nostro respiro; il suo cuore intimo e segreto che trasforma il nostro cuore; l’amore tra il Padre e il Figlio che diviene fondamento e nutrimento del nostro stesso amore. L’amore diviene legge interiorizzata in noi dallo Spirito o, in termini capovolti, lo Spirito interiorizza la Legge in noi unificandola intono al comandamento nuovo, sintesi e compimento di tutti i precetti dell’Alleanza.

     Lo Spirito, promette Gesù, rimarrà con noi «per sempre» (cfr. v. 16). Per sempre non indica solamente una durata temporale. Assicura alla nostra vita che lo Spirito rimarrà con noi anche nei tempi e nei luoghi del nostro peccato e della nostra lontananza da Dio, purché custodiamo la parola di Gesù. Non innanzitutto nel senso che le obbediamo fedelmente e senza incrinature (chi di noi ne sarebbe capace?), ma nel senso che diamo credito alla sua promessa, affidandoci alla sua potenza di perdono e di misericordia. Non è una parola qualsiasi quella che dobbiamo custodire, ma quella Parola, l’ultima e definitiva parola pronunciata dal Padre, senza pentimento alcuno, che è la parola della Pasqua, la parola della Croce. Quella Parola che è il Figlio stesso, crocifisso e risorto per noi e per la nostra salvezza. Nel soffio del suo respiro – lo Spirito Santo – il Padre torna a pronunciare in noi la sua Parola che è il Figlio, per conformarci a lui e chiamare anche noi a divenire suoi figli adottivi. Lo Spirito che abbiamo ricevuto, ci ricorda ancora san Paolo, non è uno Spirito da schiavi, tale da imprigionarci nella paura, ma uno Spirito da figli, che liberando il nostro cuore lo introduce nell’affidamento pieno a colui che possiamo invocare con verità e fiducia come il nostro Abbà, il nostro Padre.

Preghiere e racconti

La Pentecoste

La struttura dell’icona ricorda l’Ultima Cena: allora gli apostoli si stringevano intorno a Gesù per accogliere il suo testamento, ora si raccolgono intorno a Maria per perseverare nella preghiera, in attesa dello Spirito Paraclito. La scena si svolge nella stessa stanza che vide Cristo istituire l’Eucaristia, la «camera alta» di Sion. La comunione di quanti credono in Cristo è custodita dalla sollecita premura di Maria, beata perché per prima ha creduto all’adempimento della parola del Signore (cf Lc 1, 45). La Madre di Dio e degli uomini, che ha conosciuto la potenza dello Spirito nell’Annunciazione, rassicura gli apostoli turbati per il forte vento che si abbatte gagliardo e che riempie tutta la casa dove si trovano. Le lingue di fuoco che appaiono, che si dividono e che si posano su ciascuno di loro non provocano nessun incendio, ma illuminano le loro menti e accendono nei loro cuori il fuoco dell’Amore.

In questa Chiesa nascente, lo Spirito Santo riveste di forza gli apostoli, ricorda loro tutte le parole di Cristo e li rende testimoni del Vangelo sino agli estremi confini della terra.

Maria, nuovamente visitata dalla fecondità dello Spirito Santo, diviene Madre della Chiesa, rifugio mirabile dei discepoli che invocano la sua materna protezione.

 

Vieni Spirito Santo.

Vento impetuoso,

fuoco che divora,

ma anche brezza leggera,

scintilla di luce.

Vieni in me.

Parola potente,

ma anche lieve sussurro.

Vieni in me. Fresca cascata,

ma anche rivolo d’acqua che estingue l’arsura…

Dammi occhi nuovi,

dammi ali di libertà,

dammi trasparenza di vita,                

dammi tenerezza e audacia

e attenderò con te,

nella speranza,

il nuovo Giorno.

(Domenica GHIDOTTI, Icone per pregare. 40 immagini di un’iconografa).

Spirito di Dio

Spirito di Dio, che agli inizi della creazione ti libravi sugli abissi dell’universo e trasformavi in sorriso di bellezza il grande sbadiglio delle cose, scendi ancora sulla terra e donale il brivido dei cominciamenti. Questo mondo che invecchia, sfioralo con l’ala della tua gloria.

Spirito Santo, che riempivi di luce i profeti e accendevi parole di fuoco sulla loro bocca, torna a parlarci con accenti di speranza. Frantuma la corazza della nostra assuefazione all’esilio. Ridestaci nel cuore nostalgie di patrie perdute.

Spirito Santo, che hai invaso l’anima di Maria per offrirci la prima campionatura di come un giorno avresti invaso la Chiesa e collocato nei suoi perimetri il tuo nuovo domicilio, rendici capaci di esultanza. Donaci il gusto di sentirci estroversi, rivolti cioè verso il mondo, che non è una specie di Chiesa mancata, ma l’oggetto ultimo di quell’incontenibile amore per il quale la Chiesa stessa è stata costituita.

Spirito di Dio, che presso le rive del Giordano sei sceso in pienezza sul capo di Gesù e l’hai proclamato Messia, dilaga sul tuo corpo sacerdotale, adornalo di una veste di grazia, consacralo con l’unzione e invialo «a portare il lieto annunzio ai poveri, a fasciare le piaghe dei cuori spezzati, a proclamare la libertà degli schiavi, la scarcerazione dei prigionieri, e a promulgare l’anno di misericordia del Signore» (cfr. Lc 4,18-19).

Spirito Santo, dono del Cristo morente, fa’ che la Chiesa dimostri di averti ereditato davvero. Trattienila ai piedi di tutte le croci, quelle dei singoli e quelle dei popoli. Ispirale parole e silenzi, perché sappia dare significato al dolore degli uomini. Così che ogni povero comprenda che non è vano il suo pianto, e ripeta col salmo: «Le mie lacrime, Signore, nell’otre tuo raccogli» (Sal 56,9).

(Don Tonino Bello).

La fiamma dello Spirito Santo

«Lo Spirito Santo accende sempre il suo fuoco, questa fiamma leggera, silenziosa, che non distrugge e anzi è carica di forza salvifica. Dicendo questo, però, sorge spontaneo chiedersi: Arde ancora, oggi, nella Chiesa, questa fiamma? […]. Arde ancora nella Chiesa questa fiamma riconciliatrice e salvatrice, oppure è soffocata dalla polvere e dalle macerie di una quantità di abitudini, istituzioni, paure? Il cristianesimo è ancora fuoco e Spirito, oppure alla fine anche nel cristianesimo è rimasta solo acqua? l’acqua sollevata dalle teorie e dai discorsi ispirati, che cercano invano di nascondere con belle parole la perdita di realtà che vi si cela?

Quasi ogni giorno, traversando piazza San Pietro mentre vado al lavoro, mi capita di incontrare giovani provenienti da ogni parte del mondo che non rincorrono la carriera, non vogliono solo mettersi in mostra, ma che sono colmi della gioia della fede e vogliono servire Cristo. In essi riluce la gioia e il coraggio della conversione a Cristo. Da incontri come questi io vedo che, sì, quella fiamma arde.

E quando incontro uomini nel pieno degli anni che, senza darsi grande importanza, giorno per giorno, con grande pazienza e umiltà, con bontà e costanza, portano avanti una vita spesso difficile – potrei raccontare parecchie piccole storie di bontà, di cui continuamente vengo a conoscenza – allora so che, sì, quella fiamma silenziosa e pur tuttavia potente arde ancora oggi.

E quando vedo dei vecchi che non hanno in sé alcuna amarezza ma la pura e matura bontà che viene dalla fede, dalla prossimità a Dio in Cristo, allora so che, sì, anche oggi nella Chiesa non c’è solo acqua, ma la fiamma dello Spirito Santo.

[…] Certo, se da qualche parte scoppia uno scandalo, lo si viene a sapere subito in tutto il mondo. La fiamma dello Spirito Santo non dà notizie mediatiche, ma è qui ed è ciò in cui confidiamo. Rimettiamoci ad essa e voglia la Pentecoste aprire gli occhi del nostro cuore affinché possiamo vederla di nuovo.

[…] La fede è risanamento e salvezza. Ma non possiamo essere salvati dalla fede se non accettiamo anche il dolore della trasformazione. Nella lingua di Gesù Cristo, «fuoco» è soprattutto una rappresentazione del mistero della croce. Senza questa ardente condivisione della croce non esiste cristianesimo.

Ma il fuoco è anche un’immagine d’amore.

Anzi, in realtà queste due immagini coincidono perché la croce è amore e l’amore è croce: proprio in questo stanno la grandezza e la salvezza, e per averne coscienza la semplice esperienza umana è sufficiente. L’attimo di grande entusiasmo e di coinvolgimento non basta, porta a promesse vuote e a delusioni, se non gli diamo continuità e una forma pura attraverso il quotidiano sopportarsi reciproco e sorreggersi, accettarsi e darsi, maturando un amore reale.

Vieni Spirito Santo! Accendi in noi il fuoco del tuo amore! È una preghiera temeraria, perché chiediamo di essere incendiati dalla fiamma dello Spirito Santo; ma è anche una grande preghiera di salvezza, perché solo questa fiamma ha potere di salvezza. Se ci sottraiamo a essa per voler conservare la nostra vita attuale, perdiamo proprio la vera vita. Solo la fiamma dello Spirito Santo può salvarci, perché solo l’amore redime.

Amen».

(J. RATZINGER [Benedetto XVI], Spirito e fuoco. Discorso tenuto  nel Duomo di Regensburg, 4 giugno 1995 in J. Ratzinger [Benedetto XVI], Vieni spirito Creatore, Lindau, Torino, 2006, 67-76).

«Vieni!»

La Chiesa ha bisogno della sua perenne pentecoste. Ha bisogno di fuoco nel cuore, di parole sulle labbra, di profezia nello sguardo. La Chiesa ha bisogno d’essere tempio dello Spirito Santo, di totale purezza, di vita inferiore. La Chiesa ha bisogno di risentire salire dal profondo della sua intimità personale, quasi un pianto, una poesia, una preghiera, un inno, la voce orante cioè dello Spirito Santo, che a noi si sostituisce e prega in noi e  per noi «con gemiti ineffabili», e che interpreta il discorso che noi da soli non sapremmo rivolgere a Dio. La Chiesa ha bisogno di riacquistare la sete, il gusto, la certezza della sua verità e di ascoltare con inviolabile silenzio e con docile disponibilità la voce, il colloquio parlante nell’assorbimento contemplativo dello Spirito, il quale insegna «ogni verità».

E poi ha bisogno la Chiesa di sentir rifluire per tutte le sue umane facoltà, l’onda dell’amore che si chiama carità e che è diffusa nei nostri cuori proprio «dallo Spirito Santo che ci è stato dato». Tutta penetrata di fede, la Chiesa ha bisogno di sperimentare l’urgenza, l’ardore, lo zelo di questa carità; ha bisogno di testimonianza, di apostolato. Avete ascoltato, voi uomini vivi, voi giovani, voi anime consacrate, voi fratelli nel sacerdozio? Di questo ha bisogno la Chiesa. Ha bisogno dello Spirito Santo in noi, in ciascuno di noi, e in noi tutti insieme, in noi Chiesa. Sì, è dello Spirito Santo che, soprattutto oggi, ha bisogno la Chiesa. Dite dunque e sempre tutti a lui: «Vieni!».

(PAOLO VI, Discorso del 29 novembre 1972).

Non lasciarmi senza il tuo Spirito

O Signore, ascolta la mia preghiera. Tu hai promesso ai tuoi discepoli che non li avresti lasciati soli, ma avresti mandato lo Spirito Santo per guidarli e condurli alla piena Verità.

Mi sembra di brancolare nel buio. Ho ricevuto tanto da te, eppure è difficile per me stare semplicemente quieto e presente dinanzi a te. La mia mente è così caotica, così piena di idee disperse, di piani, di memorie, di fantasie. Voglio stare con te e con te soltanto, concentrarmi sulla tua Parola, ascoltare la tua voce e guardare a te mentre ti riveli ai tuoi amici. Ma, anche con le migliori intenzioni, divago pensando a cose meno impor-tanti e scopro che il mio cuore è attirato verso i miei piccoli tesori senza valore.

Non posso pregare senza la potenza dall’alto, la potenza del tuo Spirito. Manda il tuo Spirito, Signore, affinché il tuo Spirito possa pregare in me, possa dire «Signor Gesù» e gridare «Abbà, Padre».

Io aspetto, Signore, sono in attesa, spero. Non lasciarmi senza il tuo Spirito. Dammi il tuo Spirito che unisce e consola. Amen.

(J.M. NOUWEN, Manoscritto inedito, in ID., La sola cosa necessaria – Vivere una vita di preghiera, Brescia, Queriniana, 2002, 243-244).

Credere nello Spirito santo

Credere nello Spirito santo, nello Spirito di Dio, significa per me ammettere fiduciosamente che Dio stesso può farsi presente nel mio intimo, che egli come potenza e forza di grazia può diventare il signore del mio intimo ambivalente, del mio cuore spesso così insondabile. E, ciò che qui è per me particolarmente importante: lo Spirito di Dio non è uno spirito di schiavitù. Egli è comunque lo Spirito di Gesù Cristo, che è lo Spirito di libertà. Questo Spirito di libertà promanava già dalle parole e dalle azioni del Nazareno. I1 suo Spirito è ora definitivamente lo Spirito di Dio, da quando il Crocifisso è stato glorificato da Dio e vive e regna nel modo di essere di Dio, nello Spirito di Dio. Perciò a piena ragione Paolo può dire: «Il Signore è lo Spirito e dove c’è lo Spirito del Signore c’è libertà» (2Cor 3,17). E con ciò non s’intende soltanto una libertà dalla colpa, dalla legge e dalla morte, ma anche una libertà per 1’agire, per una vita nella gratitudine, nella speranza e nella gioia. E ciò ad onta di tutte le carenze delle strutture e di tutti i tradimenti del singolo. Questo Spirito di libertà, in quanto Spirito del futuro, mi spinge in avanti: non nell’aldilà della consolazione, ma nel presente della prova.

E poiché so che lo Spirito santo è lo Spirito di Gesù Cristo, io ho anche un criterio concreto per saggiare e discernere gli spiriti. Dello Spirito di Dio non si può più abusare come di una forza divina oscura, senza nome e facilmente equivocabile. No, lo Spirito di Dio è con tutta chiarezza lo Spirito di Gesù Cristo. E ciò significa in modo del tutto concreto che né una gerarchia né una teologia e neppure un fanatismo che vogliano richiamarsi allo «Spirito santo» oltre Gesù, possono requisire lo Spirito di Gesù Cristo. Qui hanno i loro limiti ogni ministero, ogni obbedienza, ogni partecipazione alla vita della teologia, della chiesa e della società.

Credere nello Spirito santo, nello Spirito di Gesù Cristo significa per me, anche di fronte ai molti movimenti carismatici e pneumatici: che lo Spirito non è mai una mia propria possibilità, ma è sempre forza, potenza, dono di Dio – da ricevere con fiducia incondizionata. Egli quindi non è un non santo spirito del tempo, della chiesa, del ministero o dell’entusiasmo; egli è sempre il santo Spirito di Dio, che soffia dove e quando vuole, e non si lascia catturare da nessuno: come giustificazione di un potere assoluto di insegnamento e di governo, di infondate leggi dogmatiche della fede o anche di un fanatismo religioso e di una falsa sicurezza della fede. No, nessuno – né vescovo né professore, né parroco né laico – «possiede» lo Spirito, ma ognuno può invocare di continuo: «Vieni, santo Spirito».

Ma, poiché ripongo la mia speranza in questo Spirito, io posso, con buone ragioni, credere non certo nella chiesa, ma nello Spirito di Dio e di Gesù Cristo anche in questa chiesa, che è composta da uomini fallibili come lo sono anch’io. E, poiché ripongo la mia speranza in questo Spirito, io sono preservato dalla tentazione di staccarmi, rassegnato o cinico, dalla chiesa. Poiché ripongo la mia speranza in questo Spirito io, nonostante tutto, posso dire in buona coscienza: credo la santa chiesa. Credo sanctam ecclesiam.

(H. KUNG, Credo)

Preghiera allo Spirito Santo

Spirito Santo, eterno Amore,

che sei dolce Luce che mi inondi e rischiari la notte del mio cuore;

Tu ci guidi qual mano di una mamma;

ma se Tu ci lasci non più d’un passo solo avanzeremo!

Tu sei lo spazio che l’essere mio circonda e in cui si cela.

Se m’abbandoni cado nell’abisso del nulla,

da dove all’esser mi chiamasti.

Tu a me vicino più di me stessa,

più intimo dell’intimo mio.

Eppur nessun Ti tocca o Ti comprende

e d’ogni nome infrangi le catene.

Spirito Santo, eterno Amore.

(Edith Stein [S. Teresa Benedetta della Croce]).

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

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M. FERRARI, monaco di Camaldoli, «Oggi di è adempiuta questa scrittura». Tempo di Quaresima e Tempo di Pasqua, Milano, Vita e Pensiero, 2013.

COMUNITÀ MONASTICA SS. TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade, Milano, Vita e Pensiero, 2008-2009.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. Seconda parte: Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla Risurrezione, Città del Vaticano, Liberia Editrice Vaticana, 2011.

– C.M. MARTINI, Incontro al Signore risorto. Il cuore dello spirito cristiano, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009.

PER L’APPROFONDIMENTO

PASQUA VIII PENTECOSTE C