Jacques Arènes: La quête spirituelle hier et aujourd’hui.

 

 

Jacques Arènes, La quête spirituelle hier et aujourd’hui. Un point de vue psichanalytique, Cerf, Parigi, 2011

 

 

 

La psicanalisi in cerca di fede
intervista a Jacques Arènes, psicanalista,

 

Nel suo ultimo libro, lei commenta la tesi di Marcel Gauchet sull’abbandono della religione
dicendo che è “un’evidenza non così evidente”. Perché?

Che la società non sia più strutturata dall’elemento religioso, è un fatto evidente. Ciò significa che il mondo comune  non si basa sulla religione e che il fatto religioso in quanto strutturante sociale è diventato minoritario.
In compenso, nella costruzione di Marcel Gauchet, ci saranno sempre dei credenti. Ma le credenze riguardano ormai solo la soggettività delle persone. Non possono più basarsi su dati comuni per far esistere la loro fede.
Le comunità esistono ancora, ma il rapporto con la comunità è più fragile. È soprattutto dell’ordine dell’adesione  individuale, che può essere revocata. Sono le persone stesse che portano in sé la fede.
Così, l’abbandono della religione è uno dei fattori che comportano un’evoluzione importante del soggetto  contemporaneo. In sintesi, il rapporto con la religione e con la fede è molto cambiato.

In quanto psicanalista, lei insiste spesso sull’importanza del senso di colpa personale. Il che richiama forse uno degli aspetti del cristianesimo.
Sì, nel mondo cristiano, fin dall’inizio, si credeva al peccato originale. Si condivideva più o meno questa “colpa”. Era impossibile esserne esenti, anche se si era comunque assolti. Trovo questo profondamente liberante.

Liberante?
Sì, il senso di colpa, quando non scade in un aspetto morboso, è libertà. Il fatto di avere un rapporto personale e  soggettivo con la colpa, davanti all’altro – il prossimo e/o Dio – è molto importante per la libertà di ciascuno.
Ma oggi siamo in una società che si vuole de-colpevolizzata. Invece di cercare “colpe” personali, si rinvia a “colpe” collettive identificando dei gruppi di “cattivi”. Spesso non si è lontani dal pensare che i colpevoli siano in realtà  vittime. Di fatto, ci si interesse di più delle vittime che dei colpevoli e si mette in primo piano una posizione vittimistica.
Secondo me, questo pone un problema: è un modo di togliere la responsabilità alle persone e quindi la loro libertà.  Perché quando si è colpevoli e responsabili dei propri atti, si è liberi. In particolare si è liberi di non fare errori, ma  anche, semplicemente, di costruire la propria vita.


Ma non ci si può esentare dalla “colpa”?

Quest’idea che ci si possa premunire contro la “colpa”, essere dalla parte dei puri, di coloro che sono in buoni rapporti  con gli altri, è molto “imprigionante”. Molte persone pensano ad esempio che si possa evitare di commettere errori se   appena si è un po’ informati. Così, sono sprovvedute di fronte alla violenza, a volte alla loro violenza, e di fronte ai  conflitti in generali. Ora, bisogna avere il realismo della fallibilità. C’è una opacità della vita umana che fa sì che non si  possa sempre evitare di commettere errori.

Per esempio nella vita di coppia…
Si ha una visione della vita di coppia molto irenica: una vita di coppia sarebbe una vita coniugale senza conflitti. Perché  ltrimenti vorrebbe dire che non si sta bene insieme. Ma certi conflitti sono normali! La vita con qualcuno per  trent’anni, non è semplice. Soprattutto oggi quando i ruoli non sono più fissi come lo erano un secolo fa. A volte, gli  sposi avevano delle vite parallele. Si è molto più vicini oggi, e si fanno molte più cose insieme. Questo provoca conflitti  e rivalità. Tutto ciò fa parte della vita di coppia. Ma non vi siamo necessariamente preparati.

Le religioni sarebbero più “realiste” di quello che propone la psicologia?
Nelle religioni c’è un realismo di fondo della vita: la vita non è quello che si percepisce immediatamente. C’è anche un  realismo sulla sofferenza, sui limiti della vita, sulla fragilità e sulla vulnerabilità, anche sulla colpa. Certo, vogliamo  essere persone “buone”, ma non ci riusciamo sempre. È la vita.
Questo realismo esiste anche, certamente, nella psicanalisi. Le religioni sono particolarmente realiste in rapporto alle  questioni ampiamente rimosse oggi, come la fine della vita e il lutto. Tutti affronteremo questo problema. Ma la nostra  società non propone che soluzioni dell’ordine della potenza. In quanto l’idea è di invecchiare restando giovani, o di  scegliere una “buona morte”. È un tranello.
Il cristianesimo ci insegna anche che si può scegliere una maggiore libertà interiore…, anche a costo di una certa  sofferenza. Penso che non si debba eliminare completamente l’idea che nelle nostre vite ci siano mancanze. La vita  cristiana postula che si possa attraversare la sofferenza con una forza che accompagna la persona.

Storicamente, la psicanalisi e la religione non funzionano bene insieme. Con la sua tesi, si ha l’impressione di assistere però ad un dialogo fruttuoso.
Sì, questa tesi ne è la prova! Quando l’ho sostenuta, non ho visto ostilità nel mondo universitario.
Vent’anni fa, ci sarebbe stata un’accoglienza più fredda.
È vero che il concetto di guarigione in psicanalisi è abbastanza vicino a quello del giudeocristianesimo.
Gli psicanalisti non cercano la “guarigione” nel senso del benessere. Qualcuno che ha perso i figli in un incidente di  macchina non sarà mai più come prima. Si tratta proprio di trovare uno stato di libertà interiore, in rapporto alla sofferenza.
Ma la psicanalisi e la religione sono in parte irreconciliabili, soprattutto in Europa, dominata dalla psicanalisi  freudiana. Per Freud, nato in un secolo positivista, l’inconscio è puramente laico.
Per molto tempo, gli psicanalisti tendevano a dire: dell’interiorità dell’essere umano, tocca a noi occuparci, è il nostro  territorio ed è puramente laico. L’essere umano diventa così in fondo padrone e possessore di se stesso. Ma subito si  scontra con ciò che è sconosciuto dentro se stesso. Del resto, è per questo motivo che le persone vanno dagli  psicologi/psicanalisti.
Oggi, gli psicanalisti diffidano meno delle religioni. Il vero pericolo per gli psicanalisti non sono più le religioni, ma  tutte le concezioni di pensiero puramente materialiste. Come certe derive naturaliste delle neuroscienze, che ci  spiegano che lo spirito umano è un po’ come un hardware, come un “cablaggio” neuronico e che noi saremmo tutti  determinati dai nostri neurotrasmettitori.

Si vede un numero crescente di cristiani che si dicono “convertiti”. Che cos’è la conversione
per uno psicanalista?

Penso che la conversione risponda ad un’attesa molto forte di trasformazione personale attraverso il fatto religioso. Corrisponde al nostro tempo. Le persone sono più sole e meno “costruite” di prima.
Il mondo comune le sostiene meno.
Di conseguenza, si ha un bisogno molto forte di cambiare. Lo si vede bene nel mondo dei carismatici. Le persone si  aspettano che la religione le aiuti a costruirsi concretamente, non solo moralmente. La religione diventa così uno  strumento di trasformazione. Forse è questo che la religione può insegnare alla psicanalisi.

 

a cura di Henrik Lindell
in “www.temoignagechretien.fr” del 18 ottobre 2011 (traduzione: www.finesettimana.org)

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